Quella penna col boccettino d’inchiostro
IL PRATO BOMPARD
DISCAUSÉ LA MELIA
* * *
Quella
penna col boccettino d’inchiostro
I rintocchi della campana si susseguivano tristi e quasi erano in
contrasto con la domenica di sole smagliante.
Per me, e senz’altro per molti altri, lei era, Reverendo, un punto
di riferimento. Era una persona buona, retta, un vero uomo di Dio;
dall’apparenza un po’ severa, ma era solo apparenza.
Sette anni di differenza d’età fra noi. Abitava, da giovane,
vicino ai miei nonni e quante corse abbiamo fatto assieme, allora. Poi, mio
insegnante di religione. Senz’altro lei ricordava di me, di noi, eppure mai ne
abbiamo parlato, per timidezza mia, ma anche, probabilmente, per certi principi
suoi e mi permetta, anche miei. E, rammento quella penna con la boccetta
d’inchiostro. Sia ben chiaro: le stilografiche già le avevano inventate e
solamente qualche biro circolava, ma il suo “occorrente per scrivere”
senz’altro era più economico. Dei denari che lei guadagnava, ben poco rimanevano
nelle sue tasche. Dava a quelli che ne avevano meno di lei. Quella penna, quel
pennino, qualche volta facevano capricci, ma nonostante ciò, sempre giungeva in
aula, Professore, con la solita coppia. Un paio di anni fa, ero venuto da lei,
nella sua Parrocchia, per augurarle buona Pasqua, e allora le avevo raccontato dei
nostri giochi giovanili e della penna col boccettino e avevo detto anche che la
Chiesa aveva (ed ha) bisogno di uomini come lei. E lei con un tenue sorriso
aveva reclinato la testa. Era un bel giorno pieno di sole come oggi, mentre sto
assistendo alle sue esequie. Compagno di giochi d’infanzia. Insegnante di
scuola e di vita. Mai la dimenticherò.
Un suo amico di gioventù. Un suo allievo.
IL
PRATO BOMPARD
Per me la Bardonecchia più autentica incomincia quando ci si
inoltra in Borgo Vecchio. Le strade un po’ storte si arrampicano lentamente fra
le case, alcune delle quali hanno fortunatamente mantenuto l’aspetto antico,
fino al piazzale
della chiesa, che adesso è misteriosamente diventato molto più
grande. Si continua a salire oltre Sant’Ippolito, oltre la canonica, fino
all’antica casa priora del paese su cui adesso una grossa, complicata antenna
mette in ombra il globo con la croce che ha distinto il suo tetto per secoli.
Lì accanto in molti vengono ad attingere acqua alla fontana, che anni fa era un
lavatoio con il suo tetto di legno e le sue pietre inclinate per lavare il
bucato. La vecchia signora Barnaud, quella che mi offriva le uova appena deposte
per farle bere alla mia bambina, a volte veniva ancora lì per lavare i panni con
la brusca e il sapone. Proprio accanto al lavatoio, dove inizia la strada per
salire alle Tre Croci, si apriva – e si apre tuttora – il vecchio cancello di
legno che immette su un grande, grande prato. Proprio su di esso si aprono le
finestre dell’alloggio che affitto da un tempo che mi pare immemorabile, a cui
salivano le voci delle persone che sul prato si radunavano ogni giorno. Le
risento ancora queste voci, le rivedo queste
persone che hanno accompagnato la mia giovinezza. Numerosi sono
qui in Bardonecchia i luoghi che cambiano spesso ruolo e destinazione: pochi
sono invece quelli che, come questo prato, vengono sommersi dal silenzio.
Ricordo mia madre dire durante l’inverno: “Per tutto l’anno io mi
sogno il prato di Bardonecchia: ci batte il sole fino al tramonto”. In numerose
occasioni mi è avvenuto di dire che i luoghi conservano l’impronta
di chi ci è vissuto e lo ha amato, e spesso fissarvi lo sguardo
equivale a vedere riapparire e muoversi le immagini, come quelle che a Lione
hanno dipinto alle finestre e ai balconi dei palazzi che i personaggi avevano
abitato: i fratelli Lumière, Saint Exupéry... Io spesso le vedevo, quelle persone
di tanti anni fa, dalle finestre della stanza in cui lavoravo. Erano “le signore del prato Bompard”, che scendevano
a chiacchierare e a sferruzzare dalle case che sul prato sorgevano. Una delle
più vivaci era la signora Zappi, forse anche la più assidua, così piena di vita
nonostante l’età avanzata o forse proprio per questa che l’aveva arricchita di
esperienze, di conoscenze e di memorie.
Prodiga di consigli e di battute spiritose, muoveva con allegria
la sua testa bianca al di sopra dei lavori a maglia che eseguiva per i numerosi
nipoti parigini. Si divideva con lei la leadership del gruppo Jole Canuto, così
vivace e scoppiettante, così curiosa di tutto e ricca di cultura. Aveva
un’antica conoscenza di Bardonecchia, perché vi aveva trascorso alcuni degli anni di guerra (quando suo marito
Piero, da ufficiale degli Alpini, passava le sue giornate nell’organizzazione
dei forti della Valle Stretta), raccontava anche di avere insegnato in quel
periodo nella Scuola Media locale, e a Bardonecchia avevano trascorso i primi
anni i suoi due figli.
Ma quanta allegria, quante risate, di quelle che rallegrano e
rimuovono il sangue, sotto l’albero di mele di cui alcune cercavano l’ombra!
Quasi sempre Ida Bompard si univa alle altre signore. Franca Massetti, un’altra
inquilina della casa, anche se presto era andata ad abitare in pineta, tornava
spesso a condividere quei pomeriggi e a sentenziare
su modelli di maglie, calze e scialli, e sulle tecniche migliori
di esecuzione. Le maglie le faceva per il marito Ettore – Papà Ete – presto
scomparso e per i due figli che allora studiavano ancora. Oggi chi lavora più
ai ferri? O all’uncinetto?
Tata Arrighi arrivava dalla casa di fianco, con la sua bellezza e
la sua allegria. Si intrecciarono perfino matrimoni all’ombra del melo, come
quello fra la sua bella sorella dai lunghi capelli biondi e il figlio maggiore
di Jole, divenuto ormai ingegnere. Anche
la signora Fontana veniva qui, dalla seconda casa, la stessa di Tata, a
raccontare le sue esperienze che allora ci sembravano appartenere a un mondo
diverso dal nostro, più ricco e più raffinato e brillante. Le sue storie erano
sempre piene di pathos. Più timida, Franca Rodda che abitava sopra di me, che
amava la musica ed era amica della moglie del musicista Lessona, scendeva a
sorvegliare le sue due belle bambine che giocavano con le nostre. Più tardi si
aggiunse anche Carla, che ancora viene qui d’estate; allora scendeva nel prato
con sua madre, una delle più assidue amiche della mia. Erano venute ad abitare
lì quando mia sorella e i miei erano entrati nell’“altra casa”: Carla Mazzara
era una delle più antiche amiche di mia sorella Germana, dai tempi
dell’Università. Anche la mia vicina di pianerottolo, Laura Masante, scendeva a
lavorare e a chiacchierare nel prato, prima di diventare un campione di bocce
che partecipava a tutti i tornei. Il cicaleccio di tutto il gruppo saliva alla
mia finestra,
dandomi un senso di serenità e di sicurezza. Tutti i bambini –
anche la mia – giocavano insieme nel grande prato. Ne ho contati a volte fino a
ventitré dal più piccolo ai più grandi. Correvano e ridevano, giocavano a
palla, si riunivano a grappoli sul muretto o sulla panca contro il muro,
litigavano e facevano la pace. Una volta i più piccoli raccolsero un uccellino
caduto dal nido, che tentarono di tenere in vita nutrendolo come potevano.
Quando, com’era naturale, il malcapitato morì, gli fecero un solenne funerale
accompagnandolo in processione fino a una piccola tomba su cui avevano piantato
dei fiori. Poi, per mesi, periodicamente: “Andiamo alla tomba dell’uccellino?”.
Con mia figlia giocavano, oltre all’inseparabile Maria Clara
Bompard, mia nipote Monica, Enrica Arrighi e la sua cuginetta Marta, Angelo
Masante, le due sorelline Rodda, Paola Fontana e Isabella Grazi e poi i loro
amici che li raggiungevano da fuori, come Chico Bellando, Andrea Scarfò e
Charlie Crovella. Schiamazzi, risate, liti, corse, con il cane Lassie che amava tutti i bambini, e saltava, faceva
corse pazze con loro e li accompagnava nelle passeggiate. La seconda figlia di
Jole Canuto, che si chiamava Marilí, radunava a volte tutti i bambini intorno a
sé, raccontando loro delle bellissime favole e convincendoli dell’esistenza del
Puka, una sorta di grande essere, un alter ego, che li accompagnava ovunque anche se non lo vedevano. Mi
basta riaffacciarmi alla finestra per rivedere tutte quelle teste chine a
chiacchierare, per riascoltare il ticchettio dei ferri da maglia – ecco uno dei
rumori scomparsi dalla nostra vita – e soprattutto per riudire le grida gioiose di
tutti quei bambini. Oggi, a volte, se ne vedono uno o due, ma stanno soli,
fermi, giocando silenziosi e isolati con un game boy, o tirando qualche calcio
a un pallone insieme al papà. Oppure vengono portati fuori, verso il parco giochi
che allora non c’era. Però la pineta era più grande. A volte tutto il gruppo
partiva con i panini per una gita, accompagnato da un adulto ma soprattutto dal
fedele cane Lassie, per una gita sulla montagna che oggi è percorsa quasi solo
dai fuoristrada.
Davanti alle signore sedute sotto il melo passavano gli uomini
della casa, ciascuno con il suo astuccio per le bocce in mano; salutavano e si
dirigevano svelti verso la bocciofila lungo il fiume, per tornare dopo le sei,
ora in cui si riformavano le coppie e scendevano per il passeggio in via
Medail, l’unica abitudine che ancora oggi si mantiene.
Quando qualche estraneo oltrepassava il cancello, forse provava un
po’ di imbarazzo, a essere fissato da tutti quegli occhi che si alzavano dal
lavoro: ma spesso si trattava di signore che venivano a unirsi al gruppo, e le
conversazioni riprendevano subito. A volte, oggi, scendo nel prato a leggere.
Sono sola, apparentemente; ma i miei occhi rivedono tutte quelle persone che il
ricordo mantiene giovani e vive come erano allora.
Elena
Cappellano
DISCAUSÉ
LA MELIA
La “melia - meglia” erano due dei vari nomi che, in piemontese
indicavano il “granoturco - mais”. “Discausé”, cioè scalzare, levare la terra
di torno, dice un vocabolario che ho qui. Per saperlo io però, non avevo
bisogno di vocabolario, perché quando ero ragazzino l’avevo visto fare e fatto,
io stesso in campagna. (...) A primavera inoltrata, dal bruno della terra dei
campi seminati a granoturco, sorgevano file dritte e regolari di pianticelle
alte appena una ventina di centimetri, distanti tra di loro, altri venti o
trenta. Lì cominciava il “discausé”. Con zappe leggere, anche le donne o noi
ragazzi, potevamo fare quel lavoro, non era pesante. Era uno zappare leggero, appena
in superficie, rompeva le piccole zolle e interrompeva il crescere della vegetazione,
erba o altro parassita,che avrebbe condizionato il crescere del mais. Scalzare,
togliere la terra alle fondamenta. Con la Chiesa è stato fatto sempre. Ora abbiamo
i Dan Brown, i Corrado Augias e altri ancora che inneggiano dai palchi sulle piazze,
ma queste persone, non sanno che “Discausé” ha sempre fatto bene alle piante,
sia al grande albero che è il Cristianesimo, che al mais. Io, quand’ero
piccolo, credevo che le pianticine scalzandole sarebbero morte, ma non è vero.
Crescono eccome, sempre più forti e danno frutti.
E poi, giungeva il tempo dell’“arcausé”, rincalzare. Un piccolo
aratro a doppio vomere veniva fatto passare tra le due file di piantine,
l’aratro formava tra di loro un bel solco e la terra che i vomeri sollevavano e
risvoltavano andava a formare come un cordone di protezione delle stesse, con
terra risvoltata e nuova. Infine, dove la campagna era pianeggiante,
l’irrigazione; l’acqua che correva in quei solchi lasciati dal piccolo aratro,
quasi sempre trainato da un cavallo. Le piccole piante crescevano, diventavano robuste
canne che avrebbero portato le grandi pannocchie, le belle foglie a spada di un
verde intenso, sano, perché il grano è il seme della vita anche interiore: turco
o no.
Giuseppe
Bernardi