PALA d’ALTARE DEDICATA a SANT’IPPOLITO e SAN GIORGIO
(parte prima)
Ciascuno dei colori costituisce l’oggetto di una voce. La voce del corpo, la voce dell’anima o la voce dello spirito. Per così dire la voce del bene o la voce del male. Il tutto vissuto in un carattere di universalità non soltanto geografica ma storica e simbolica che coinvolge l’uomo e tutte le altre creature dalla luce del giorno al buio della notte.
Al di là dell’immagine
Tanto è difficile interpretare e datare intellettualmente i fatti storici di un dipinto, tanto il clima in cui è vissuta una società può essere identificato e proposto dalla simbologia dei colori e dei segni che lo definiscono, in una ricerca che va oltre il linguaggio.
Nella rappresentazione pittorica di questa tela, su di un sottofondo di paesaggio completamente devastato, viene rappresentato al centro un mutamento attraverso l’ordine di un respiro climatico. Gli stessi ordini di grandezza dei personaggi testimoniano una ripresa di coscienza proprio sullo sfondo di un territorio particolarmente spettacolare.
È l’importanza della loro azione che modifica il clima.
Ora sembra evidente la ripresa di “energia” nella lettura storica e didattica del racconto e senza chiederne il titolo possiamo rintracciarne il perché. È la relazione di un percorso che dagli abissi profondi dell’esistenza umana e dalla paura della negazione di sé giunge all’apogeo solare del credo che rinnova e fissa la propria vita nel proprio territorio.
L’insieme di questi cambiamenti delineano un quadro in cui la fede dimostra l’efficacia trasformatrice di una società. Un processo interiore, luogo di scontro tra il bene e il male, nell’esperienza provata e sofferta di essere liberi, ma in rapporto con la verità. Il sentimento dei luoghi passa dunque attraverso la storia e arriva alla memoria.
Era dunque tempo di guerra nella cristianità di allora. Nella grande tela che sovrasta l’altare quale alta testimonianza di sé i Santi rinnegati e deposti dalle nuove correnti protestanti sono accorsi e stanno a difesa di un territorio che si era fatto rosso di sangue. L’alba di un nuovo tempo all’orizzonte pare riprendere respiro tra le nubi fosche di dubbio e di guerra.
Dall’alto la Vergine Madre, desacralizzata dalle nuove credenze, sta fissa nele ll’eterno della luce divina a protezione dell’esistenza umana mentre nel buio dell’abisso “il drago” del male urla la sua bestialità, l’eresia.
Scorci della memoria
Da un’angolazione del fondale dipinto affiora uno scorcio singolare. Uno spazio comunicativo che propone reiterati cenni di architetture reali. Un messaggio al sito natale documento e storia del luogo, Bardonecchia. L’abitato si ricompone allo sguardo nel preciso assemblaggio di tre torri che svettano al piede dei monti, simbolico e altero richiamo ad un vissuto lontano racchiuso in un cerchio di mura. Il tempo di partenza del racconto.
Ne sono testimonianza ancor oggi la torre campanaria di romanica fattura che tutt’ora sorge accanto alla chiesa parrocchiale di Sant’Ippolito e la “via delle Torri” ancor oggi segnata nell’articolazione viaria dell’abitato attuale; retaggio di un vissuto lontano nominalmente e strutturalmente ancora presente. Accessi riconoscibili che permettono di studiare il vissuto stanziale di base tra dintorni e spaziature campestri.
Lungo l’agglomerato del borgo edificato, ben rappresentato dal colore rosso mattone di romanica memoria, si nota una spaziatura dal livello più basso enunciata da una diversa tonalità di colore, un tono più spento cinereo di pietra, testimonianza e luogo di un antico camposanto composto ai piedi dell’edificio ecclesiale i cui resti furono ritrovati nelle opere di rifacimenti ulteriori.
Eco di una memoria passata il colore diviene così nella stesura del dipinto il tramite simbolico, l’enunciazione visiva di un vissuto realmente comprovato.
Accucciato all’apice della valle immobile ai piedi dei suoi monti di frontiera, il borgo vecchio di Bardonecchia sembra attendere la nuova sfida della storia.
Sorto sulle impronte delle prime centuriazione romane, nella rinnovata sacralità posta su impianti anteriori celtici, il primo cristianesimo qui radicato seppe convivere con i culti antichi ancora legati al mondo riferito alle forze della natura di cui l’acqua era il primo elemento.
“Santa Maria ad Lacum” fu infatti la prima denominazione data a questa chiesa, memoria di una presenza lacustre ancora esistente in quel tempo.
Era venuta ad emergere una nuova società che innalzava le proprie chiese e i propri campanili quali punti di riferimento di una rinnovata geografia sacra.
Le prime chiese venivano orientate verso levante in riferimento al luogo della nascita di Cristo Salvatore. Si entrava in tal modo col viso rivolto al sorgere del sole il cui primo raggio batteva esattamente sull’altare di ogni giorno. Si usciva ad occidente dove il tramonto ricordava la caducità della vita se non tramite la resurrezione del corpo nell’Eucaristia ricevuta.
Le immagini interrogate
Usciti dal borgo rappresentato tra spaziature ancora verdeggianti dopo pochi passi all’interno del racconto, il territorio si fa più scuro.
S’ispessiscono i toni del colore e della natura venendosi così a definire uno spazio ed un clima quasi pervasi da un senso di paura. Segni di un tempo sospeso, di cambiamenti profondi che vanno instaurandosi nella grande geografia religiosa.
Due piccole immagini descritte dettagliatamente ai lati del paesaggio centrale ne detengono il simbolico significato.
Un martirio ai piedi di un bosco sulla sinistra del dipinto, un’invocazione di aiuto dal lato del borgo sulla destra.
Sono i simboli di una nuova istanza, di una richiesta rinnovata di aiuto imperso128 nata da due figure sacrali.
La chiesa assume da questo momento una sua nuova identità. Non è più dedicata alla “Vergine del Lago”. Due Santi ne hanno assunto la nuova responsabilità. Sant’Ippolito e San Giorgio nell’anelito d’invocare un salvatore nel buio dei tempi che stanno avanzando.
Sappiamo che in un tempo lontano era presente nel centro della valle un lago lascito di antichi ghiacciai le cui acque erano state fatte defluire per intervento dei Saraceni, qui stanziati per quasi un secolo sino al Mille circa.
Con l’andar del tempo nella zona lacustre si era andato poi instaurando l’impianto di un bosco di larici e abeti, dei quali abbiamo ancora oggi presenza e memoria nella zona chiamata appunto “la pineta”. È proprio su questo sfondo boscoso dalla forma lacustre che viene rappresentata sulla sinistra del dipinto la figura di un uomo denudato e legato per i piedi ad un cavallo in corsa sfrenata.
Nella stesura della “Leggenda aurea” di Jacopo da Varazze, vissuto nel XII secolo, leggiamo che Sant’Ippolito, soldato romano a cavallo vissuto ai tempi di Decio e Valeriano, non rinunciando alla propria fede cristiana, denudato e legato ad un cavallo, era stato condannato ad essere trascinato in corsa tra cardi e rovi sino alla morte.
Il bianco del lino dipinto ai fianchi del martire è indice di innocenza, mentre il rosso che scorre lungo il territorio testimonia il suo martirio. Il cavallo è “baio”, macchiato, nel senso di “colpa” simbolicamente rappresentato.
Mentre al lato del bosco viene ricordata la memoria del martirio di Sant’Ippolito quale sacra testimonianza di un’antica fede, sulla destra uscita dal borgo sta una figura femminile inginocchiata, in preghiera rivolta verso un raggio di luce che la investe.
È umile nell’atteggiamento, ma regale nella postura. Un manto le riveste le spalle e ammanta il luogo della sua presenza. È vestita di giallo, la luce del sole che la illumina. Il giallo è un colore divino ma anche colore terrestre; i raggi del sole infatti sono tramite di comunicazione tra il cielo e la terra. Il messaggio che la figura emana sta infatti nell’azione “comunicativa”.
Quasi sempre San Giorgio veniva accompagnato dalla rappresentazione di una figura femminile in preghiera, nella richiesta di attenzione ai propri diritti e ai propri principii. La “Principessa” infatti veniva chiamata la figura che ben di frequente lo accompagnava.
Nella tradizione popolare si racconta che San Giorgio, un giorno, avesse liberato una principessa figlia di un re che stava per essere sacrificata ad un orrendo drago che appunto abitava nel lago vicino al paese.
Se geograficamente corrisponde il paesaggio pittorico, la nobile figura femminile viene ad incarnare qui il simbolo dell’innocenza, della “non colpa”, della richiesta di difesa dei propri diritti e del proprio territorio che San Giorgio difenderà.
Tra queste due figure che abitano il paesaggio, direttamente dipinte sulla tela al di sotto del colore nascosti tra i fili d’erba sono iscritti in nero due nomi, uno stemma, una firma, segnando così cripticamente il segreto e la testimonianza di un perché e di una data del dipinto, che solo in parte appare.
Sant’Ippolito sulla sinistra sotto il cavallo, Santa Maria a destra ai piedi della figura in ginocchio. Nel centro lo stemma di Bardonecchia drappeggiato ai fianchi e sormontato da una corona. Al di sopra del tutto appare il finale di una data ..85, l’inizio del nome Giovanni seguito da un altro nome dalla R maiuscola ancora segreto nella sua incompleta compiutezza.
Il bianco del lino dipinto ai fianchi del martire è indice di innocenza, mentre il rosso che scorre lungo il territorio testimonia il suo martirio. Il cavallo è “baio”, macchiato, nel senso di “colpa” simbolicamente rappresentato.
Mentre al lato del bosco viene ricordata la memoria del martirio di Sant’Ippolito quale sacra testimonianza di un’antica fede, sulla destra uscita dal borgo sta una figura femminile inginocchiata, in preghiera rivolta verso un raggio di luce che la investe.
È umile nell’atteggiamento, ma regale nella postura. Un manto le riveste le spalle e ammanta il luogo della sua presenza. È vestita di giallo, la luce del sole che la illumina. Il giallo è un colore divino ma anche colore terrestre; i raggi del sole infatti sono tramite di comunicazione tra il cielo e la terra. Il messaggio che la figura emana sta infatti nell’azione “comunicativa”.
Quasi sempre San Giorgio veniva accompagnato dalla rappresentazione di una figura femminile in preghiera, nella richiesta di attenzione ai propri diritti e ai propri principii. La “Principessa” infatti veniva chiamata la figura che ben di frequente lo accompagnava.
Nella tradizione popolare si racconta che San Giorgio, un giorno, avesse liberato una principessa figlia di un re che stava per essere sacrificata ad un orrendo drago che appunto abitava nel lago vicino al paese.
Se geograficamente corrisponde il paesaggio pittorico, la nobile figura femminile viene ad incarnare qui il simbolo dell’innocenza, della “non colpa”, della richiesta di difesa dei propri diritti e del proprio territorio che San Giorgio difenderà.
Tra queste due figure che abitano il paesaggio, direttamente dipinte sulla tela al di sotto del colore nascosti tra i fili d’erba sono iscritti in nero due nomi, uno stemma, una firma, segnando così cripticamente il segreto e la testimonianza di un perché e di una data del dipinto, che solo in parte appare.
Sant’Ippolito sulla sinistra sotto il cavallo, Santa Maria a destra ai piedi della figura in ginocchio. Nel centro lo stemma di Bardonecchia drappeggiato ai fianchi e sormontato da una corona. Al di sopra del tutto appare il finale di una data ..85, l’inizio del nome Giovanni seguito da un altro nome dalla R maiuscola ancora segreto nella sua incompleta compiutezza.
Giuliana Schlatter