L’ANGOLO DELLA CULTURA
DA ATENE ALL’E-MAIL OVVERO DALLA REALTÀ ALLA TV
Nel mondo ateniese del secolo V avanti Cristo, in cui videro la luce la maggior parte delle tragedie che ancora oggi costituiscono il patrimonio base della grande letteratura teatrale e del sentire umano, partecipare alle rappresentazioni (gli Agoni tragici) era considerato un dovere civico a cui i cittadini ateniesi non dovevano sottrarsi.
Si trattava di concorsi a carattere anche religioso in onore di Dioniso, di cui sulla scena si trovava l’altare.
Ad alcuni cittadini veniva perfino retribuita la giornata lavorativa perché gli spettacoli (che erano sempre delle “prime”) occupavano l’intera giornata. Si trattava di tre tragedie rappresentate l’una dopo l’altra, e seguita da un “dramma satiresco” più leggero e buffo destinato ad allentare la tensione.
La “catarsi”, la purificazione dell’anima attraverso la contemplazione di vicende, tese a mettere in luce le colpe a volte anche involontarie che sempre venivano punite dagli dei costituiva lo scopo ultimo di questi obblighi.
A commentare le vicende era il “corifeo”, capo del coro, voce recitante che interpretava gli avvenimenti, mentre il coro danzava e cantava. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto (con meriti e valori assai minori) in certe rappresentazioni teatrali del ’500, per lo più a carattere religioso. È evidente che anche allora lo spettacolo a cui si assisteva aveva lo scopo di influenzare profondamente l’animo di quanti vi assistevano.
Nell’antica Atene gli spettatori costituivano una parte ridotta della popolazione della polis, perché pochi avevano i diritti completi di cittadinanza. È innegabile che oggi la maggior parte delle reti televisive sembrino fare a gara nell’insistere in maniera ossessivamente ripetitiva sui particolari più macabri e paurosi o disgustosi dei delitti di ogni genere che si verificano nel mondo.
Questo, dicono, per rispettare il diritto delle persone a essere informate. A questo proposito si parla spesso di audience (anche se ci sarebbe molto da dire sulla validità delle percentuali raccolte sempre in modo piuttosto rigido e ripetitivo). In base a ciò pare si debba desumere che la maggior parte della gente gradisca in modo particolare questa ossessività ripetitiva, un po’ come ai bambini piace “provar paura”, quando chiedono di riascoltare più volte le favole particolarmente raccapriccianti. Forse si tratta di una maniera di sentirsi vivi nella monotonia della vita quotidiana, soprattutto oggi, in mezzo al generale continuo deteriorarsi del sistema economico mondiale. Tuttavia l’esposizione di fatti di sangue, di odio e di vendette che la televisione odierna rivolge a tutti non è certo filtrata attraverso l’anima di un grande artista.
La gente che cerca spiegazioni rassicuranti al crimine spesso probabilmente le trova nell’etichetta di “follia” applicata alla maggior parte dei delitti: ciò consente di porre una distanza emotiva fra il sé e quanto accade nel mondo. Finché ci si sente capaci di giudicare ci si percepisce come salvi, “normali”. È questo un modo di trasferire, come sempre è avvenuto, la paura dalla “peste” all’“untore”, secondo quanto afferma il prof. Morcellini, di rassicurarsi con una patente di normalità. Questa costruzione di stereotipi negativi è purtroppo la spia di una recessione mentale verso una condizione primitiva
Non si può negare che tale fatto sia dovuto in gran parte alla forza persuasiva della televisione (il mezzo ormai più acile con cui la gente crede di venire a contatto con la realtà). Il pur minimo sforzo che era richiesto per elaborare, ad ssempio, le informazioni fornite dalla carta stampata viene da essa praticamente annullato: la successione di ondate emotive generata da questo tipo di media rende la gente incapace di giudicare, mentre sollecita il piacere che si può provare nella illusoria convinzione di trovarsi al centro dei fatti, nei luoghi teatro delle vicende.
Non si ragiona, ma si sente, ci si emoziona. Perfino i nostri dibattiti televisivi, che quasi sempre degenerano immediatamente nelle urla con cui ciascuno cerca di sopraffare l’altro sotto lo sguardo tollerante del conduttore fanno regredire la razionalità all’emotività, annullando quasi ogni capacità di giudizio e presentando questa condizione come modello di approccio alla realtà.
Elena Cappellano