Attesa da molti con ansia, da non pochi con angoscia, da tutti con
curiosità è finalmente stata pubblicata – «frutto di lunghe riflessioni, di
molteplici consultazioni e di preghiera » – la Lettera Apostolica che amplia le
facoltà di celebrare la liturgia romana secondo il rito anteriore alla riforma
del 1970.
Il contesto storico e dottrinale
È stata spesso presentata come un atto improvviso, dall’aria un
po’ arbitraria, frutto di una decisione tutta personale del Papa Benedetto XVI,
motivata – nella migliore delle ipotesi – dalla volontà di favorire il rientro
nella pienezza della comunione cattolica della Fraternità San Pio X, fondata
dall’Arcivescovo francese Mons. Marcel Lefebvre (1905-1991). Le cose non sono
andate così. Il Motu proprio “Summorum Pontificum” ha una lunga storia
antecedente che – per tanti versi – trascende l’«affaire » Lefebvre.
Quando fu fatta la riforma liturgica non si pensò di dover
abrogare la liturgia precedente. Si era infatti convinti che la cosa sarebbe
andata da sé: la nuova liturgia avrebbe insensibilmente ed inesorabilmente
sostituito l’antica, come era successo spesso nella lunga storia della Chiesa.
Gli eventi presero invece decisamente un’altra direzione. Non si era tenuto
conto del fatto che la riforma era avvenuta – o, perlomeno, era stata percepita
– come qualcosa di “fatto a tavolino” da un gruppo di esperti e non come il
frutto maturo di una impercettibile evoluzione storica. Inoltre si era
sottovalutato che si trattava della più imponente riforma liturgica di tutta quanta
la storia del cristianesimo. Verso la metà del XVII secolo, il Patriarca di
Mosca Nikita Minicˇ Nikon (1605-1681) attuò una riforma del rito bizantino
slavo celebrato dalla Chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel
conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a
Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il
più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con
due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni (frantumatosi ben
presto in diverse branche) che conta ancora ai nostri giorni milioni di
aderenti.
Toccare la liturgia è sempre molto rischioso! Così la riforma
liturgica non si affermò affatto in modo “indolore”. Da una parte, essa fornì
l’occasione ad una serie di scandalosi abusi, dove l’abuso principale – quello
strisciante – era l’idea che la liturgia fosse qualcosa di continuamente da
inventare, da “fare” e non piuttosto l’accoglienza e la celebrazione del dono e
dell’azione di Dio in mezzo agli uomini: «Tutte le volte che celebriamo questi
santi misteri si compie l’opera della nostra redenzione»
(Preghiera sulle offerte della II Domenica durante l’anno).
Dall’altra, suscitò una reazione a volte violenta e a volte nascosta, ma
comunque reale e fastidiosa, tale da generare un clima di disagio che finì per
rendere problematici i suoi innegabili effetti positivi là dove essa era
applicata e vissuta in ossequio alle norme e – soprattutto – in conformità con
la teologia liturgica che la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium aveva
così profondamente delineato.
Questa reazione critica era arrivata – in qualche caso –
addirittura a mettere in discussione l’ortodossia della riforma. Cosa assurda e
teologicamente molto debole, soprattutto se esaminata dal punto di vista di una
corretta ecclesiologia, ma che era resa molto credibile dai tanti abusi
liturgici che finivano per addolorare e spazientire i fedeli.
Questo è l’indispensabile contesto in cui va letto il documento. Innanzitutto, dunque, va considerato che
l’antico rito non è mai stato abrogato.
Tant’è vero che, ad un certo punto, vista l’inattesa reazione alla
riforma, il Presidente del Pontificio Consiglio per l’esecuzione della riforma
liturgica Mons. Annibale Bugnini (1912-1982) si adoperò per ottenerla, ma senza
successo. Ci si rese infatti subito conto che si trattava di un atto molto
problematico. I canonisti avevano ipotizzato la possibilità di una obrogatio,
cioè di una eliminazione di fatto dovuta al totale riordino della materia: si
sarebbe comunque trattato di qualcosa di inaudito, cioè dell’abolizione
mediante un atto giuridico di un rito liturgico ortodosso e immemoriale.
Ci si doveva allora obbligatoriamente riferire al canone 21 del
Codice di Diritto Canonico: «Nel dubbio la revoca della legge preesistente non
si presume, ma le leggi posteriori devono essere ricondotte alle precedenti e
con queste conciliate, per quanto è possibile».
Il Motu proprio non fa dunque che sanzionare questa
situazione di fatto: «Questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di
conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso» (Benedetto XVI,
lettera di accompagnamento). La Chiesa, davanti al rito antico, si trova a
riconoscere, come in altri casi analoghi (per es. l’ordinazione di donne al
ministero presbiterate), di non avere con certezza la facoltà di procedere.
Questo non significa affatto una limitazione indebita del potere della Chiesa,
ma solo il riconoscimento che la consuetudine liturgica, ortodossa ed
immemoriale, costituisce una delle espressioni della sua stessa sacra
potestas.
La legittima esistenza del rito, che deve essere inteso come forma
straordinaria dell’unico rito romano, configura un corrispondente diritto dei
fedeli. Per cui se un sacerdote decide di celebrarlo nella forma «sine populo» (cioè
al di fuori delle Messe di orario parrocchiali o comunque pubbliche) qualunque
fedele può accedere alla sua celebrazione, senza che né il sacerdote né i
fedeli debbano chiedere l’autorizzazione a chicchessia (cfr. Summorum
Pontificum, art. 2 e 4).
Per le Messe parrocchiali bisogna che i fedeli costituiscano un
gruppo stabile e facciano richiesta al
parroco. Se i fedeli legati alla liturgia tradizionale appartengono a diverse
parrocchie, è prevista anche la possibilità – a prudente giudizio
dell’ordinario – di una parrocchia personale (cfr. art. 10). Tutto ciò, assieme
alle altre norme che si possono leggere nel documento, aiuta a capire che se si
configura un diritto dei fedeli, esso però deve essere vissuto non in un clima
da “rivendicazione sindacale” ma nella prospettiva del bene comune della Chiesa
e dell’ordine che ad esso intrinsecamente appartiene (cfr. 1Cor 14,40; 11,16).
È riduttivo dunque leggere il documento solo in una prospettiva di
riconciliazione con la Fraternità S. Pio X. Se è vero che la carità ecumenica
non è credibile se non si manifesta innanzitutto con il prossimo più prossimo,
tuttavia non si deve misconoscere che i punti di frizione con questi fratelli
non si riconducono solo al problema liturgico, ma abbracciano altri punti molto
delicati: la libertà religiosa, il dialogo interreligioso, l’ecumenismo. In
definitiva la Chiesa stessa e il suo magistero, con la tematica a ciò connessa
della Tradizione e dello sviluppo dottrinale. «Tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà
al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa
spaccatura. che qui nasceva, si trovavano però più in profondità» (Benedetto
XVI, lettera di accompagnamento).
I fedeli direttamente interessati dal Motu proprio poi non
si riconducono nella loro stragrande maggioranza a quel movimento e non si
tratta affatto di persone anziane legate al loro passato, ma spessissimo di
giovani affascinati dal tono ieratico e sacrale dell’antica liturgia.
Un documento nell’ottica della continuità e della riconciliazione
Mi pare invece assai chiaro vedere nel documento una sconfessione
visibile. direi «vessillare» dell’ermeneutica della rottura. L’“in principio”
remoto è costituito dal Discorso alla Curia Romana tenuto da Benedetto XVI il
22 dicembre 2005, quello in cui il Papa ha identificato la causa principale
della crisi in atto nella Chiesa nell’interpretazione errata del Concilio
Vaticano II: «Due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno
litigato tra loro». Due e non tre... Con quel discorso siamo finalmente usciti
dal modello ternario conservatori-progressisti-moderati che rifletteva di fatto
anch’esso una lettura ideologica della vita della Chiesa.
Il modello binario di Benedetto XVI è – come deve essere –
puramente teologico.
Il Motu proprio in questo contesto ha un significato che va
ben al di là di un atto di carità ecumenica nei confronti di una minoranza,
sebbene ci sia certamente anche quello. È molto più ampio: significa
esemplarmente, con quell’esemplarità che
compete di suo alla liturgia, la sconfessione dell’ermeneutica della rottura.
Questo fatto fornisce anche a tutti coloro che vogliono assecondare il
Magistero nella sua opera di “riforma” un criterio interpretativo prezioso: il Motu proprio deve essere
interpretato – e quindi anche applicato e vissuto – in un ottica di continuità
e non di rottura. Non è una “rivincita” ma un approfondimento.
Tutto ciò che mette in contrapposizione le due forme di quello che
il Papa definisce un unico rito romano porta acqua al mulino dell’ermeneutica
della rottura e non risponde all’intentio profonda dell’atto
magisteriale. Certamente è legittimo – di per sé – fare confronti. Io posso
esprimere un’opinione sul fatto che – poniamo – la liturgia siro-occidentale
esprima meglio l’idea di adorazione rispetto a quella coptaalessandrina. O
viceversa. Nel caso però, anche se legittime, considerazioni del genere risultano
inopportune. Certamente non hanno né possono avere un valore che va oltre a
quello di una pur legittima opinione teologica. Così come l’Imitatio Christi
sconsiglia caldamente di far confronti tra i santi, credo non sia il tempo
e il momento per lanciarsi in disquisizioni su quale sia la liturgia migliore.
Il
che non toglie nulla al fatto che – per rimanere nell’esempio – uno abbia le
sue devozioni preferite.
Né che una convivenza di varianti rituali nel contesto dello
stesso rito – nel comune convincimento che tutte sono sacre e sante, in quanto
dalla Chiesa recepite – faccia del bene sia all’una che all’altra e possa
favorire una intelligente e non arbitraria “contaminazione”, il che andrebbe
nel senso di quella “riforma della riforma” da tanti auspicata come l’esito
proprio e felice delle aspirazioni più profonde e vere del “movimento
liturgico” e del rinnovamento promosso dal Concilio ecumenico Vaticano II.
La Summorum Pontificum rappresenta dunque anche un
implicito invito a dar vita ad un “nuovo movimento liturgico”. Solo un
movimento spirituale e culturale di vaste proporzioni può ridare alla liturgia
– prendendo come “manifesto” proprio la Costituzione dogmatica Sacrosanctum
Concilium con i profondi e troppo poco considerati commenti e sviluppi del
Catechismo della Chiesa Cattolica – il suo ruolo di fonte e culmine della vita
della Chiesa con tutta la bellezza e lo splendore che le competono di diritto. Così
come molti nel 1970 pensarono che con un nuovo rito tutto fosse fatto, ora
dobbiamo stare attenti a non pensare che adesso, con la possibilità di
celebrare il vecchio rito, tutto sia risolto. Pensare, o lasciar credere, che
il rito possa sostituire la formazione liturgica è mettere il carro davanti ai
buoi, è un incentivo alla pigrizia, che – come ben sappiamo – è una delle
principali tentazioni dei “buoni”: «I figli di questo mondo, infatti, verso i
loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8).
S. Messa cantata in gregoriano dai Monaci Benedettini di Le Barroux. (foto Emilio Allia) |
S.
Messa cantata in gregoriano dai Monaci Benedettini di Le Barroux. (foto
Emilio Allia)
I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura
che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, «a lode e
gloria del Suo nome» ed «ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa». Da tempo
immemorabile, come anche per l’avvenire, è necessario mantenere il principio
secondo il quale «ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa
universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali,
ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione
apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche
per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della
Chiesa corrisponde alla sua legge di fede».
Tra i Pontefici che ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di
San Gregorio Magno, il quale si adoperò perché ai nuovi popoli dell’Europa i trasmettesse sia la fede cattolica che i
tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti.
Egli comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra liturgia,
riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l’Ufficio divino, nel modo in cui
si celebrava nell’Urbe. Promosse con massima cura la diffusione dei monaci e delle
monache, che operando sotto la regola di San Benedetto, dovunque unitamente
all’annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la salutare massima della
Regola: «Nulla venga preposto all’opera di Dio» (cap. 43). In tal modo la sacra
liturgia celebrata secondo l’uso romano arricchì non solo la fede e la pietà,
ma anche la cultura di molte popolazioni.
Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle varie sue
forme, in ogni secolo dell’età cristiana, ha spronato nella vita spirituale
numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtù di religione e ha
fecondato la loro pietà.
Molti altri Romani Pontefici, nel corso dei secoli, mostrarono
particolare sollecitudine a che la sacra liturgia espletasse in modo più
efficace questo compito: tra essi spicca San Pio V, il quale sorretto da grande
zelo pastorale, a seguito dell’esortazione del Concilio di Trento, rinnovò
tutto il culto della Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici,
emendati e «rinnovati secondo la norma dei Padri» e li diede in
uso alla Chiesa latina.
Tra i libri liturgici del Rito romano risalta il Messale Romano,
che si sviluppò nella città di Roma, e col passare dei secoli a poco a poco
prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più
recenti.
«Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici
nel corso dei secoli seguenti assicurando l’aggiornamento o definendo i riti e
i libri liturgici, e poi, all’inizio di questo secolo, intraprendendo una
riforma generale». Così agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII,
San Pio X, Benedetto XV, Pio XII e il Beato Giovanni XXIII.
Nei tempi più recenti, il Concilio Vaticano II espresse il
desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino
venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età.
Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI,
nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte
rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono
accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza
edizione tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato
«perché questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido
per dignità e armonia».
Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad
aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali
avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il
Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi
fedeli, nell’anno 1984 con lo speciale indulto Quattuor abhinc annos, emesso
dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il
Messale Romano edito dal Beato Giovanni XXIII nell’anno 1962; nell’anno 1988
poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica Ecclesia Dei, data in
forma di Motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale
facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.
A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo
soppesate già dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato
Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo
riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver
invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue:
Articolo 1 - Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge
della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale
Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve
venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve
essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi”
della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi”
(“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.
Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica
del
–
Pubblichiamo il testo integrale della Lettera Apostolica di Benedetto XVI “Motu
proprio data” sull’uso della
liturgia romana anteriore alla riforma del 1970.
ATTUALITÀ
- 101
Messale
Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma
straordinaria della Liturgia della Chiesa. Le condizioni per l’uso di questo
Messale stabilite dai documenti anteriori Quattuor abhinc annos e Ecclesia Dei,
vengono sostituite come segue:
Articolo
2 - Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico
di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito
dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal
Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro.
Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha
bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario.
Articolo
3 - Le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di
vita apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, che nella
celebrazione conventuale o “comunitaria” nei propri oratori desiderano celebrare
la Santa Messa secondo l’edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono
farlo. Se una singola comunità o un intero Istituto
o Società vuole compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o
permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del
diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari.
Articolo
4 - Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2,
possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo
chiedessero di loro spontanea volontà.
ARTICOLO
5 - § 1. Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli
aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le
loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del
Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si
armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del
Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di
tutta la Chiesa.
§ 2.
La celebrazione secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII può aver luogo nei
giorni feriali; nelle domeniche e nelle festività si può anche avere una
celebrazione di tal genere.
§ 3.
Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni
in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni,
esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi.
§ 4.
I sacerdoti che usano il Messale del Beato Giovanni XXIII devono essere idonei
e non giuridicamente impediti.
§ 5.
Nelle chiese che non sono parrocchiali né conventuali, è compito del Rettore
della chiesa concedere la licenza di cui sopra.
Articolo
6 - Nelle Messe celebrate con il popolo secondo il Messale del Beato
Giovanni XXIII, le letture possono essere proclamate anche nella lingua vernacola,
usando le edizioni riconosciute dalla Sede Apostolica.
Articolo
7 - Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all’art. 5 § 1
non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi
il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro
desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga
riferita alla Commissione Pontificia Ecclesia Dei.
Articolo
8 - Il Vescovo, che desidera rispondere a tali richieste di fedeli
laici, ma per varie cause è impedito di farlo, può riferire la questione alla
Commissione Ecclesia Dei, perché gli offra consiglio e aiuto.
Articolo
9 - § 1. Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, può
anche concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei
sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell’Unzione degli
infermi, se questo consiglia il bene delle anime.
§ 2.
Agli Ordinari viene concessa la facoltà di celebrare il sacramento della
Confermazione usando il precedente antico Pontificale Romano, qualora questo
consigli il bene delle anime.
§ 3.
Ai chierici costituiti “in sacris” è lecito usare il Breviario Romano
promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962.
Articolo
10 - L’Ordinario del luogo, se lo riterrà opportuno, potrà erigere
una parrocchia personale a norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la
forma più antica del rito romano, o nominare un cappellano, osservate le norme
del diritto.
Articolo
11 - La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, eretta da Giovanni Paolo
II nel 1988, continua ad esercitare il suo compito. Tale Commissione abbia la
forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorrà attribuire.
Articolo
12 - La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode,
eserciterà l’autorità della Santa Sede vigilando sulla osservanza e
l’applicazione di queste disposizioni.
Tutto
ciò che da Noi è stato stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di
Motu proprio, ordiniamo che sia considerato come “stabilito e decretato” e da osservare
dal giorno 14 settembre di quest’anno, festa dell’Esaltazione della Santa Croce,
nonostante tutto ciò che possa esservi in contrario.
Dato
a Roma, presso San Pietro, il 7 luglio 2007, anno
terzo del nostro Pontificato.
BENEDETTO
XVI