02/06/10

Pellegrinaggio Bardonecchia-Medjugorje (2009)

Bardonecchia-Medjugorje (14-19 settembre 2009)

Lunedì 14 settembre Un pulmino da 27 posti stazionava a portiere spalancate, poco prima delle 6 mattutine, al centro del piazzale dietro la Parrocchia; ma nonostante l’approssimarsi dell’ora fissata il mezzo non era in grado di svolgere la sua funzione, causa un’improvvisa panne all’impianto elettrico. Lasciando così i 25 partecipanti in trepida attesa che dalla Bassa Valle giungesse il bus sostitutivo, che speravamo non solo funzionante, ma anche più capiente. Così è stato; e finalmente, un’ora più tardi rispetto al previsto il viaggio iniziava prelevando in via Medail un gruppetto di compagni infreddoliti per l’attesa. E con la prima preghiera comune, subito dopo, tutti abbiamo espresso la gioia della partenza per questo viaggio tanto desiderato.
In autostrada, sotto la pioggia battente, chi non lo conosceva ha iniziato ad apprezzare l’abile guida dell’autista Renzino il quale – nonostante il ritardo alla partenza – ci ha fatto scendere non lontano dalla Basilica del Santo a Padova in tempo utile per il pranzo. Ma, dopo qualche minuto di raccoglimento dinanzi alla tomba di Sant’Antonio e una breve visita alla Basilica, la lunghezza del percorso ha imposto un’immediata partenza. Era ormai sera quando abbiamo attraversato, senza alcuna formalità, dopo Trieste, il confine con la Slovenia, nazione che aderisce alla Comunità Europea. Nel frattempo il paesaggio di boschi e colline sempre più si occultava, tra bruma e pioggia, nel buio; interrotto di tanto in tanto dalle luci di rari villaggi. E mentre anche il traffico si faceva via via più scarso, solo il ticchettio insistente della pioggia contro i finestrini teneva desta la nostra attenzione.
Si erano fatte quasi le 20 quando abbiamo superato la prima frontiera “vera”, senza che la polizia croata trovasse alcunché da eccepire sui nostri documenti di espatrio. Anzi la Croazia ci ha accolto con un’autostrada perfettamente segnalata che ci avrebbe accompagnato quasi per l’intero percorso fino a Medjugorje; permettendoci di giungere in tempi brevissimi alla periferia di Fiume, prima tappa del viaggio, apparsa città gradevole e abbastanza ben curata. Tuttavia i navigatori satellitari ancora non coprono quest’area e dopo un’accurata consultazione delle mappe locali, si stabiliva che era opportuno farci precedere da un taxi fino nei pressi dell’ottimo albergo prescelto.
Martedì 15 settembre E il giorno dopo, sotto un bel sole settembrino, prima di rientrare in autostrada abbiamo intravisto la città Fiumana costretta, come Genova, tra porto e colline. All’inizio l’arteria scorre molto all’interno attraverso una regione rocciosa e montagnosa, poco abitata e ricca di conifere; soltanto qua e là i rilievi si fanno più dolci e meno brulli, lasciando spazio a campi coltivati e a praterie che accolgono rare mandrie.
Il grande tendone con l’altare per le celebrazioni all’aperto.
Sullo sfondo la chiesa parrocchiale di Medjugorje.
(foto Luisa Inglese Ganora)
Oltrepassata l’uscita diretta ai laghetti di Plitvice, pian piano ci stavamo riavvicinando alla costa dalmata, apparsa all’improvviso sovrastata da alte e solenni montagne rocciose: in questa zona il mare penetra così profondamente verso l’interno da dar vita a diversi fiordi quasi fossimo in Norvegia.
Gradatamente il paesaggio si fa più aspro, trasformandosi in un mix di pietraie e arbusti; mentre l’autostrada in forte discesa punta decisa verso Spalato. Lì abbiamo consumato un eccellente pasto di mare accuditi da camerieri gentili che parlano bene la nostra lingua; soprattutto, quel ristorante si trova vicinissimo alla scogliera che lambisce il mare Adriatico, azzurro e abbastanza quieto: un sogno per chi si trova costretto quasi tutto l’anno al rigido clima montano. Favorendo nel gruppo l’instaurarsi di un clima abbastanza euforico, visto che il più era fatto: da lì Medjugorje dista 150, massimo 200 chilometri; dunque si prevedeva di arrivare nel pomeriggio.

Poco oltre Spalato l’autostrada termina ed è sostituita da una strada stretta e tortuosa la quale attraversa una regione dove le rare case vengono edificate sulla pietra poiché anche la più piccola porzione di terra è considerata così preziosa da essere destinata esclusivamente alle coltivazioni.
Dunque verso le 16 ci fermavamo per le formalità di ingresso in Bosnia-Erzegovina, dalla cui frontiera Medjugorje non è molto lontana. A poco a poco, tuttavia, alla gioia è subentrato un senso di preoccupazione in quanto l’attesa si prolungava troppo per non farci temere che fosse sorto qualche problema; e in effetti dai finestrini non ci sfuggiva un’interminabile discussione tra Renzino e i poliziotti. Infine lui era risalito sul bus ma, anziché procedere, invertiva la marcia per ritornare in Croazia... naturalmente tutti ci domandavamo con ansia la motivazione. «All’autista è stata richiesta la lista dei passeggeri in un determinato format che il tour operator non ha prodotto; speriamo che alla prossima frontiera siano più clementi»; ci ha informato don Franco. Subito abbiamo compreso, dal tono di voce, che si trattava di una mancanza di non poco conto cui difficilmente si poteva rimediare, vista la distanza che ci separava dalla Valsusa. Così non rimaneva che invocare la Madonna affinché ci aiutasse a raggiungerLa in quel santuario cui ci credevamo ormai vicini mentre in realtà sembrava allontanarsi.
Nel frattempo il paesaggio brullo aveva fatto posto a una vasta piana, e i sassi erano stati sostituiti da paludi frequentate da cacciatori e pescatori: ci stavamo avvicinando alla Neretva, tristemente famosa in quanto troppe volte le sue acque si sono tinte del sangue di combattenti, persino in tempi non lontani dall’attuale.
In realtà quel fiume ci è sembrato bellissimo, fiancheggiato com’è da numerosi salici piangenti; mentre verso la foce si trasforma in una sorta di porto fluviale utilizzato dalla Bosnia-Erzegovina, la quale non possiede sbocchi al mare attrezzati. Risalendolo abbiamo raggiunto la cittadina di Metkovich. Ma il nuovo tentativo, fatto per la verità senza troppe speranze, di attraversarne la frontiera, era stato bloccato da una poliziotta che aveva sentenziato all’autista: «Potessi accontentarvi, lo farei volentieri; ma non posso».
Desolazione e sgomento si erano impadronite di noi tutti, sapendoci ormai iscritti sul “libro nero” delle dogane locali, dunque ben consapevoli che ulteriori tentativi di ingresso sarebbero stati vani. Ma nonostante tutto non disperavamo in quanto a ben pensarci soltanto il mezzo non era in regola con la documentazione, mentre ciascuno di noi possedeva documenti di identità tali da consentire comunque l’ingresso in Erzegovina... perché dunque non contattare l’hotel prenotato a Medjugorje affinché organizzasse il transfer con qualche taxi o meglio ancora mediante un pullman locale?
Immediatamente don Franco si è prodigato in una serie di telefonate che alla fine sortivano il risultato sperato: quanto prima un bus bosniaco ci avrebbe prelevati a Metkovich in un punto convenuto..
Si era fatto buio quando finalmente è apparso un torpedone a 5 stelle; il trasferimento dei bagagli e di ...noi stessi era stato immediato, ed anche Renzino ci seguiva abbandonando il suo mezzo con giustificata trepidazione.

La salita lungo la pietraia del Monte dell’Apparizione.
(foto Angelo Balsamo)
Subito dopo un doganiere educato ci dava la “buonasera” nella nostra lingua. Ora finalmente eravamo in Bosnia-Erzegovina, uno Stato autonomo derivante dalla divisione territoriale dell’ex- Jugoslavia, dove la maggioranza della popolazione è di religione islamica. Tuttavia in questa zona i cattolici sono numerosi e durante il tragitto una chiesetta illuminata, essenziale nel suo candore, testimoniava una fede costretta a convivere senza potersi permettere troppi ornamenti. La chiesa parrocchiale di Medjugorje riprende le linee essenziali della chiesina sperduta che ci aveva riscaldato il cuore durante l’ultimo tratto del nostro travagliato viaggio; ma è molto più grande e dotata di due campanili anziché di uno soltanto. Quella sera la Madonna ci ha permesso un semplice ma intenso sguardo verso l’interno in quanto per alcuni minuti dopo la chiusura (erano passate da poco le 22) il portale è rimasto semiaperto mentre stavano ultimando le pulizie. Infine la processione con i flambeaux, guidata da don Franco, ha sciolto ogni tensione e nel nostro animo è disceso un sentimento di gratitudine e gioia per “esserci”. Mentre chi di noi aveva sperimentato solo pellegrinaggi individuali, sentiva la presenza essenziale di un sacerdote quale guida spirituale.
Tappa per la recita del Rosario. (foto Angelo Balsamo)
Mercoledì 16 settembre. La roccia è signora assoluta di questi territori; tanto che il sentiero verso il Colle delle Apparizioni, pur superando un dislivello di appena 150 metri, è una lastra infida e scivolosa quasi come presso la cima della Punta Nera. Eppure lungo quel percorso assolato e disagevole, metafora delle difficoltà dell’esistenza, ci si rendeva conto non solo del numero elevato di pellegrini diretti verso la cima, ma soprattutto della fede che li animava: qualcuno addirittura non temeva la salita a piedi nudi. È questo il luogo dove, nel 1981, la Madonna ha iniziato ad apparire ai Veggenti, allora semplici ragazzi che chissà quante volte al giorno andavano su e giù per la montagna, magari giocando. Ma anche lì, sotto la statua in marmo candido della Madonna, ecco una nuova difficoltà: di corsa una suorina – apparsa proprio mentre don Franco stava preparando il necessario per celebrare la S. Messa – si precipitava verso di noi comunicando il divieto da parte del Vescovo di Mostar, capoluogo della regione.
Nonostante la delusione (tanto più che qualcuno del gruppo si era sobbarcato durante la salita il trasporto di tutto l’indispensabile per la celebrazione) avevamo compreso la prudenza della Chiesa, la quale ancora non riconosce ufficialmente tali apparizioni; preoccupata forse, contemporaneamente, di non alterare i rapporti con gli islamici.
Il Parroco con Suor Emmanuelle al termine della conferenza
ai gruppi di lingua italiana. (foto Guido Alimento)
Nel frattempo notavo, in mezzo ai cespugli di cui è cosparsa quella collina rocciosa, non pochi arbusti di melograno selvatico. Grazie ai molti semi contenuti, tale frutto viene spesso considerato segno di fertilità ed abbondanza; in questo caso non tanto materiale, attesa l’aridità del luogo, quanto spirituale. Dopo l’incontro pomeridiano con Suor Emmanuelle la quale, pur senza essere Veggente, intrattiene un rapporto particolarmente intenso con la Beata Vergine, finalmente abbiamo potuto visitare la chiesa dopo aver attraversato a piedi l’abitato di Medjugorje, un paesone privo di piano regolatore ma ormai relativamente prospero grazie al flusso dei pellegrini. Una conoscente la quale si era recata qui nel lontano 1986 ricorda che allora non esisteva alcuna struttura e che durante le Messe pomeridiane i Veggenti in trance ricevevano le visioni della Madonna all’interno della sacrestia. Oggi che i Veggenti non vivono più qui, si resta colpiti piuttosto dall’Esplanade, una specie di anfiteatro aperto alla vista della Basilica dove diverse file di panche intervallate da corridoi ghiaiosi guardano a un gazebo che accoglie l’altare, attorno a cui sacerdoti delle diverse lingue e nazioni rappresentano l’ecumenicità della Chiesa. Il ritmo della Messa era rallentato dalla  proclamazione del Vangelo in numerosi idiomi, mentre la lunga predica in slavo ha reso la cerimonia dolcemente interminabile, proprio come ci figuriamo i ritmi lenti e intensi dell’Oriente.

Accanto alla statua della Madonna sul Monte dell’Apparizione.
(foto Guido Alimento)
Ma dopo cena eccoci di nuovo in processione con i flambeaux lungo le stazioni della Via Crucis dominate dal Crocifisso in bronzo che trasuda acqua dal costato; e mentre alla pioggia era subentrata una calura quasi estiva, le nostre invocazioni quasi si confondevano col frinire delle cicale che donava un meraviglioso senso di comunione con il  Creato. Proprio come se i melograni selvatici sul Colle delle Apparizioni – il cui percorso illuminato era chiaramente visibile in quell’ora notturna – avessero già fruttificato donando ai nostri cuori la pace; proclamata a gran voce dai canti provenienti dalla vicina Esplanade in quel momento stracolma di fedeli, per la maggior parte giovani. Così ciascuno di noi serbava il proprio personale sentire verso la sacralità di Medjugorje dove una religiosità femminile e sommessa sollecita forse più la sfera interiore (esiste un’area, a lato della Basilica, dedicata alle Confessioni) che quella esteriore dei miracoli proclamati; d’altronde, credo anche per mancanza di strutture adeguate, la presenza di ammalati è trascurabile.
Giovedì 17 settembre. Sulla via del ritorno in Croazia, in una mattina priva di sole, ho trovato un senso ulteriore alle apparizioni della Vergine: quanti cimiteri e soprattutto quante croci, celati dal buio durante l’andata, in quel territorio quasi del tutto privo di  abitazioni!




A Zara, con l’orecchio teso ad ascoltare la musica che
viene dal mare. (foto Guido Alimento)
All’improvviso, ecco l’impronta drammatica della guerra civile combattuta dal 1991 al 1995. Ciò nonostante, bisogna credere che la Madonna si sia mostrata qui per donare pace a persone le quali magari si trovano a frequentare questi cimiteri di nascosto; chissà, forse nel cuore della notte per non esporsi al rischio di ritorsioni. Può accadere, in viaggio, che una riflessione venga interrotta dall’incalzare degli eventi. E in effetti durante quel breve tragitto ci chiedevamo se e come avremmo ritrovato il “nostro” pullman, abbandonato controvoglia per quasi due giorni. Fortunatamente, a dispetto di ogni timore, esso si trovava ancora lì nel medesimo stato in cui l’avevamo lasciato; per tutti significava la ragionevole certezza di tornare a casa. E, una volta avviato il motore, anche Renzino era ritornato ad essere lui, mentre a noi quello non sembrava un rumore quasi sempre considerato fastidioso, ma l’adagio di una sinfonia.
Iniziava così il lungo viaggio di ritorno percorrendo la medesima autostrada dell’andata, con prima tappa a Zara dove la pioggia aveva lasciato spazio a un pomeriggio assolato.
La città vecchia è adagiata lungo una penisola circondata da mura in quanto il suo porto è stato per secoli conteso tra Venezia, le forze Ungaro-Croate e la flotta Ottomana, che tuttavia non riuscì mai a penetrarvi. Eppure l’impronta italiana mi è parsa prevalente; non tanto per la presenza di rari edifici risalenti al periodo fascista, quanto per il senso di romanità ancora presente nei ruderi e nelle colonne; e ancor più per l’impianto architettonico che riprende le calli della Serenissima; mentre la rinascimentale porta d’Oltremare ricorda l’accesso a qualche città veneta. Persino le numerose gelaterie testimoniano un legame culturale con l’Italia.
Nel frattempo la giovane guida croata, mamma di due bambini, abbinava giustamente l’indipendenza da poco conseguita con un ardente desiderio di pace duratura, resa vana finora dalla posizione strategica del sito; tanto che l’impianto urbanistico originario è stato gravemente alterato dalle incursioni subite nel corso dei secoli; e persino negli anni ’90 la periferia è stata bombardata dalle forze serbe.
Ma se il centro storico conserva magnifiche vestigia, come la chiesa in stile bizantino-ravennate di San Donato e la basilica di San Simeone, che custodisce l’arca argentea del Santo, stupisce in particolare la nuova passeggiata a mare dalla quale si scorge il via vai dei battelli e dei ferry-boat che collegano il porto alle isole adiacenti, ricordando i vaporetti che solcano la laguna veneta. Mentre un’antica tradizione di scambi non soltanto commerciali è evidenziata dal fatto documentato che a Zara i numeri arabi erano conosciuti molto tempo prima che in Spagna.
Isola di Veglia, prima di pranzo, in un buon ristorante.
(foto collezione Guido Alimento)
In realtà si è attratti soprattutto da due opere dell’architetto locale Nicola Basic, che di recente ha realizzato sul pavimento diversi cerchi utilizzando minuscoli pannelli solari per formare un gran sole legato ai suoi satelliti. Poco distante il cemento del molo è stato perforato con 35 canne d’organo le quali restituiscono moto e tonalità delle onde trasmettendo una serie svariata di suoni che possono ricordare l’eco delle conchiglie oppure il sibilo del didgeridoo, un lungo flauto usato degli aborigeni australiani.
La guida ci aveva informato che di notte i pannelli solari si tingono dei più svariati colori; così dopo cena siamo tornati lì solo per il gusto di calpestare quello che potrebbe somigliare alla pedana di una discoteca. Con una differenza: il fracasso del rock si trova sostituito dal motivo dolcissimo del mare che trasuda musica attraverso le canne del vicino organo.

Venerdì 18 settembre La Valsusa era ancora lontanissima ma, inesorabilmente, risalivamo verso nord; dapprima ancora in autostrada, ritornando infine verso le rive dell’Adriatico frastagliate, limpide e azzurre grazie al soffio della bora; mentre sullo sfondo un ammasso roccioso conferiva alla visione una forza drammatica. Si tratta della parte inabitata di Veglia, l’isola più grande dell’Adriatico, meta della nuova giornata di viaggio; ma, prima di attraversare il ponte (realizzato di recente) che sovrasta dall’alto lo stretto di Moriacca, eravamo risaliti costeggiando il mare impeccabilmente pulito anche se privo di spiagge sabbiose.
Quello di Veglia non è diverso dal panorama che segna molte regioni dell’ex-Jugoslavia: sassi e arbusti, raramente  sostituiti da coltivazioni di alberi da frutto suddivise da muretti a secco. Poi, attraverso una minuscola piana dove era in corso la vendemmia, abbiamo raggiunto Vbmik (la lingua croata non ama troppo le vocali), un villaggio lambito dalle vigne ma contemporaneamente sospeso sopra le acque dell’Adriatico; proprio davanti a un promontorio dove una meravigliosa pineta si fa strada non si sa come, quasi fosse radicata in una terra fertile anziché sulla roccia; la medesima che ci ha accompagnato per buona parte del viaggio. Lì abbiamo consumato un ottimo pranzo all’interno della caratteristica taverna che offre piatti sia di terra che di mare; mentre all’entrata una cameriera si era premurata di scattare al gruppo una foto da acquistare (chi voleva) al termine del pasto. Successivamente ci siamo trasferiti a Punat, località più turistica in quanto dotata di un porticciolo da diporto al riparo dalla bora grazie alla morfologia circolare del golfo. Al cui centro sorge un isolotto boscoso che lascia intravedere la cuspide di un minuscolo campanile. Si chiama Kosljun, e l’abbiamo raggiunto in battello dopo un breve tragitto; qui sorge un convento francescano tuttora abitato da tre anziani frati. E mentre don Franco celebra la Messa nella chiesina raccolta, mi sembrava di essere ritornato a Medjugorje in quanto la semplicità e la grazia del sito e soprattutto la gran pace che vi regnano agevolano il raccoglimento, facilitato dal silenzio assoluto che accompagnava la celebrazione: nonostante il portale fosse rimasto spalancato, neppure un moscone o una cicala hanno osato disturbarci. Dopo la funzione, un incontro inaspettato: il nostro Parroco ha conosciuto Padre Clemente, un membro della comunità religiosa isolana, il quale si è compiaciuto apprendendo che il gruppo arrivava da Bardonecchia che lui conosceva bene essendoci stato e avendo scalato varie cime tra cui il Thabor.
Il giro turistico di Veglia si è concluso con una passeggiata nel centro storico del capoluogo, anch’esso dalle caratteristiche prettamente veneziane. Un tramonto radioso ci accompagnava, ma il percorso da coprire lambendo il golfo del Quarnaro era ancora lungo, mentre avvicinandosi a Fiume la vocazione turistica della costiera veniva man mano sostituita da installazioni industriali e navali. Più oltre la statale sovrasta un villaggio affascinante, arroccato armoniosamente assieme alle mura sul dorso di una collinetta, purtroppo dominato da ...gru altissime: si tratta di Bakar, il quale altro non è che Buccari dove (nel febbraio 1918) Gabriele D’Annunzio compì con i suoi “mas” la famosa beffa a danno della flotta austro-ungarica, senza peraltro arrecarle alcun danno, ma con effetti benefici sul morale degli Italiani, pochi mesi dopo la disfatta di Caporetto.
L’attraversamento della città di Fiume, priva di tangenziali, ha costretto Renzino a un interminabile girovagare fra lunghi viali piuttosto trafficati; infine, dopo qualche chilometro, le luci di Abbazia. In questa celebre stazione climatica che può ricordare Rapallo oppure la svizzera Montreux, abbiamo trascorso l’ultima notte in un albergo di stile “belle epoque”. D’altra parte grazie agli edifici imponenti, ai negozi eleganti e alle diverse orchestrine la località fa respirare l’aria di un’eterna vacanza, come se ancora oggi gli Asburgo discendessero qui da Vienna nelle loro carrozze con tanta voglia di divertirsi sfuggendo contemporaneamente al freddo della capitale.
Al termine della ricca cena una gradita sorpresa anima il gruppo. La signora Vicky Dujmic Zoccola, nativa di Abbazia e residente a Bardonecchia, aveva predisposto che, in nostro onore, fosse servito un ottimo dolce da lei offerto. Anche i suoi familiari: l’anziana mamma, la sorella e il fratello, Sindaco di Abbazia, sono a salutarci e si prodigano perché il breve soggiorno possa lasciare in noi quell’ottimo ricordo che, effettivamente, in tutti si è impresso. Gesti di squisita cordialità dei quali siamo grati e riconoscenti.

La Santa Messa nella bella chiesa di S. Giacomo
a Opatija. (foto Luisa Alimento)
Sabato 19 settembre La chiesa di San Giacomo, dove don Franco ha celebrato l’ultima Messa di questo pellegrinaggio, è tanto minuscola che la facciata si nota a fatica in mezzo alle case, in fondo al parco. Quasi guardasse non ai fasti dell’Occidente, ma al paesaggio pietroso e drammatico dell’ex-Jugoslavia che ormai avevamo percorso quasi per intero; legata sotto tale aspetto al Colle delle Apparizioni di Medjugorje. Al vicino confine vien meno non solo la Croazia, ma anche l’autostrada; ed inizia il paesaggio sloveno simile all’Austria con praterie verdissime e dolci colline lambite dalla nebbia, mentre i boschi stavano per tingersi d’autunno. Avanzavamo tranquilli quando in corrispondenza di San Pietro al Carso un crepitare improvviso di fucili ci aveva un poco preoccupato. Anche se la Slovenia non fu quasi toccata, durante i primi anni ’90, dalla guerra civile, in realtà avevamo da poco abbandonato regioni fino a non molti anni fa assai “calde”. Per scoprire poco dopo che era in corso una rievocazione storica (come avviene al Colle dell’Assietta) della liberazione del paese dal giogo napoleonico; con l’unica conseguenza di una lunga coda che ha rischiato di farci perdere l’appuntamento per l’ingresso alle grotte di Postumia.
Ancora un po’ di attesa prima di sederci sui vagoncini scoperti del treno sferragliante che penetra per chilometri nelle viscere di questo immenso antro, un’esperienza eccitante per molti nonostante le condizioni climatiche proibitive: 8-9 gradi di temperatura con umidità al 95%. Qualcuno si è preoccupato nell’apprendere che qui non si sopravvive per più di 5 ore... fortunatamente la visita è limitata a un’ora soltanto. Ma nonostante tutto anche sotto terra resiste caparbiamente qualche forma di vita: si tratta del proteo, un anfibio dotato di ottimo olfatto ma privo degli occhi che non gli servirebbero.
Per qualche attimo, interrompendo la meraviglia suscitata nei visitatori dalle stalattiti e stalagmiti e dalla morfologia stessa della roccia che talvolta sembra rivestita di tessuti spugnosi, mentre in altri casi stende un velo che somiglia all’alabastro, la direzione ha interrotto l’erogazione dell’energia elettrica ...forse per accontentare il proteo! E mentre i fari venivano subito riaccesi, ho pensato all’importanza della luce non solo per la nostra vita materiale ma anche per quella spirituale: può far scoccare il lume della fede come quello della ragione, oppure il bagliore di un’intuizione. In effetti la sensazione più bella l’ho provata all’uscita, sotto i raggi di un caldo sole.
La Slovenia resta molto legata all’impero asburgico anche nella cucina (durante il pranzo abbiamo gustato lo stinco e lo strudel) e perfino nell’efficienza, visto che le toilette risultano impeccabili facendo sfigurare quelle degli autogrill nostrani. Qualcuno poi avrebbe voluto approfittare del fatto che qui non esistono problemi di cambio (essendo stata adottata la moneta comunitaria) e indugiare negli acquisti. Ma non si poteva: erano passate le 14,30 e ancora distavamo da casa più di 600 chilometri. Sul bus il tempo è trascorso veloce, alternando al sonno e al chiacchiericcio momenti di preghiera, riflessione, allegri canti, filmati DVD. Oppure osservando il paesaggio che, oltrepassata Trieste, si spoglia definitivamente delle pietraie carsiche per rivestirsi di fertili campi sempre più spesso intervallati, nonostante i morsi della crisi, dai capannoni. E quanto più traffico da noi, rispetto alle arterie croate! Ma forse la Madonna ha deciso di apparire in una terra che non è tale, ma un’aspra pietraia simbolo di difficoltà che la esalta quale Consolatrice. In una zona dove perfino nel recente passato il Cristianesimo è stato costretto a nascondersi o quantomeno a manifestarsi quale realtà semplice e umile. Così, all’imbocco della Valsusa, la Sacra di San Michele illuminata mi è parsa stavolta più luogo di preghiera che monumento, legato per questo al Santuario di Mompantero e alla nostra stessa Parrocchia. Rivedendola, è venuto naturale rivolgere un pensiero di gratitudine verso don Franco, la nostra guida spirituale e organizzativa. Ma anche al gruppo dei partecipanti, perché grazie a loro un pellegrinaggio spiritualmente intenso si è potuto vivere anche come piacevole esperienza di viaggio.
Guido e Luisa Alimento