LE MEMORIE
DI UN GIOVANE MONTANARO
All’inizio del
Settecento Bardonecchia, che apparteneva alla Francia da 350 anni – da quando
cioè aveva cessato di esistere il Delfinato autonomo – era abitata da circa 180
famiglie e 800 persone: un altro migliaio di abitanti era distribuito nei paesi
della conca, le odierne frazioni di Rochemolles, Melezet, Les Arnauds e
Millaures.
In particolare
a Millaures viveva una cinquantina di famiglie, tra cui quella del giovane
Joseph Guiffre, che, come tutte, viveva delle magre risorse agro-pastorali di
una montaga di nove mesi di inverno e tre mesi di inferno. Il nome di questo
montanaro è giunto fino noi poiché egli aveva l’abitudine di annotare in un
quadernetto gli avvenimenti del paese e della famiglia. Si tratta di
annotazioni che partono dal 1703 e che ci offrono un contributo diretto, a
tratti commovente, per rievocare – al di là dei resoconti ufficiali – gli
eventi di cui ricorre il terzo centenario: accanto alla “grande storia”, di cui
Bardonecchia visse in quel tempo una breve pagina, la “piccola storia”, quella
che si conserva attraverso la testimonianza di un uomo qualunque,
alle prese con i suoi problemi di quotidiana sopravvivenza. Cominciamo a scorrere
il memoriale, nella traduzione dal francese, a partire dal 1706, anno del quale
il Guiffre ricorda un solo evento, che evidentemente lo ha molto impressionato:
A sinistra: il duca di Savoia Vittorio Amedeo II.
A destra: il generale Otto Rehbinder. (collezione A. Bianco)
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«Nell’anno 1706, il 12 maggio, alle nove e mezza del mattino il sole si è oscurato, la luce del giorno è scomparsa di colpo e si potevano vedere le stelle come di notte. Io e mio fratello Jean Pierre, che lavoravamo a Bardonecchia alla costruzione di un muro nel giardino di Jean Nevache, abbiamo dovuto smettere il lavoro perché non ci vedevamo più. Quando il sole si è oscurato faceva molto freddo, poi è cominciato a riapparire il giorno come se fosse l’aurora, e il sole era così accecante che non vi si poteva rivolgere lo sguardo».
Si trattava di
quella stessa eclissi di sole che a Torino, nei giorni di apprensione per
l’imminente assedio alla città da parte dei francesi, era stato interpretato
come presagio favorevole: nel sole che si oscurava nel cielo era visto infatti il
segno della sconfitta del Re Sole. Non solo: nell’oscurità improvvisa si vide
bril lare la
costellazione del Toro, ed anche questo fu assunto a simbolo della fortuna della
città, che aveva il toro nel suo emblema. In effetti, dopo quattro mesi di durissimo
assedio, le truppe di Luigi XIV verranno sconfitte nella memorabile battaglia
del 7 settembre.
Ma la eco di
quegli avvenimenti, che mutarono il corso della storia europea, probabilmente
non giunse fino a Millaures, neppure nell’anno successivo, quando la guerra di
successione spagnola continuava, ma ormai su fronti lontani, e Bardonecchia
restava saldamente in mano francese. Anche per il 1707 un solo avvenimento è
annotato dal Guiffre:
«Nell’anno
1707 i soldati sono rimasti in paese sino alla fine di maggio. Nello stesso
anno, il 6 giugno, nella notte di San Claudio, e il successivo giorno 7 fino al
pomeriggio, è caduta una pioggia incessante, che ha portato via tutti i ponti da
Rochemolles fino a Oulx, ha distrutto tre case a Bardonecchia, ha allagato la chiesa
e ha fatto gravi danni. Attraversando Bardonecchia l’acqua ha scavato la strada
dalla fontana della piazza sino oltre l’abitato, sulla via di Melezet, per un’altezza
di mezza tesa».
Per la
cronaca, l’altezza di mezza tesa corrisponde a poco meno di un metro. Quella
del 1707 è una delle molte alluvioni disastrose che nei secoli hanno perio- dicamente
sconvolto la conca di Bardonecchia. Ma nell’anno successivo il diario del
nostro Joseph, redatto sempre senza enfasi, con un apparente distacco che sembra
evocare la vita severa dei montanari, cambia registro: non si parla più di eventi
naturali, bensì di quegli avvenimenti di cui stiamo celebrando il terzo cen- tenario:
«Nell’anno
1708, il 30 luglio il duca di Savoia è entrato in Bardonecchia con un grosso
esercito comprendente truppe sue e di altre provenienze, cioè tedeschi, brandeburghesi,
ussari, valdesi, che sono venute ad accamparsi nella piana di Bardonecchia».
Va
ricordato ancora che per i bardonecchiesi il duca di Savoia e il suo esercito
rappresenta- vano il nemico. Che cosa era dunque accaduto?
Riprendiamo
per sommi capi il filo delle vicende della guerra di successione spagnola, che
da otto anni
sconvolgeva l’Europa. Il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, dopo avere liberato
la sua capitale, mirava a
ulteriori rivincite sui francesi che, pur dopo lo smacco subito a Torino,
conservavano il controllo della Savoia, oltre che delle loro valli del Chisone
e di Susa, da Gravere in su.
Queste valli,
al di qua delle Alpi, erano una spina nel fianco del Piemonte, e la loro
conquista, da
secoli
obiettivo della dinastia, diventava ora forse possibile.
Il 16 luglio
1708 il duca raduna a Susa un esercito di 37.000 uomini, compresi gli alleati imperiali
guidati da Virico Daun. Il 19 luglio le truppe passano il Moncenisio e il 24
sono a Modane, il 28 a St. Jean-de-Maurienne. Sembrano
intenzionate a proseguire la discesa nella valle dell’Arc, verso
Chambery o, passando dal Galibier, verso Grenoble: così credono i francesi che
accorrono a sbarrare il passo, sguarnendo le postazioni che si trovano al di
qua delle Alpi.
Invece, con
una mossa sulle cui vere motivazioni politico-militari gli storici ancora si
interrogano (una strategia geniale per indurre in errore il nemico o una
rinuncia forzata su pressioni forse di Vienna?), il duca decide di puntare su
Bardonecchia e l’alta Valle di Susa. Ordina al barone di Rehbinder, un valoroso
ufficiale svedese di origine estone, di risalire la valle dell’Arc; il 29
luglio questi arriva a Modane, dove lascia il grosso delle sue truppe e imbocca
con 400 granatieri e 5 battaglioni il vallone che porta verso il colle della Rhô:
qui arriva l’indomani mattina, dopo la notte passata nei pressi del Charmaix, e
debella la debole guarnigione francese a presidio del valico. Quindi la discesa
su Bardonecchia, dove i soldati però non si
fermano, ma proseguono fino a Savoulx: in due giorni hanno percorso oltre 60 chilometri,
superando le Alpi e un dislivello di duemila metri! Vittorio Amedeo II, appreso
il buon esito dell’azione dell’avanguardia, decide di compiere anch’egli con il
grosso dell’armata lo stesso percorso: il 1º agosto è a Modane e il giorno
dopo, valicato il colle della Rhô ormai libero, scende a Bardonecchia, senza
incontrare resistenza.
La data del 2
agosto 1708 può così essere assunta come quella in cui Bardonecchia entra di
fatto a far parte del Ducato di Savoia, che diventerà poi Regno di Sardegna e
quindi Regno d’Italia: in questi giorni possiamo quindi a buon diritto celebrare
i 300 anni di Bardonecchia italiana, anche se la sanzione formale della sua
annessione al Piemonte si avrà soltanto 5 anni dopo. A Bardonecchia il duca
decide di accampare le truppe nei prati della conca per qualche giorno, mentre
con i suoi ufficiali studia la situazione in vista di un possibile assedio a Briançon.
E i soldati stranieri, si sa, non sono mai tra gli ospiti più benevoli. Ben se ne avvedono
anche a Millaures, dove il nostro Joseph annota:
«Per tre
giorni i soldati si sono dati al saccheggio, costringendoci a lasciare le case
e a rifugiarci nei boschi o nei prati. Nella borgata Rochas sono rimaste solo tre
persone: la moglie di Simon Medail, vedova e malata, un figlio di Sebastian Allizond,
anche lui infermo, e la moglie di Jean Baptiste Blanc che viveva presso sua
nipote, vedova di Michel Reuil. Sono stati perquisiti più di venti volte,
spogliati e derubati dei loro vestiti. Sono rimasti soltanto quelli che non
potevano scappare, gli altri si sono accampati bivaccando alcuni nelle grange
Allemand, altri alla Testa del Ban di Rochemolles, tranne Blaise Allemand, Jean
Rochas ed io Joseph Guiffre, che siamo andati sotto il Clos con le nostre cose
e il nostro bestiame, e ci siamo rimasti fino al venerdì, quando i tedeschi e
altri soldati di grossi distaccamenti sono penetrati nei villaggi e anche nei
boschi per rubare e saccheggiare: non è rimasta una casa né una porta che non
sia stata aperta o sfondata. Dopo aver prelevato nelle case e nei boschi una
gran quantità di bottino e di bestiame, si sono ritirati nell’accampamento».
Il saccheggio,
va detto, era una pratica comune a tutti gli eserciti di quel tempo, senza
eccezioni: era il mezzo, ai nostri occhi brutale, di sostentamento dei combattenti.
Non venivano risparmiati gli edifici religiosi, come, nel nostro caso, la
cappella di San Claudio a Prerichard: se ne conserva un inventario che elenca i
pochi arredi sacri rimasti dopo il «saccheggio delle armate dei tedeschi» del 1708.
Gli infelici montanari, evidentemente indifferenti alle ragioni dei due
contendenti, cercano di recuperare qualcosa e si rivolgono alla massima
autorità presente a Bardonecchia:
«Qualcuno di
noi è andato a lamentarsi dal duca di Savoia, comandante dell’armata, il quale
ha ordinato di restituire i capi di bestiame che si potevano riconoscere: così
Jean Medail fu Simon è riuscito a riconoscere la sua mula, Blaise Allemand ha
ritrovato due mucche, mio fratello Michel Guiffre ha ricuperato il suo asino.
Tutto il resto è andato perduto: mobili, biancheria e altre cose, anche ingenti
somme di denaro e grandi quantità di cereali, senza contare foraggio, fave,
piselli, cavoli e altre verdure. I saccheggi duravano tutto il giorno senza
tregua, poiché l’ordine era di prelevare paglia, fieno, avena, orzo, segala,
senza alcuno scrupolo e senza temere nessun castigo. Che Iddio ci doni la pace,
attraverso la sua santa grazia».
L’invocazione
della pace come dono di Dio testimonia la religiosità dei valligiani: le
cappelle che punteggiano i pendii della nostra conca, in buona parte già esistenti
all’epoca dei fatti di cui ci occupiamo, ne sono prova evidente.
Seguiamo
ancora per qualche settimana, dopo la sosta a Bardonecchia, le vicende
dell’armata piemontese e imperiale. L’obiettivo principale era ora la conquista
del forte di Exilles, che sbarrando la valle consentiva ai francesi il
controllo del territorio. Era difficile investirla solo frontalmente: occorreva
l’appoggio di un’azione sul fianco, e per questo si era formato su ordine del
duca un distaccamento di soldati al comando del generale Pallavicino che da
Bardonecchia si era portato a Rochemolles, aveva risalito la Valfredda fino al
passo Galambra per scendere alle Grange della Valle e attestarsi a Ramat sopra
Chiomonte sin dal 2 agosto. Dopo un assedio di soli tre giorni, il forte sarà
espugnato il giorno 12: per i piemontesi
si trattava ora di utilizzarlo ai propri fini, riparandolo dai danni del- l’assedio
e ristrutturandolo in funzione antifrancese. Per i lavori serviva mano- dopera
locale, e anche Joseph Guiffre fu precettato: «Nel medesimo anno 1708 ci hanno
mandati a lavorare alla demolizione del forte di
Exilles e alla sua ricostruzione, a scavare trincee a Deveys e a San Colombano,
poi ancora a Exilles a costruire ridotte e batterie per cannoni. I lavori sono
continuati nel 1709. Ricevevamo una razione quotidiana di pane, mentre i tanti
che andavano a lavorare a Susa alla Brunetta venivano pagati da Sua Altezza,
in misura diversa uno dall’altro, ma non ricevevano il pane. Nello stesso 1708,
intorno al giorno di Santa Caterina, ci fu un grande terremoto che provocò la
scomparsa di una sorgente, che era abbastanza ricca, nel luogo detto Fontana
Laurens».
La guerra sarà
ancora lunga, i francesi tenteranno di recuperare i territori del- l’alta Valle
e per qualche anno la popolazione dovrà di volta in volta convivere con gli
opposti eserciti. A Bardonecchia i piemontesi lasciano una guarnigione per
controllare le mosse del nemico, ma considerano ormai acquisita la sovranità sul
territorio, tanto che ottengono un formale giuramento di fedeltà da parte
della
popolazione, firmato il 5 gennaio 1709. Da parte francese si temono anche incursioni
piemontesi oltre le Alpi, e si approntano le difese: ne è testimonianza il muro
in pietre a secco, lungo circa 15 chilometri, fatto erigere nel 1709 dal duca di
Berwick sul crinale che separa le valli della Clarée e della Guisane, a quote intorno
ai 2.500 metri, ancora ben visibile dopo tre secoli.
Nelle
annotazioni di Joseph Guiffre, dopo i drammatici eventi del 1708 c’è una pausa
di due anni, alla quale fanno seguito ancora storie di violenza: «Nell’anno
1711 i francesi sono venuti ad accamparsi a Oulx, e sono passati dal colle
della Rhô: ci hanno fatto ammassare grandi quantità di fieno oltre il ponte di Royeres, di
paglia nei prati di Blanc e di legna a Oulx. Altre requisizioni nel 1712 ci
hanno fatto la grazia di avvicinare il deposito delle tavole di legname. Dopo
averci costretti a rifornirli fino al limite estremo delle nostre possibilità,
se ne sono andati. Nel 1712, dopo che i francesi si erano ritirati, sono venuti
a farci visita i tedeschi, rovistando nelle grange, nei fienili e nelle
stalle».
Ma infine le
armate si allontanano, e il nostro Joseph può finalmente rivol- gere la sua
riconoscenza al Signore: «Lodato sia Dio che con i frutti della terra ci nutre
come figli suoi: il Signore Dio, nella sua
bontà, ci ha fatto il dono di una tregua». Per la pace definitiva occorre
attendere ancora qualche mese, fino al trattato di Utrecht del 12 aprile 1713,
con il quale il re di Francia cede al duca di Savoia il forte di
Exilles, le valli di Pragelato, Cesana, Oulx, Bardonecchia, Fenestrelle e Casteldelfino.
La notizia è così riportata dal Guiffre: «Nell’anno 1713, il 9 aprile domenica
delle Palme, ci è stato annunciato un armistizio per
il giorno 12, sino a nuovo ordine, con l’abolizione di tutti i prece- denti
divieti di commercio con la Francia: ci è stato comunicato che potevano ritirare
un certificato coloro che intendevano recarsi in Francia o fare commerci tra
Piemonte e Francia. Nello stesso anno 1713, il 6 agosto, Sua Altezza Reale ci ha fatto
conoscere la pace conclusa con la Francia e la Spagna, dandoci istru- zioni per
l’accensione di falò in segno di gioia. Il giorno 13 ha emanato l’ordine ai
rappresentanti delle comunità, cioè consoli, consiglieri e altri notabili, di andare
a prestare il giuramento di fedeltà».
Il giuramento,
conservato nell’Archivio di Stato di Torino, si è tramandato idealmente da una
generazione all’altra fino ai giorni nostri, attraversando i profondi mutamenti
negli assetti della società e delle istituzioni, ma conservando un valore
simbolico di adesione alla comune patria italiana. Per questo ci è sem- brato
giusto oggi, quando il tempo delle guerre di conquista è stato archiviato – si spera per
sempre – nel gran libro della storia a beneficio della naturale fratel- lanza
con i vicini francesi nello spirito della nuova Europa, richiamare alla memoria
questi fatti, minori certo ma annoverabili a pieno titolo tra gli episodi fondanti
dell’unità nazionale, di cui tra poco celebreremo i 150 anni.
Alessandro
Bianco