02/06/10

COL CIELO ADDOSSO - L'albero del prete (2009)

L’ANGOLO DELLA CULTURA

L’albero del prete


L’Anno Sacerdotale che Benedetto XVI ha indetto, in occasione del 150º anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, offre l’occasione propizia per fare qualche riflessione sul Sacerdozio. Belle le parole del Papa, indirizzate a noi sacerdoti con la Lettera d’indizione: «Tale anno vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti, per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi».
Viene spontaneo alla mente il ricordo di preti che hanno testimoniato, sia pure in modalità diverse, la propria fedeltà a Cristo e alla Chiesa, donandosi senza riserve al lavoro per la gente, in parrocchia o altrove, avendo come scopo la salvezza delle anime.
A me viene spesso in mente Don Bosco, un gigante del sacerdozio, ed il suo motto “da mihi animas coetera tolle”, dammi le anime Signore, toglimi il resto. Ognuno può avere i suoi modelli di prete, anche a seconda di quelli che ha incontrato nelle varie fasi della sua vita. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Sei anni fa, con un’iniziativa intelligente, don Silvio Bertolo con l’ausilio di Pier Giorgio Pierruz di Condove redasse un libretto dal titolo Vescovi e Sacerdoti nella storia della Diocesi di Susa, con l’elenco dei sacerdoti diocesani di Susa e la cronologia delle loro responsabilità ministeriali. Anche don Paolo Di Pascale, con mente di storico, ha raccolto in alcuni articoli apparsi negli anni, su questa stessa pubblicazione, il profilo di sacerdoti e parroci della nostra Conca alpina. Fra questi ce ne sono che noi ricordiamo con particolare affetto. in cima alla lista, sicuramente, quel sacerdote eccellente, che a Bardonecchia ha formato generazioni di buoni cristiani e anche diversi sacerdoti: don Francesco Bellando, il Parroco per antonomasia.


Di sé stesso diceva: «Sono nato per essere sacerdote». Un modello di pastore. Tanto è vero che ancora oggi, quando io e don Franco parliamo di lui, diciamo tout court “il parroco”, e sappiamo subito di chi si tratta.
Certo noi a Bardonecchia abbiamo avuto una particolare fortuna, meglio sarebbe dire un singolare privilegio e più cristianamente ancora un’autentica benedizione: quella di avere sacerdoti fedeli a Cristo e alla Chiesa, preti al cento per cento, non minati dalla secolarizzazione, non trasformisti soggetti alle mode per rendersi piacevoli.
Certo, ogni persona umana ha i suoi limiti e i suoi difetti, per questo un prete non può piacere sempre, a tutti e, forse, non deve. Il Santo Curato d’Ars diceva: «Se nella Diocesi ci fosse stato uno più miserabile di me, Dio avrebbe scelto lui». Era convinto della sua debolezza, dei suoi limiti. Il poeta Charles Peguy, francese come lui, cent’anni dopo scrisse che proprio le peggiori miserie sono i punti vulnerabili della corazza dell’uomo, attraverso cui la grazia può penetrare. Facendo intendere che se non ci fossero state le miserie, non ci sarebbe stata neppure la grazia. Però bisogna saper riconoscere quando un prete (come nel nostro caso) non perde mai il gusto della propria vocazione. Oggi come oggi, mi sono convinto che il nemico quotidiano della vita sacerdotale non è tanto il grande peccato, ma la mediocrità.
Ringraziamo il Signore se i preti che Dio ci ha dato non se ne sono lasciati contagiare. E questa è una ricchezza d’inestimabile valore e per altro non così comune o da dare per scontata.
Riflettendo su questo non posso non ricordare un don Bellando, già segnato dalla malattia, che in fila nella cattedrale di Susa aspettava di congedarsi dal Papa Giovanni Paolo II, al termine della Messa, mentre si recava a pregare all’altare della Vergine del Rocciamelone. Al suo fianco c’eravamo io e don Paolo da una parte, don Alfonso Badini Confalonieri dall’altra e lui, con voce sicura disse al Papa, quasi prendendoci per mano: «Questi sono miei». Ciò mi fa venire sempre in mente quella indovinata espressione di Albino Luciani, quand’era Vescovo di Vittorio Veneto e poi Patriarca a Venezia, prima di diventare Giovanni Paolo I, che ripeteva sovente la frase appresa dal Beato Cardinale Schuster, Arcivescovo di Milano: «L’albero del prete è il prete».

Preti dell’altare

Se guardo a ciò che mi è accaduto, a ciò che ho visto e vedo accadere nei confratelli maestri, amici o che ho conosciuto e frequentato, non ho dubbi: il prete è un uomo scelto da Dio in mezzo agli altri uomini per essere strumento della sua misericordia verso di loro. Lungo un itinerario che dura tutta la vita del sacerdote, egli cerca di accogliere, a poco a poco, in sé le dimensioni stesse del Cuore di Cristo, i suoi pensieri, la sua sete di salvare le anime. «Senza il prete la Morte e la Passione del Signore non servirebbero a niente». Queste parole del S. Curato d’Ars che sembrerebbero a prima vista esagerate, in verità ci illuminano nel comprendere la grandezza del sacerdozio e aiutano i preti a tenere sempre bene a fuoco il centro della loro vita e della loro missione.
Tutti gli altri aspetti vengono da qui, il sacerdote è scelto da Dio innanzitutto per il sacrificio eucaristico, per essere il tramite, nel tempo e nello spazio, del memoriale del sacrificio di Gesù. Nella sua semplicità il Santo Curato d’Ars, che per noi di Bardonecchia è un santo di casa, ben prima che assurgesse di nuovo, e provvidenzialmente Viva Dio, all’onore delle cronache, con il corrente Anno Sacerdotale a lui dedicato, insegnava: «A che servirebbe una casa piena d’oro se non aveste nessuno per aprire la porta? Il prete ha la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta, è l’economo del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni»1.
È soprattutto nella liturgia che si esprime il fascino della vocazione sacerdotale, perché la liturgia – e particolarmente la celebrazione della Messa – è prosecuzione della vita di Gesù, della sua Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione. È in essa che il sacerdote sperimenta per primo quanto il rapporto con il Signore sia estremamente concreto così da sostenere tutta la sua vita. Dalla liturgia appare come in filigrana, quel mondo eterno cui siamo tutti destinati e la sua bellezza, l’incanto del Paradiso. Avevano ben ragione di dire i nostri padri che la liturgia è un anticipo del Cielo sulla terra, sì, perché è tramite essa che l’eterno entra nel tempo e nello spazio. Parlando ai monaci cistercensi dell’Abbazia di Heiligenkreuz, durante la sua visita in Austria nel 2007, Benedetto XVI ebbe parole chiarissime: «La disposizione interiore di ogni sacerdote, di ogni persona consacrata deve essere quella di non anteporre nulla al divino Officio. La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme contiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrato su Dio, nei riti e nei conti, si vede un’immagine dell’eternità...».
E pensare che ci sono stati anni folli, post sessantottini, in cui ho sentito con le mie orecchie dire da un direttore dell’ufficio liturgico di una grande Diocesi piemontese (non faccio nomi, né della Diocesi né del sacerdote, tanto si capisce lo stesso) che: «La vera liturgia si fa ai cancelli della FIAT, dove si fanno le barricate». Due pianeti diversi e forse due Chiese diverse. Quella vera, ovviamente è dove c’è il Papa!
_______
(1) Il pensiero e l’anima del Curato d’Ars, a cura di Bernard Nodet, Piero Gribaudi Editore, Torino, 1967, pag. 129.
_______
Ancora un’altra conclusione nello stesso discorso di Benedetto XVI, ci aiuta a capire: «Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opera di Dio, con Dio come specifico soggetto o non è. In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!».
Sempre guardando alla mia esperienza devo proprio dire che la nascita della vocazione al sacerdozio deve sempre molto a un pregnante contesto liturgico. Tutto, nella parrocchia di Bardonecchia ruota attorno alla liturgia, e così siamo cresciuti imbevuti di spirito liturgico autentico, rapiti dalla bellezza, dal fascino, dalla dignità, dalla spiritualità, dalla soprannaturalità della liturgia celebrata come Dio – e santa romana Chiesa – comanda. Per questo tutto deve essere bello nella e intorno alla liturgia: cattedrali, musiche, pitture, sculture sacre che hanno segnato duemila anni di storia cristiana, così come gli oggetti preziosi (calici, patene, ornamenti, paramenti) che ne sono nati. Purtroppo dopo il grande disorientamento succeduto al Vaticano II, l’arte sacra ha perso molto del suo equilibrio, degenerando in non si sa bene cosa. Speriamo ritrovi il suo equilibrio.
Incanta l’accento del Papa sul pezzetto di cielo che il sacerdote porta sulla terra, proprio all’Altare. Da ciò mi è nata un’associazione d’idee con il titolo di un libro di una ventina d’anni fa, oggi introvabile, di padre Gianni Giorgianni, proprio sul sacerdote: Col cielo addosso. Ecco chi è il prete, uno che il Cielo ce l’ha addosso, sempre e lo porta con sé ovunque, ecco perché: «Un buon pastore, secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio posso accordare a uno parrocchia, e un dono dei più preziosi della misericordia divina»2 (Curato d’Ars).

Visibile e in talare


La carezza del Papa, il 25 maggio del 2000, al

termine dell’udienza della Comunità Papa Giovanni

XXIII in Piazza San Pietro.
Lo psichiatra il prof. Vittorino Andreoli, laico e non credente, ha recentemente dichiarato: «Oggi c’è bisogno di quello che io chiamo il prete nel tempio, di un prete che attiri le persone – anche e soprattutto i non credenti – nella sua vera casa, che è poi la casa di Dio, non tanto di quel prete che era dispensatore di beni, anche importanti se vogliamo, ma non sempre del Cielo» (“Avvenire”, 30 agosto 2009, pag. 3). Un sacerdote, dunque, dedito alla sua missione spirituale della salvezza delle anime, lasciando le altre mansioni gestionali e materiali ai laici. Il sacerdote, in definitiva che lascia trasparire la presenza di Cristo.
Con una libertà che sa andare controcorrente, almeno di certe mode e cattive abitudini clericali odierne, sottolinea ancora Andreoli, che a proposito di visibilità il prete dovrebbe avere nel suo guardaroba almeno una talare e non dovrebbe vergognarsi di indossarla. È curioso – dice: «Nel momento in cui tutti credendo di essere liberi in realtà indossano una divisa – pensi agli adolescenti che in realtà sono vestiti tutti uguali – una figura come quello del prete, che una divisa nobile l’aveva già, e che con questa era entrato nella percezione anche culturale di tutti, ad un certo punto si è svestito, diventando un enigma ... Il prete con tutti i difetti che può avere è pur sempre una persona che ha scelto di spendere la vita per salvare le anime, le persone. E questa società che non ha più punti di riferimento ha bisogno di vedere dei segnali. In una società dell’indistinto, in cui domina la cultura del nemico, potere vedere la figura di un prete – fisicamente e distintamente – può essere come vedere nel deserto la piantina che segnala la presenza di un’oasi» (ut supra). Una riflessione sorprendente, detta con linguaggio laico, diciamo così da un uomo di mondo di questa nostra società.
______
(2) Ibidem ut supra, pag. 132.
_____
  Don Oreste in ginocchio davanti a Giovanni Paolo II
  al termine dell’udienza speciale del 29 novembre
2004, durante la quale il Papa ha invitato la comunità
  a «fare dell’Eucaristia il cuore delle case famiglia» e
  a «testimoniare la tenerezza di Dio a quanti vivono in
condizioni di disagio e di abbandono».

Un sacerdote deve farsi riconoscere come tale, sempre. Fra i tanti episodi che potrei raccontare, ne ricordo uno su don Oreste Benzi, famoso prete della Diocesi di Rimini. Eravamo in Albania, pochi anni fa, io accompagnavo il Cardinale Saraiva che aveva consacrato una nuova chiesa parrocchiale e incontrato una folla di giovani, in seguito alla beatificazione di Madre Teresa. Alla sera c’era un incontro con la popolazione e i rappresentanti di vari organismi internazionali, per contrastare la prostituzione forzata e la tratta delle giovani albanesi. Io avevo seduto vicino a me don Oreste Benzi, divenuto famoso in tutta Italia perché scendeva di notte per le strade a salvare le ragazze straniere, con la corona del Rosario in mano e sempre la sua tonaca. Alcune le ha portate anche dal Papa: il 25 maggio del 2000, al termine dell’udienza alla comunità Papa Giovanni XXIII, da lui fondata, don Oreste portò dal Papa Anna, donna nigeriana vittima del racket della prostituzione e ammalata di Aids, che chiese al Papa di salvare ragazze e persino bambine dalla strada, e un anno dopo morì.

Nel commentare la Parola di Dio di
venerdì 2 novembre 2007, giorno in cui è
morto, don Oreste aveva scritto sul
libretto Pane Quotidiano: «Nel momento
in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la
gente che sarà vicino dirà: è morto. In
realtà è una bugia ... La morte non esiste
perché appena chiudo gli occhi a questa
terra mi apro all’infinito di Dio».
Una scena commovente, ripresa dalle telecamere e riportata su tutte le televisioni del mondo e che scosse molte coscienze. Ma torniamo a quella sera, in Albania, seduti uno a fianco dell’altro, con don Benzi parlammo un po’, e poi, quella sera ebbe lui l’asso nella manica, facendo piangere tutti quando fece salire sul palco una madre albanese, curva sotto il peso del dolore più che degli anni, che sua figlia non vedeva più da tempo, e non sapeva che fine avesse fatto e che don Oreste stava aiutando. La fece parlare, raccontare come solo un grande pastore riesce. Venne fuori anche del suo incontro con i malavitosi che probabilmente erano responsabili, con tutti i pericoli conseguenti. Ecco, in tutto questo io non posso dimenticare quella tonaca lisa di don Oreste, che si vedeva era stata tante volte riadattata, sistemata all’ingrosso, non mancava forse anche di qualche macchia qua e là. Mi rimase nel cuore come un prete vero, di quelli che non dimentichi più, di chi, senza volerlo – fu così semplice e umile nel parlarmi di diverse cose – ci resterà di forte e valido esempio.
Lo penso simile a don Orione, e persino al nostro Rettore don Cantore, non fatti in serie, ma di uno stampo diverso dal comune. Mi sono commosso profondamente quando si è saputo che la notte del 2 novembre 2007 l’hanno trovato, poco dopo le 1,30, seduto sul letto, ancora vestito e con le scarpe ai piedi. In pochi minuti è morto fra le braccia del collaboratore don Elio.

Papa Benedetto XVI, il Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi
S.E. Mons. Amato e il “nostro” mons. Claudio Jovine, segretario del
Prefetto, in Udienza il 19 dicembre 2009 per i Decreti di Beatificazione,
tra cui quelli di Pio XII e Giovanni Paolo II. (foto “L’Osservatore Romano”)
All’appuntamento per l’abbraccio con il Padre si è presentato vestito da prete, con la sua inseparabile talare. Un prete della gente di strada, degli zingari, dei barboni, dei tossicodipendenti, delle prostitute ... ma anzitutto un prete, con quella tonaca che mai ha abbandonato in tutta la sua vita. Pur scegliendo di uscire dalla canonica, dimischiarsi con  l’umanità ferita e disprezzata in ogni angolo della terra, non ha mai ritenuto che la sua identità di sacerdote fosse un ostacolo all’incontro con il fratello, neppure con chi è lontano dalla fede.
Aveva ben ragione il compianto Arcivescovo di Pisa, fine letterato, Benvenuto Matteucci di scrivere:
«Il sacerdote è nel mondo la terra di riposo dove Dio e l’uomo si incontrano ... e Dio e l’uomo  arano il suo cuore, perché dai solchi aperti l’Amore dia i suoi frutti di salvezza. E poi saranno in tanti, madri, padri, figli, giovani e meno a riconoscere e ritrovare in questo cuore arato la materna, incredibile tenerezza della Chiesa».

don Claudio Jovine