03/06/10

LA PIETRA DI LORENZO (2009)

Racconto dal vero - Millaures agosto 1974
Simona Heoud De Liso è nata a Millaures il 14-7-1922. Ha frequentato, come tutti i bambini di Millaures, con molto impegno e profitto, le tre prime classi della scuola elementare al Borgo Nuovo. Le aule erano ospitate vicino alle osterie: in via Sommeiller, da Pavarino, le prime due e la terza classe presso l’osteria dell’Unione. Per le ultime due classi, come tutti i bambini delle frazioni, si è recata al Borgo Vecchio nell’edificio dove, attualmente, c’è la farmacia comunale.
Prima di sposarsi ed andare ad abitare a Torino, dove èmancata il 14-5 2007, ha lavorato per alcuni anni, presso la contessa Dal Verme a Borgo Vecchio. Ora riposa nel cimitero di Torino: per motivi burocratici non è potuta ritornare vicino alla sua chiesa di Millaures dove sono sempre rimasti i suoi pensieri ed il suo cuore.
La strada che ogni giorno percorrevamo in gruppo per andare a scuola era ripida e sassosa, col ciglio irto di spine, dalle quali, imprudentemente, spesso ci facevamo strappare le calze e i grembiulini neri come le nostre dita al ritorno dalla scuola. D’inverno la mulattiera diventava un canale con alte sponde di neve; e noi in fila indiana, con i ghiaccioli alle calze e la brina sotto il naso, scendevamo taciti poiché il freddo ci mozzava il fiato. Appena la strada s’era fatta più larga col passaggio delle persone e qualcuno con gli sci; allora noi scolaretti, con gli slittini la rendevamo lucida di ghiaccio. Io non avevo nessuna slitta e giungevo al piano seduta sulla cartella, naturalmente sconquassata.
Simona in una foto della sua giovinezza.
In primavera irrompevamo nei teneri prati come le greggi, a cogliere fiori, a fare capriole, a gareggiare a chi buttava più in altro la cartella, ad osservare ed ascoltare i grilli e scoprirne la piccola tana. D’autunno poi, le siepi turgide di bacche dai variopinti colori, ci aspettavano per il nostro appetito all’uscita della scuola e per il gran desiderio di frutta che non avevamo spesso.
Scendevamo per quella via da Millaures, un paesello disseminato in tante borgate sul pendio del monte Jafferau. Chi frequentava le scuole elementari inferiori si fermava al primo borgo di Bardonecchia, per quelle superiori invece si doveva risalire fino alla chiesa di Borgovecchio. Facevamo questo cammino quattro volte al giorno, poiché si andava a scuola anche nel pomeriggio. Erano un po’ più di due chilometri per volta. I nostri compaesani che venivano dalle borgate più lontane dovevano portarsi la colazione del mezzogiorno. Talvolta, quando la neve era molto alta, anche noi delle borgate più basse ci fermavamo nel capoluogo.
Attraversavamo la cittadina troppo spontanei e rumorosi, con le nostre scarpe grosse ferrate, per non scivolare sul ghiaccio, vestiti di lana filata e sferruzzata dalle nostre mamme. E nella nostra bisaccina di stoffa, cucita dalla nonna, avevamo salumi e formaggi tutti di casa, la torta di mele, il buon pane d’orzo o di segala cotto nel grande forno del villaggio. Cammin facendo ci incontravamo con i compagni cittadini; vedendoli mi vergognavo d’essere una  paesanella, poiché Mariolina aveva gli stivaletti e la mantellina col cappuccio; Bice in pelliccia veniva accompagnata dall’attendente del papà. Fernanda giungeva in macchina accompagnata da una elegante signora. Patrizia, una bellissima bambina, prendeva lezioni di pianoforte e Jolandina aveva i ricci d’oro ben curati. Il disagio finiva quando giunti al borgo della chiesa cimescolavamo con altri contadinelli del posto e dei paesetti vicini; ci canzonavamo per le cadenze dei nostri dialetti, ognuno riteneva migliore il proprio e si batteva a spada tratta per difenderlo dal ridicolo. Si arrivava alla piazza della scuola sempre in anticipo per giocare o discutere a crocchi, sui compiti e lezioni; ma un bambino non si mescolava mai agli altri: Lorenzo.
Lorenzo, figlio di contadini del posto, era più povero di noi; lo si vedeva dalla sua giubba grigia piena di rattoppi e dalle scarpe logore e troppo larghe per lui. Il timore d’essere scansato o preso in giro lo rendeva taciturno e solitario; ma la crudeltà sciocca di certe compagne lo raggiungeva coll’irrisione, perché aveva un occhio azzurro e l’altro marrone; allora intervenivo per difenderlo innalzando questa sua caratteristica qualità ad un raro dono. Lui si schermiva dietro un amaro sorriso che presto si spegneva sul volto pallido e smunto.
Dalle finestre della nostra aula vedevamo il campanile bianco della chiesa parrocchiale, che nella lieta stagione era invaso dalle rondini chiassose; allora pensavo guardando Lorenzo, perché mai i bambini non fossero tutti rondinini pieni di gioiosi garriti intreccianti di voli il bel cielo.
Al termine del corso elementare superiore, ognuno di noi s’avviò verso un diverso futuro: i più fortunati andarono in collegio nella grande città lontana per gli studi superiori, altri frequentarono le scuole tecniche o ginnasiali di una cittadina vicina viaggiando in treno. Alcuni rimasero ad aiutare i genitori nei campi. Molti andarono ad apprendere un mestiere. Ci ritrovammo cresciuti a diciotto anni, quando nei paesi si fanno le feste dei coscritti, ma non c’eravamo tutti; mancava Elsa Begnis, quale fragrante fiore, stroncato sullo sbocciare. E mancava Lorenzo, benché ci fosse nel paese.
Lo incontrai un giorno per via, mi accennò un mozzato saluto e arrossendo affrettò il passo; rimasi male quando lo vidi, una grave malattia, probabilmente la scogliosi, l’aveva deformato e gli aveva impedito di crescere. Con animo commosso pensavo lungo il cammino a che cosa dovesse ancora soffrire questo povero figliolo! Possibile che nessuno si fosse interessato di lui e l’avesse fatto curare?!
Dopo molti anni, quando ognuno di noi aveva ormai imbroccato da tempo il cammino della vita, secondo la propria stella, con gioie e dolori per tutti, chi in un modo chi nell’altro (...) sentii parlare della pietra di Lorenzo... Seppi che Lorenzo era diventato pastore di quel borgo, ossia l’incaricato di custodire nei mesi estivi, ai pascoli dell’alta montagna, le pecore di tutti i contadini di Borgovecchio. La sua condizione l’aveva allontanato sempre più dal mondo, povero, diseredato da tutto: affetti, salute, giovinezza e gioia. Aveva preferito la solitudine dei monti in compagnia del suo amico fedele: il cane e delle pecore con i candidi agnelli. Fra cielo e terra, ove l’animo si può pascere di silenzio e delle cose del creato per avvicinarsi a Dio, il solo che ci possa consolare con speranze e nutrirci di fede tra misteri che ci confondono e arricchiscono di luce interiore.
Lassù, solo, esposto al freddo, al vento e a tutte le intemperie, fu colpito da un male che avanzò rapidamente per stroncarlo. E quando, torturato dalle sofferenze, riposava su di una certa roccia, si sentiva alleviare il dolore... Così dopo la scomparsa del pastorello, lassù sul monte, divenne famosa la sua pietra e se ne occuparono certi studiosi... Io però, quando guardo quel valico, penso alla pietra di Lorenzo, quale altare, che raccolse e racchiude il sacrificio di quel povero fratello derelitto, che percorse tanto calvario.

Simona Heoud De Liso