L’ANGOLO DELLA CULTURA
Dal campo di concentramento alla libertà
IL “SAPORE” DELLA PATRIA
UN RICORDO DI GIOVANNI TACCHINO
Primavera 1945. Periodo memorabile, non soltanto per me, ma per tutti gli uomini del mondo. La guerra era alla sua fase decisiva: l’Europa usciva da una guerra lunghissima e sanguinosa, che aveva coinvolto il mondo intero, recando lutti e distruzioni. Da due anni mi trovavo prigioniero in un campo di concentramento del Nord della Germania, dove trascorsi una vita di stenti, di tristezze e con il cuore pieno d’amarezza per vedere come gli uomini trattavano i loro simili. Appunto di quel tempo trascorso in quei campi, lontano dalla mia Patria, avrei molti episodi tristi da raccontare.
Invece, voglio raccontare un episodio lieto, senz’altro il più bello e lieto della mia vita. Avevo allora vent’anni, ero ancora un imberbe per conoscere tanta brutalità umana ed avere esperienza di vita dura. Per l’avvicinarsi dei fronti Est ed Ovest nel cuore della Germania, i tedeschi ci avevano trasferiti da un campo all’altro, ammassati come tante bestie, mischiati con altri prigionieri di diverse nazionalità.
In quegli ultimi mesi di guerra, ci avevano rinchiusi in un Lager ai confini della Danimarca. Eravamo un centinaio d’italiani, un cinquecento russi e circa cinquanta francesi. Tutte le mattine venivamo incolonnati alle sei e accompagnati dalle guardie sul posto di lavoro: una passeggiata giornaliera di circa venti chilometri tra l’andata e il ritorno! Il lavoro consisteva nello sgombero di macerie nella cittadina vicina, bombardata pochi giorni prima. Un lavoro massacrante, ma nulla al confronto del percorso d’ogni giorno.
Il vitto, già scarso, diminuiva giornalmente, il morale era bassissimo. Si sapevano dai civili gli ultimi avvenimenti di quei giorni, ma eravamo scettici nel pensare che la guerra sarebbe finita da un momento all’altro: troppe notizie false erano circolate in quei lunghi anni aumentando così la nostra amarezza. Questa volta, però, la notizia messa in circolazione nel campo, che cioè la guerra era finita, si avverò veramente.
Lo ricorderò sempre: era una bella mattina del mese di maggio del 1945, credo sia stato il 5 o il 6; la primavera era incominciata anche in quei posti desolati del Nord; nonostante tutto, m’accorgevo di quel bel mese, dei fiori e fantasticavo il mio futuro, come fa in genere un giovane di vent’anni. Quella mattina la sveglia fu fatta alle ore 4, dopo aver trascorso una notte di continui allarmi; dal comportamento dei nostri guardiani si capiva che nell’atmosfera c’era qualcosa. I tedeschi, bruschi come sempre, ci contarono diverse volte e ci fecero uscire dal campo, con indosso quei pochi indumenti personali che possedevamo ancora.
Camminammo per tutta quella mattinata: una marcia faticosa, ma nel medesimo tempo lieta; si aspettava che succedesse qualcosa da un momento all’altro; col cuore pieno d’ansia si camminava in silenzio. Giunti nei pressi d’un villaggio, vedemmo il modo insolito d’agire dei militari e civili, che non confaceva al loro carattere; questi ultimi ci guardavano con più benevolenza che nei primi mesi del nostro arrivo in Germania. I soldati che ci accompagnavano, con la scusa di recarsi a cercare dei viveri ad un Comando Militare, non fecero più ritorno. Allora capimmo veramente che la guerra era finita.
Senza perdere tempo percorremmo quella lunga strada a gruppi e, soffermandoci a vedere il caos di quei soldati che si ritiravano dal fronte, qualcuno gridava: «La guerra è finita, tutti a casa!»; pur essendo dei vinti, si leggeva nei loro occhi la grande gioia che era anche in noi.
Mi sentii veramente libero soltanto quando incontrai la prima jeep americana, dalla quale scese un soldato, che ci indicò il posto di raccolta degli italiani. La mia gioia fu al culmine, piansi come un bimbo dalla contentezza, abbracciai tutti i miei compagni, chiamai col cuore ad uno i miei cari, invocai e ringraziai il Signore d’avermi assistito in tutto quel periodo. Subito la mia mente corse alla mia bella Italia, alla mia famiglia e pensai che, finalmente, dopo tante bruttezze, avrei trovato un mondo migliore.