Il simbolo dello Sci Club nel 1946
Tutti nella nostra vallata, e non solo, conservano negli occhi l’immagine schematizzata iscritta in un cerchio, dello sciatore piegato in discesa:
immagine che è diventata simbolo dello Sci Club nel 1946
per decisione dell’ingegner Sibille e di Natale Bosticco dello Sci Club di Bardonecchia ed è stata adottata come distintivo. È diventata familiare a tutti i frequentatori della valle proprio in occasione del centenario dello Sci Club di Bardonecchia, subito dopo le Olimpiadi invernali torinesi e negli anni successivi. Tuttavia pochi forse, e anche a Bardonecchia, sanno che quell’immagine è ricavata da una fotografia scattata a Ugo Zappi, maestro di sci, classe 1924, tuttora attivo sulle piste, anche se non più come maestro, perlomeno nel paio di settimane in cui i suoi molteplici impegni, che farebbero invidia a molti giovani di oggi, glielo permettono.
«Di dove arrivi questa volta?», gli ho chiesto quest’anno, poco prima dell’Epifania. «Dalla Nigeria – mi ha risposto –, ma prima di venire qui ho passato qualche giorno a Parigi con i miei, e poi con loro sono stato a Cannes. Sono arrivato qui in treno (Ventimiglia-Cuneo -Torino) perché in definitiva è la strada più breve».
I capelli bianchi e folti (ricordo quelli dei suoi genitori: il mitico professor Zappi, a ottant’anni e più, giocava con noi a pallavolo in quella che adesso è la piazza del mercato di Borgo Vecchio) fanno risaltare i lineamenti arguti del viso abbronzato. In centro, al sommo del cranio, hanno una simpatica sfumatura rosa, che mi fa spalancare gli occhi.
«Spero di non attirare certe simpatie – mi dice scherzoso –, ma con l’umidità si è un po’ sciolto il mercurocromo con cui mi hanno disinfettato dopo che ieri mi è piombato in testa il coperchio del baule della macchina. Sono rimasto un po’ suonato, ma mica poi tanto».
A parer mio, la modestia è la cifra che distingue questo personaggio (nel profilo mi ricorda un po’ Primo Levi, ma forse è perché il suo mestiere mi fa venire in mente il Faussone di “La chiave a stella”).
Nella nostra epoca di insopportabili sbruffoni (non solo televisivi) che non finiscono di vantarsi di ogni minima cosa per scavalcarsi l’un l’altro, sempre continuando a parlare e combinando assai poco, Ugo Zappi non può che riscuotere tutta la mia simpatia.
Non ha niente, quest’uomo piccolino, smilzo e scattante, del patriarca che sarebbe logico aspettarsi: eppure ha un notevole numero di nipoti che gli hanno dato i tre figli, nessuno dei quali purtroppo ha seguito le sue orme. Ricordo quando sua sorella, la mia amica Liliana, mi parlava di lui una quarantina di anni fa: «La sua azienda, che costruisce enormi dighe, lo manda ogni tanto a controllare le condizioni delle medesime. Per far questo deve scendere, equipaggiato con la muta da sub, a bordo di un ascensore fino quasi al fondo dell’invaso, per osservare bene le pareti, come gli è accaduto per la diga di Kariba». Erano i tempi immediatamente successivi alla diga di Assuan, a cui per lungo tempo si sono imputati anche certi cambiamenti del clima, ma che all’Egitto ha portato indubbi vantaggi.
Dell’acqua Ugo Zappi è sempre stato amico, in particolare delle traversate in barca a vela. Anche adesso mi ha detto con la massima naturalezza: «La settimana prossima non sarò libero, perché devo fare il giudice di gara in una competizione velica negli Emirati Arabi».
Già, lui ha lavorato più o meno in tutto il mondo.
«Il Paese che conosco meno è la Cina, perché non ho avuto quasi mai occasione di andarci, se non di passaggio. Però l’azienda in cui lavoro da cinquantacinque anni (prima era solo francese, ma adesso ha delle compartecipazioni internazionali) ha sempre costruito dighe e ponti in tutto ilmondo. Qualche Paese è più difficile, qualcun altro è tranquillo. Però ad esempio in Africa dove sono adesso per lo più, quando ti allontani un po’ dal cantiere, ti devi far accompagnare da una scorta armata fino ai denti. Questo accade soprattutto in prossimità delle feste – ogni gruppo religioso ha le sue – perché la gente cerca un modo facile di procacciarsi il denaro per regali e banchetti».
Tutte queste cose le dice con leggerezza, davanti ai nostri occhi spalancati. «Negli Emirati, per esempio, adesso lavori tranquillo – continua –, ma ricordo che in passato ho girato tanti Paesi grandi e piccoli del Sudamerica, e lì le cose erano
spesso difficili. E poi, nessun cantiere è mai stato chiuso nei tempi previsti. Bisogna essere disposti ogni volta a prolungare il lavoro anche di diversi mesi».
«Le lingue? Beh, per forza uno deve impararne qualcuna, se vuole fare questo mestiere. Anche se la maggior parte della gente che lavora in questo campo mastica ormai abbastanza bene l’inglese che è diventato la lingua internazionale, devi saper parlare spagnolo, un po’ di arabo, un po’ di portoghese (quante volte sono stato in Brasile!), qualche rudimento dei principali dialetti africani. Per fortuna il francese – che ovviamente, dato che casa mia è a Parigi, e che francesi sono mia moglie e i miei figli, anche se io ho sempre il mio passaporto italiano – è la mia seconda lingua. Va bene in tutta l’Africa del Nord, anche se li ti trattano in modo diverso a seconda del Paese. In Algeria, per esempio...».
A questo punto, mentre parla, mi vengono in mente le tante lapidi di giovani che vedo ogni anno, quando vado a portare i fiori ai miei per i Santi, nel Cimitero di Nizza: “Mort pour la Patrie”. «Insomma, in Algeria le cose non sono sempre facili, anche se in questi giorni Sarkozy vuole trasportare le spoglie di Camus nel Pantheon di Parigi».
Un’amica si diverte a proporgli nomi di località poco conosciute in America Latina, in Africa, nell’Europa dell’Est, nel Vicino Oriente.
«Sì, lì ho lavorato tanti anni fa», risponde ogni volta con leggerezza e naturalezza.
Gli occhi chiari sorridono fra le rughe come se riflettessero lo splendore del sole sulla neve delle nostre montagne.
Elena Cappellano