NEL NOVANTESIMO DELLA MORTE E
NEL VENTICINQUESIMO DELLA BEATIFICAZIONE
Il 4
luglio 1925 – novant’anni fa – moriva Pier Giorgio Frassati ad appena 24 anni
nella sua casa di Torino e alla vigilia della laurea in ingegneria, a causa di
una poliomielite fulminante, contratta servendo i poveri nelle soffitte e nelle
stamberghe del capoluogo piemontese. Era il rampollo di una delle famiglie più
prestigiose non solo del Piemonte ma d’Italia, essendo il padre di Pier
Giorgio, Alfredo Frassati, fondatore e direttore del quotidiano “La Stampa”,
senatore del Regno e amico fidato e stimatissimo dal Presidente del Consiglio
Giovanni Giolitti, nonché ambasciatore d’Italia a Berlino. Lamamma Adelaide
Ametis, appartenente all’alta borghesia piemontese, era una pittrice di
riconosciuto talento ed espose i suoi quadri anche alla Esposizione
Internazionale d’arte a Venezia (precisamente la XIII, nel 1922, ed esservi
ammessi non era facile). La cameriera di casa, Ester Pignata, scrisse quel
giorno sul calendario appeso in cucina, con grafia umile: «Ore 7. Irreparabile sventura. Povero
S. Pier Giorgio. Era santo e Dio l’ha voluto con sé». Il giorno stesso della morte la prima a canonizzare
Pier Giorgio fu la persona più umile di casa ma che ben ne conosceva la
profondità d’animo e di vita cristiana e l’eroismo delle opere e virtù, per lo
più ignote ai familiari.
1 Fonte principale di questo articolo è
Luciana Frassati, specialmente in La
Piccozza di Pier Giorgio, SEI
Torino, 1995, pagg. 94-95.
Il 20 maggio 1990 – venticinque anni
fa – il santo Pontefice Giovanni Paolo II dichiarava Beato Pier Giorgio in una
indimenticabile cerimonia in piazza S. Pietro in Vaticano.
A fronte di questi due importanti e
significativi anniversari vogliamo ricordare il giovane Beato torinese, ancora
una volta, anche sul nostro Bollettino, sul file
rouge del suo legame con Bardonecchia.
Siamo lieti di poterlo fare presentando nuove documentazioni e testimonianze della
presenza di Pier Giorgio nella nostra cittadina, scoperte proprio in questi
ultimi tempi, quasi a suggello delle celebrazioni anniversarie.
Il nostro Frassati
Fin dagli inizi degli anni ’80 – su
questa stessa rivista – abbiamo raccontato quello che la sorella Luciana
Frassati ci faceva conoscere con entusiasmo e precisione, dopo aver suonato il
suo campanello a Piazza Solferino a Torino, quando ancora soggiornava a lungo
nella città, trascorrendo altri periodi tra la villa di famiglia a Pollone
(Biella) e Roma presso le figlie o il figlio. Nacque una frequentazione durata
trent’anni, continuata intensamente a Roma, poiché Luciana divenne
ultracentenaria. Era stata lei a ricordare e documentare le numerose gite a
Bardonecchia raggiunta con il treno degli sciatori, sempre con numerosi amici e
con gli “ski” che venivano appoggiati fuori dalla Cappella – era sempre nitido
e vivace questo ricordo – dove si recavano alla prima Messa officiata
appositamente per gli sciatori e comoda per chi la raggiungeva dalla stazione
ferroviaria (probabilmente si trattava della chiesetta dei Villeggianti, inserita
nell’allora albergo Villeggianti di Via Sommeiller). Fu ritrovata poi nel tempo
una bella fotografia di Pier Giorgio a Bardonecchia, concorrente in una gara di
sci il 22 febbraio 1925 (novant’anni fa, appena qualchemese prima dellamorte)
attorniato da alcuni amici. Siamo in grado ora di produrre altre prove
suggestive di quella presenza agonistica del giovane Beato. Si tratta di
interessanti testimonianze e di una cartolina autografa di Pier Giorgio,
indirizzata alla sorella, allora giovane sposa di un diplomatico in Polonia. Cesare
Randone, amico dei Frassati ricorda: «Per
il carnevale del ’25 requisimmo, o quasi,
un albergo di Cesana, ove ci trovammo in 18. Pier Giorgio partecipava a
Bardonecchia ad una gara di sci, come rappresentante della “Giovane Montagna”,
proprio il primo giorno della nostra permanenza lassù.
Andò a Bardonecchia con lo stesso
treno che portò noi a Oulx, nella mattinata fece la gara ed al pomeriggio venne
a raggiungerci. Aveva fatto a piedi gli 11 chilometri daOulx a Cesana; gli
dissero che noi eravamo a Clavières e lui si disponeva a riprendere la strada
come se si fosse alzato allora». Ma
è un altro compagno di sport di Pier Giorgio, Giuseppe Angelo Musso, uno dei
quattro compagni ritratti accanto al Frassati nella fotografia ricordo della
gara a Bardonecchia, a fornirci ulteriori dettagli: «Vi è un’attività di Pier Giorgio
poco ricordata, perché breve e quasi sconosciuta: gare di sci. Fummo parecchie
volte coéquipes ed avversari, e più di ogni altra mi torna alla mente una gara
in cui partecipammo quali difensori onorari della “Giovane Montagna”. Era una “Coppa”
istituita da un giornaletto d’allora, “La Montagna”, e si correva a
Bardonecchia il 22-2-1925. Frassati ci raggiunse a Bardonecchia la domenica
mattina in compagnia di un comune amico, il trainer, che ci recava le maglie
dai colori sociali, avute solo a tarda sera del sabato. En passant ricordo che
le maglie erano quattro e noi in cinque, tutti volevamo la maglia, ma infine
chi vi rinunciò spontaneamente e corse insaccato in una giacca a vento fu Pier
Giorgio.
Fotografia della gara del 22 febbraio 1925. |
Ultimo allenamento, prima della
partenza, fu una corsa in Borgo Vecchio per la S. Messa e di qui il mio ricordo
mi fa trovare direttamente al traguardo, ormai raggiunto, mentre con gli amici
che mi precedevano si seguiva l’arrivo di Pier Giorgio, per nulla elegante
nello stile, ma al solito impetuoso.
In classifica lo precedetti di un
posto e ne fui raggiante. Lui invece non ne avrebbe certo gioito tanto. Più
tardi ci offerse una buona bottiglia per festeggiare il risultato della
squadra. A distanza di tempo, per noi che lo frequentavamo, anche questi
particolari dimostrano il suo animo con sfumature che allora non capivamo».
Di quella esperienza negli archivi
che la famiglia conserva con cura si può ritrovare una bella cartolina di
Bardonecchia, di cui pubblichiamo anche il frontespizio, inviata alla sorella Luciana
sposata con il diplomatico polacco Gawronsky, allora in servizio in Olanda. Per
maggiore comodità nella comprensione della scrittura trascriviamo anche il
testo autografo di Pier Giorgio, preziosa reliquia:
«Bardonecchia 22-2-25 reduce ora da
una gara di 15 km. In sky che fu permemolto faticosa perché non allenato per
nulla
quest’anno e poi avevo così
parafinati che era un disastro. Alle 14 parto per Oulx per raggiungere gli altri
a Cesana dove mi fermerò fino a mercoledì. Ho dato un altro esame per forza
perché sia l’hanno fatto dire ed ho avuto 60/100 ora ho solo più tre esami.
Saluti a Giovanni e a te mille baci da P. Giorgio”.
E sempre nel ricordo delle gare a
Bardonecchia il 15-3-1925 Pier Giorgio scriveva: «Anch’io finalmente posso dire “Viva
la coerenza!”. L’altra domenica ho messo in pratica il suo motto “Percussus elevar contusus gaudeo” perché mi sono ammaccato il ginocchio
sinistro. rimpiangendo amaramente la sua assenza! Saluti cordiali. Pier Giorgio
Frassati».
Già scrivemmo di una testimonianza
importante di una sua presenza a Bardonecchia diversa dalle altre, non per
sport o montagna, ma per portare l’ultimo saluto all’amico di fede e di
politica che andava in esilio dalla patria italiana.
Per nulla preoccupato di
compromettersi, Pier Giorgio si era precipitato a Bardonecchia, rischiando
l’arresto, con lo sguardo sereno a portare all’amico la speranza. Si trattava
di Giuseppe Donati, direttore del “Popolo”, figura eminente del Partito
Popolare, giornalista integerrimo e valoroso che dal governo fascista fu
mandato in esilio a Parigi. In una sua nota lettera all’amica Piera Oliva, del
febbraio 1929, aveva raccontato la viva impressione che gli aveva fatto Pier
Giorgio con questo gesto spontaneo e dirompente, ricordando che con Pier
Giorgio erano «legati da un’amicizia non antica ma tenerissima. Egli volle mostrarmela
ancora nei giorni pieni di peripezie in cui fui fermato al confine, perché
venne a salutarmi lassù; ed in effetti in Pier Giorgio vidi l’ultimo amico
della Patria che lasciavo». Sappiamo che il Donati partì per l’esilio il 13 aprile
1925. Curiosamente lo stesso anno della gara di sci, quindi Pier Giorgio
sicuramente fu almeno due volte a Bardonecchia, a distanza di pochi mesi e poco
prima di morire.
Il celebre pittore Giuliano Emprin
Gilardini, maestro di fama internazionale, molto conosciuto a Bardonecchia che
ha frequentato assiduamente e con passione quando era in vita come villeggiante
nella bella villa il Viale Cappuccio, in una sua testimonianza affermava:
«Il fatto di andare in gita in montagna
era considerato in quel tempo ben diversamente da adesso.
(...) I bar erano inesistenti e tutto
il confort consisteva in qualche alberguccio sperduto e piccolissimo.
La cartolina autografa del Beato. Il
frontespizio della cartolina del Frassati (1925).
(...) Amavamo tutti la montagna e
solo la montagna, i campi da conquistare, le difficoltà da superare.
Non cercavamo fuochi, ma ci bastavano
i nostri infiniti maglioni e il ghiaccio nelle catinelle salutava i nostri
mattini e i nostri volti quando incominciavamo a lavarci. D’altra parte questo
era tutto per noi. E allora chi non l’immagina, di coloro che non l’hanno
conosciuto, Pier Giorgio tra noi?» 2.
Lo stesso Giuliano Emprin Gilardini
ricordava di aver incontrato molte volte Pier Giorgio in montagna insieme a sua
sorella e non dimenticava mai una serata di tremenda allegria dimostrata da
Pier Giorgio, uno «scatenarsi impressionante e senza
soste di scherzi e di prese in giro, una girandola senza fine che tempestò di
melodie, di fisarmonica e trilli di campanelli l’ora di prender sonno per tutta
la comitiva e finì col provocare violente reazioni della sorella Luciana che lo
coprì di rimproveri» 3.
Di altre presenze nella nostra
cittadina certifica la sorella Luciana, senza scendere in dettagli notando che:
«Non stupisce la presenza di Pier Giorgio a Bardonecchia a sciare mentre il babbo
fa visita a Giolitti» 4.
Impariamo dall’uomo e dal santo
Quella di Pier Giorgio è una
personalità travolgente, una valanga di simpatia, un compagno che tutti
vorrebbero avere per amico. Alcuni lo avevano ribattezzato “Fracassati” perché quando
arrivava lui portava con sé il vento della vita, quasi sempre accompagnato da
sonore e interminabili risate. In montagna, di cui era appassionato, quando in
compagnia passavano la notte al rifugio, o per esempio all’albergo del Piccolo
San Bernardo dove si celebrava la Messa all’alba, lui si alzava prestissimo e
scendeva la scala con tanto rumore da far pensare che la casa
stesse crollando, e sugli usci che
incontrava scaricava sonori colpi di pugno, gridando: «Sveglia, alpino!». Non
di rado in risposta gli giungevano invettive e proteste, che lo facevano ridere
di cuore. E replicava: «Non mi avevate detto ieri sera che vi svegliassi per
andare a Messa?».
Bastava incontrarlo per trovare
l’allegria. Eppure lui era un uomo di preghiera cui era fedelissimo. Non andava
mai a dormire senza aver per lo meno recitato il Rosario, inginocchiato per
terra, se era in camera ai piedi del letto e, talvolta, vinto dalla stanchezza,
era capace di addormentarsi così in quella posizione, ripiegandosi appena sul
materasso. Suo padre Alfredo Frassati, trovava il figlio in quella condizione,
rincasando tardi dal lavoro, la sera, entrando nella camera di Giorgetto perché
la luce era ancora accesa. Confidò in seguito, molti anni dopo la sua morte,
ormai anziano, che nella sua vita aveva incontrato tante personalità, re e
governanti, statisti e ambasciatori, intellettuali, accademici, politici e
industriali, gente di potere senza mai provare soggezione di questi grandi
della terra. Aggiungendo: «Uno
solomi hamesso in soggezione, è stato mio figlio Pier Giorgio». Per dirne la statura.
Il Rosario lo pregava anche sul tram
o camminando. Monsignor Roccati depone: «Un
giorno, dopo la Comunione che faceva quotidianamente, poiché per ringraziamento
diceva il rosario, avendo premura uscì dalla chiesa con la corona ancora in
mano. Mentre discendeva i gradini dell’atrio, un compagno vedendolo gli disse:
“Pier Giorgio sei diventato un bigotto?”. (Così
allora si sbugiardavano i credenti, sia dal versante massonico-liberale, che da
quello fascista, che da quello social-comunista)
5.
“No – rispose il giovane Frassati, restituendo il colpo con bontà, ma con
altrettanta fermezza –, sono rimasto cristiano!”»
6. Uomo
di preghiera, dicevamo, che partecipava alle adorazioni eucaristiche notturne
nella chiesa dei Padri Sacramentini a S.Maria di Piazza. Incantevole l’immagine
che ne esce di questo giovane che ovunque arrivasse portava il fragore delle
sue battute e del suo vocione, con il terremoto delle sue manate o pacche che
lasciavano il segno per la sua robustezza fisica... vederlo totalmente altro,
immobile, rapito davanti all’Ostensorio con il SS.mo Sacramento.
2 Luciana
Frassati, La Piccozza di Pier Giorgio, SEI Torino, 1995, pag. 2.
3 Ibidem ut
supra, p. 96.
4 Ibidem ut
supra, p. 45.
5 A.
Sicari, Nuovi ritratti di santi, Jaca Book Milano, settima rist. 1999, pag. 180.
6 Luciana
Frassati, Il cammino di Pier Giorgio, Rizzoli 1990, Milano, pag. 106-107.
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Così era capace di restare ore in
ginocchio, anche ben dopo il suo turno. Tanto che il sacrestano testimonia che
dovette avvicinarsi al giovane Frassati e, toccandolo, scrollarlo perché la
cera della candela gli colava sulla spalla. L’ingegner Plinio Lanzavecchia che
ha frequentato il Politecnico con il Frassati ricorda che nel 1921, verso sera
entrò nella sua parrocchia del Sacro Cuore di Maria e vide, in una chiesa quasi
vuota, il compagno di scuola che sapeva essere il Frassati de “La Stampa”
liberale, che inginocchiato pregava e piangeva: «Non era però quello il pianto
di un essere addolorato: mi fece piuttosto l’impressione che fosse la
manifestazione di un’estasi, tanto il suo volto era scoperto, il suo sguardo
fisso verso l’altare mentre le grosse lacrime gli solcavano il volto. Mi
guardai bene dal disturbarlo e dal farmi notare, ma non lo dimenticai più»7.
Un altro prezioso particolare si
aggiunge a comporre il mosaico bardonecchiese del Frassati. Il Vescovo
Ausiliare di Torino, Parroco di S. Secondo (di cui è in corso la causa di
Beatificazione), S.Ecc.zaMons. G.B. Pinardi testimonia: «Era la sera precedente
l’ultima domenica di Carnevale del 1925. Incomincia a San Secondo la veglia
notturna di adorazione. Vedo Pier Giorgio entrare in sacrestia più del solito
attrezzato per la montagna. Subito mi dice: “Monsignore, vado per tre giorni in
montagna, il mio carnevale lo passerò tra le nevi”. “Bene – rispondo – ma
quando parte?”. “Dopo la Messa di mezzanotte e la comunione, col primo treno del
mattino. La notte la trascorrerò qui e dopo la veglia in preghiera mi sentirò
più forte, più sicuro e anche più lieto»8. Grazie alla testimonianza di Mons. Pinardi sappiamo con
quali disposizioni d’animo Pier Giorgio raggiunse Bardonecchia per la gara di
sci della domenica mattina di quel carnevale 1925: dopo tutta una notte di
veglia trascorsa in adorazione eucaristica, quindi con l’animo pieno di Dio.
Pier Giorgio ha ereditato la grande
tradizione dei Santi piemontesi, indicando però il nuovo: la necessità che la
fede si confrontasse con tutto l’arco dell’esperienza umana e operasse in ogni
ambito, negli ambienti dell’Università, del lavoro, della stampa (è
straordinario notare che Pier Giorgio raccoglieva abbonamenti non per il
quotidiano di suo padre, ma per quello cattolico), dell’impegno politico e
partitico, e dovunque era necessario difendere le libertà sociali, cercando
sempre di concepire e fomentare l’associazionismo, l’amicizia cristiana. Dunque
non ridurre la fede a un fatto privato, intimo, quasi nascosto come una certa
ideologia postsessantottina
vuole, facendo veri disastri. Bensì
immettere la Fede nella vita, e non solo in alcuni campi ristretti, ma in ogni
ambito in senso lato, dall’economia allo sport, senza accettare limitazioni e
spazi precostituiti. Mi sembra il messaggio più attuale ed urgente da prendere dalle
mani del Frassati: in questo tempo così scristianizzato, solo uomini del suo
stampo, così “persuasi”, laici, cristiani, santi potranno darci solida
speranza.
Durante la Beatificazione del
Frassati, in Piazza S. Pietro, Giovanni Paolo II disse: «Pier Giorgio Frassati
testimonia che la santità sta a portata di ciascuno e che solo la rivoluzione
impressa dalla carità può accendere nel cuore degli uomini la speranza di un
futuro migliore».
Ora ce lo possiamo ben immaginare
Pier Giorgio “bardonecchiese” d’adozione mentre, prima della gara di sci, corre
trascinando i suoi amici in Borgo Vecchio, presso la chiesa parrocchiale per
partecipare alla S. Messa e “rivederlo” pregare nella nostra chiesa con quella
intensità straordinaria che colpiva molto; lo possiamo guardare davvero come
“uno di noi”, mescolato alla folla dei parrocchiani e villeggianti, per unirci
alla cordata con lui, amico del cielo che ci sostiene nell’ascesa a varcare
quella Porta Stretta e nostra unica speranza che è Cristo Gesù. In attesa del
giorno felice in cui lo invocheremo come Santo e, perché no, magari lo
eleggeremo terzo compatrono di Bardonecchia.
Mons. Claudio Iovine
7 Cfr.
ut supra, nota 6, pag. 204.
8 Cfr.
ut supra, nota 6, pag. 205.
Quando “La valigia delle Indie” passava da Bardonecchia
Dalla
metà dell’800molte sono state le “valigie” che dal Nord-Europa sono andate in
India, inizialmente per affari, per imprese commerciali, ma spesso sono state
al seguito di viaggiatori attratti dal fascino dell’esotico e dell’Oriente. Le
“valigie” sono spesso tornate con importanti contratti commerciali ma anche
taccuini fittamente annotati con le emozioni nate dall’incontro con quelle
terre e con le persone che quei luoghi abitavano. Dal 1850 l’orientalismo (ovvero l’amore per ciò che proveniva dall’Egitto,
dall’India, o dall’Oriente in genere) intrecciandosi con il romanticismo, travolse
lamoda, l’arte, la letteratura e il gusto dell’Europa.
Un po’ sulla falsa riga del “grand tour” di inizio ’700, vero viaggio iniziatico dei giovani
benestanti inglesi, molti intellettuali e viaggiatori europei partirono, da
allora ad oggi, alla volta dell’Egitto e dell’India, dal tedesco Hölderlin al
nostro Guido Gozzano, da Herman Hesse a Moravia, dai Beatles a Philip Glass,
tutti si mossero alla volta dell’India alla ricerca di una realtà completamente
diversa che, a torto o a ragione, potesse essere uno specchio per permettere loro
di capire il mondo occidentale da cui provenivano. Se nella seconda parte del
’900 raggiungere l’India poteva essere relativamente facile con i voli aerei,
nell’800 era una vera e propria impresa, che richiedeva lunghi e pericolosi
spostamenti navali circumnavigando l’Africa con un viaggio di circa 80-100
giorni.
Nel 1834 fu
organizzato un itinerario misto mare-terra che su percorsi in parte ferroviari,
in parte navali ed in parte carovanieri, ridusse di circa la metà i tempi del
viaggio. Su questo nuovo percorso misto le merci inglesi (e le corrispondenze)
erano fatte viaggiare attraverso l’Europa in treno fino a Vienna e poi
attraverso il valico alpino ferroviario di Postumia fino a Trieste. A Trieste
erano caricate sulle navi (inglesi) e sbarcate ad Alessandria d’Egitto; prima della
costruzione del canale solo le merci più preziose e la posta erano trasportate
via terra da Porto Said al Mar Rosso, per poi essere di nuovo caricate sulle
navi per l’India. In particolare le merci inglesi partivano da Ostenda in
Olanda e con la ferrovia raggiungevano Trieste attraverso la Germania e
l’Austria. Col tempo prese piede anche un percorso alternativo che attraversava
in ferrovia la Francia, da Calais arrivava direttamente al porto di Marsiglia
dove il carico era trasferito sulle navi per Porto Said. Il viaggio in treno da
Calais a Marsiglia faceva risparmiare molte ore rispetto alla iniziale
direttrice Ostenda-Trieste.
A partire dal 1858, con lo
scioglimento della Compagnia delle Indie, l’India divenne colonia della corona,
sotto il comando di un viceré e quindi si avviarono i lavori per la modernizzazione
delle vie permettere in comunicazione laGran Bretagna con la più importante
delle sue colonie.
La realizzazione della rete
ferroviaria francese però portò alla creazione di un treno postale da Londra a
Dover, coincidente sul continente con un suo omologo per il percorso Calais-Marsiglia,
da dove per via marittima la corrispondenza giungeva a Porto Said;
da qui, in un primo tempo a dorso di cammello e poi in treno, raggiungeva Suez e
infine con altra nave Bombay.
1 Azioni
simili erano state messe in atto con grave danno per lo Stato nel Gran Ducato
di Toscana. Cfr. L. Ballatore, Storia delle ferrovie in
Piemonte, Savigliano, 2002, p. 19.
Nel frattempo anche il Regno
Sabaudo, che comprendeva Piemonte, Sardegna, Nizza, Savoia e Liguria, passate
le diffidenze iniziali e soprattutto la paura dei tentativi di aggiotaggio sui
titoli in borsa e sulla gestione1, veniva contagiato, dalla cosiddetta “railway-mania”, individuando nel trasporto ferroviario uno dei
principali fattori di progresso civile ed economico del Paese. Nel 1851 vennero
avviati importanti studi per la realizzazione della “Torino-Bussoleno-Susa” con lo scopo di estenderla al di là del Moncenisio
verso la Savoia e la Valle del Rodano.
La ferrovia, realizzata della
società inglese Brassey-Henfrey e Jackson, verrà inaugurata con grande solennità alla presenza del re e
della reale famiglia il 25 maggio del 1854. I treni della nuova ferrovia
trovavano facilmente i collegamenti con le diligenze postali che collegavano, attraverso
il percorso napoleonico, Susa con Lanslebourg, impiegando nei periodi di bella
stagione poco più di 6 ore. Dopo qualche tempo, per l’aumentato traffico, anche
la strada delle corriere fu insufficiente (nella stagione invernale erano
utilizzate le slitte), perciò si decise di affiancare alla strada napoleonica
anche un trenino a scartamento ridotto tipo “Fell”, che potesse fare percorsi
con pendenze elevate. Questo servizio provvisorio collegò Susa a Modane attraverso
il colle delMoncenisio e Lanslebourg; la tratta fu terminata nel 1868 ma
funzionò anche quando era ancora incompleta su percorsi parziali, favorendo i
tempi di percorrenza della parte montana. Parallelamente, ad Italia unita, con
l’opera della Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali, si giungeva a
servire gran parte della costa pugliese: il 26 febbraio
1865 veniva aperta al traffico la
tratta Trani-Bari, seguita il 29 aprile dalla Bari-Brindisi.
L’importanza di quest’ultima
località, dotata di un porto votato ai traffici verso il Mediterraneo
orientale, non sfuggì al governo britannico, sempre teso a migliorare le
comunicazioni fra Regno Unito e India. L’arrivo del treno a Brindisi,
unitamente all’attivazione della ferrovia a scartamento ridotto del Moncenisio
, spinse i responsabili delle poste inglesi a sperimentare il nuovo itinerario
che portava a Brindisi, itinerario che si dimostrò subito competitivo e
alternativo al viaggio in nave Marsiglia-Bombay,
che dal 1869 con l’apertura del Canale di Suez,
poteva essere effettuato senza soluzione di continuità.
Con l’intensificarsi del traffico il
percorso attraverso il Moncenisio, pur risultando competitivo in termini di
tempi di percorrenza, risultava sempre più insufficiente e quindi occorreva cercare
altre strade e il traforo del Frejus fu la risposta giusta. Con una solenne cerimonia
e pranzo di gala presso l’Hotel Tabor di Bardonecchia, il 17 settembre 1871
veniva inaugurato il traforo del Frejus da Bardonecchia a Modane e in questo modo
si realizzava un percorso da Calais a Brindisi senza rotture di carico.
L’Italia con il traforo del Frejus e il completamento della ferrovia Susa-Torino-Brindisi
era diventata il ponte privilegiato per l’Oriente che imbarcava a Brindisi la
posta, lemerci ed i passeggeri provenienti da tutta Europa e il 5 gennaio 1872
il primo convoglio de “La Valigia delle Indie” transitava attraverso il
neo-traforo del Frejus. Il treno internazionale, denominato “Valigia delle Indie”,
nasceva alla stazione londinese di Victoria Station come “IndiaMail” e
raggiungeva Brindisi in 42 h e 30’. Il treno diretto era in partenza ogni venerdì alle ore
20,45 da Londra via Calais-Dijon-Macon-Modane con arrivo a Bardonecchia il sabato
pomeriggio e da lì una locomotiva FS 552 faceva proseguire il convoglio per
Bussoleno- Torino-Alessandria-Piacenza-Bologna-Brindisi, da dove alle ore 14,00
di ogni domenica partiva il piroscafo postale inglese diretto a Porto Said, che
attraverso il Canale di Suez giungeva nell’Oceano Indiano, quindi a Bombay
impiegando in totale circa 17 giorni. Il percorso inverso della “Valigia” era
gioco forza meno preciso negli orari specie nel periodo dei monsoni; infatti il
treno speciale attendeva a Brindisi la
coincidenza con la nave proveniente dall’India.
La “Malle
des Indes”, ora anche “Valigia delle Indie” nel
percorso italiano, cominciava così la sua nuova avventura e la celerità del
collegamento portò questo treno, dal 1879, a svolgere anche servizio
passeggeri. Nel 1890, a cura della “Compagnia Internazionale dei Vagoni Letto”
e limitatamente alla corsa discendente a Brindisi, il treno fu sdoppiato fra la
“Valigia delle Indie”, che tornava ad essere un treno solo postale, e il
convoglio di lusso “Peninsular Express” per esclusivo servizio viaggiatori. A questo treno furono
destinate le locomotive più moderne e veloci e la sua composizione comprendeva
due o tre carrozze letti ed una vettura ristorante con carrozzerie in pregiato
legno di tek, il tutto inquadrato fra due bagagliai. Da notare che questo fu il
primo treno italiano ad offrire il servizio di carrozza ristorante.
Pochissime le fermate per servizio
passeggeri, intervallate da qualche fermata per motivi tecnici di accudienza o
sostituzione delle locomotive, e quindi insuperabili per l’epoca le velocità
commerciali, prossime a 60 km/h. Il transito per l’Italia riduceva il viaggio Londra-Bombay
a 22 giorni, contro i 25 della via di Marsiglia: un bel miglioramento rispetto
agli oltre 100 giorni dei primi collegamenti navali con il periplo dell’Africa!
Con il passare degli anni e il miglioramento
delle locomotive e soprattutto delle linee percorse, la velocità fu ripetutamente
aumentata, anche per difendersi da un ritorno della concorrenza francese,
confermando il successo del collegamento e la sua funzionalità arrivando fino
ad impiegare “soli 17 giorni”. Il servizio terminò nel 1914, quando lo scoppio della
Grande Guerra decretò bruscamente la fine della mitica “Valigia delle Indie”.
Il legame ideale fra il traforo del
Frejus e il canale di Suez , cuore della “Valigia delle Indie” verrà celebrato
in un grande padiglione detto del “Bogorama”, dal titolo “Baroneccio-Suez” realizzato
per il carnevale del 1870, su progetto di Casimiro Teja al ritorno da un
viaggio in Egitto, dai pittori Francesco ed Enrico Gamba, Cerutti, Perotti,
Barucco, Pastoris e Tommaso Juglaris. L’opera consisteva in uno spettacolare
padiglione eretto in piazza Castello a Torino, con una sfinge alta 10 m ed
entrando nella bocca di questa si percorreva una sorta di tunnel lungo 120mper
3mdi altezza, con le pareti dipinte senza soluzione di continuità con visioni dalle
Alpi di Bardonecchia sino al Cairo e alle rovine del tempio di Tebe. Il
“Bogorama” rappresentò una delle prime forme di pubblicità per Bardonecchia, mostrando
non solo l’imbocco del tunnel e le grandiose costruzioni fatte per i
compressori ad aria ma anche vedute alpine, scorci di inaccessibili dirupi e
vette che tanto avrebbero giovato nel futuro di Bardonecchia come località
turistica. Analogamente anche imolti viaggiatori che attraversavano il tunnel ma
soprattutto quelli delle élites
internazionali che percorrevano la
tratta della “Valigia delle Indie” «potevano cogliere la potenzialità della
nascente stazione turistica di Bardonecchia in grado di declinare
raggiungibilità, montagna e mondanità»2.
Certo è bello vedere come il
passaggio per l’India che tanto fascino ha avuto ed ha sul mondo occidentale
sia passato attraverso le montagne di Bardonecchia, che sono poi diventate esse
stesse meta di turismo e di “educazione sentimentale” per l’uomo alla ricerca
di sé attraverso la montagna, e citando Reinhold Messner potremmo dire: «Non le
cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede
all’uomo quando si avvicina alla montagna»3.
In ultimo, dopo tanto parlare di
viaggi, percorsi e viaggiatori, penso sia bene ricordare Sant’Agostino, uno dei
padri della Chiesa, che in un passo delle “Confessioni” dice: «E gli uomini vanno
a mirare le altezze de’monti e i grossi flutti del mare e le larghe correnti
de’ fiumi e la distesa dell’oceano e i giri delle stelle; e abbandonano se
stessi»4.
roberto Borgis
2 R.
Borgis, Luigi Des Ambrois de Névache.
Storia ritrovata di un protagonista del Risorgimento, Borgone, 2008, pp. 29-32.
3 Cit.
in J. Evola, Meditazioni delle vette, ed. orig. 1974, Roma, 2003, p. 1.
4 Agostino,
Confessioni, X, 8,15, righe 158-161.
Il Pellegrinaggio (1ª parte)
La figura del pellegrino
«Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;
indi trahendo poi l’antiquo `anco
per l’extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, et dal camino stanco;
et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassú nel ciel vedere spera: …»1.
Questi
versi del Petrarca, descrivono mirabilmente un uomo del Medio Evo, che, benché sia
avanti negli anni, lascia la famiglia e i luoghi in cui è vissuto e affronta i
disagi di un lungo cammino, per andare in pellegrinaggio a Roma; qui conta di
vedere il drappo della Veronica, in cui è impressa l’immagine del volto di
Cristo, anticipazione di quanto spera di vedere in Paradiso. Il suo è un
pellegrinaggio di fede, ma altre potevano essere le motivazioni che spingevano
gli uomini di quel tempo a mettersi in cammino per una delle “Peregrinationes Maiores” 2: partivano per assolvere un voto,
per chiedere una grazia, per implorare una guarigione, per guadagnarsi
un’indulgenza, per un’espiazione decisa individualmente, oppure comminata da
un’autorità religiosa o civile3, ma anche per il desiderio di conoscere altri luoghi e
di fare nuove esperienze4.
Il viaggio comportava disagi e
pericoli; il ritorno non era certo, per cui, spesso, prima di partire, i
pellegrini facevano testamento e affidavano i loro beni ad un’autorità
religiosa o civile, che assumeva il compito di amministrarli; al ritorno, li
riavevano, ma se morivano durante il cammino ne diveniva proprietario chi li
aveva avuti in consegna; alcuni, per avere il denaro necessario per sopperire
ai bisogni del viaggio, vendevano o ipotecavano un loro bene5. Dal secolo XI, erano molti coloro
che pellegrinavano, per questo la Chiesa istituì un Ordo peregrinorum con regole stabilite, perché il diventare pellegrini non
era concesso a chiunque: la partenza era preceduta da una cerimonia, officiata
dal Vescovo, nel corso della quale i pellegrini, dopo aver recitato le
preghiere e i salmi6,
ricevevano la benedizione e veniva loro consegnato un documento, una lettera
“patente”, che attestava il loro status di pellegrini. Indossavano un’uniforme,
costituita da una tunica corta con cappuccio, stretta in vita e che aveva una
croce disegnata sul petto; sulle spalle un mantello di lana ruvida e pesante,
che doveva servire come coperta per la notte; avevano calzature con suole
robuste, adatte alle lunghe marce su percorsi spesso accidentati e fangosi.
Impugnavano un bastone nodoso con puntale di ferro, che serviva per sostenersi
e per difendersi dagli animali selvatici e dai cani randagi; era chiamata la
“terza gamba”, metafora della Fede, che doveva sorreggere il pellegrino nell’affrontare i
disagi del viaggio, nella sua volontà e nella sua Speranza di adempiere il voto che si era proposto.
1 F.
Petrarca: Rerum Vulgarium Fragmenta; Canzoniere XV vv. 1-11.
2 Erano
chiamate “Peregrinationes maiores”, il pellegrinaggio a Gerusalemme, quello a Roma e quello a
Santiago di Compostella.
3 I
pellegrinaggi obbligatori erano imposti da confessori o da giudici;
l’Inquisizione, nella sua opera di perseguire sistematicamente l’eresia, li introdusse nella legislazione
civile europea.
4 Dante:
Inferno, Canto XXV, v. 120 «ma per seguir virtute e conoscenza».
5 Negli
Archivi medievali si trovano molti esempi di testamenti, di vendite e di
ipoteche stipulate da persone che si accingevano a partire per un pellegrinaggio.
6 E.R. Labande, Recherches
sur les pélerins dans l’Europe des XIème et XIIème siècles, in “Cahiers
de civilisation médiévale”, I, 1958, p. 162, nota n. 29, riporta
una formula del rituale liturgico della vestizione, che recita: «In nomine
domini nostri Jesu Christi, accipe hanc
sportam, habitum peregrinationis tuae, ut, bene castigatus et bene salvus atque
emendatus, perveniri merearis ad limina Sancti
Sepulcri aut Sancti Jacobi ... vel aliorum sanctorum quo porgere cupis et,
peracto itinere tuo, ad nos incolumis revertere
merearis».
Legata in vita o a tracolla, avevano
la pera, una borsa di pelle, che conteneva effetti personali, libri e il cibo;
era il simbolo della Carità: doveva essere tenuta sempre aperta, pronta sia per
ricevere le offerte che per elargirle. Per dissetarsi, portavano una `aschetta,
che nel modo più semplice era una zucca svuotata, ma poteva anche essere in
pelle, in legno o in metallo. Sul `nire del Duecento, molti iniziarono a
portare sul capo il petaso, un cappello legato sotto il mento: era a falde larghe,
di cui una rialzata sul davanti. L’uniforme e la lettera di credenziali
facevano distinguere i pellegrini dai viandanti e conferivano loro alcuni privilegi,
quali l’esenzione dal pagamento di pedaggi e l’accoglienza gratuita negli hospitales.
C’era chi pellegrinava dietro
compenso: infatti chi ne era impedito per motivi di salute, o non poteva
lasciare i suoi affari per un lungo tempo, delegava un altro, cui corrispondeva
un somma di denaro, secondo un tariffario prestabilito.
I pellegrini 7 tendevano a riunirsi in gruppi, per
darsi vicendevole aiuto, necessario durante il percorso che spesso si svolgeva
in luoghi impervi e sperduti; qui potevano incontrare delle bande di briganti,
talvolta dovevano difendersi dagli abitanti dei luoghi attraversati, che giungevano
persino ad ucciderli per impadronirsi dei loro mantelli e delle loro calzature.
Le autorità ecclesiastiche esortavano ad una scelta oculata dei compagni di
viaggio, che potevano rivelarsi dei falsi “bordoni”, perché c’era il rischio
che nel gruppo si mescolassero malintenzionati, trafficanti e donne di
malaffare. I vantaggi spirituali di un pellegrinaggio fatto con devozione
potevano così essere annullati dalle tentazioni e dai pericoli che
s’incontravano lungo la strada.
Fig. 1 - Duomo di Fidenza: Pellegrini. Opera propria, con licenza Pubblico dominio, Commons tramite Wikimedia. |
Fig. 3 sx - Duomo di Fidenza - Sculture tra il portale centrale e quello di destra: la famiglia di pellegrini poveri.
Fig. 2 dx - Duomo di Fidenza - Sculture tra il portale di sinistra e quello centrale: la famiglia di pellegrini ricchi
Nel bassorilievo posto sulla
facciata destra della torre di destra del Duomo di Fidenza8, che riproduce dei pellegrini 9 in cammino (\g. 1) sulla
Via Francigena10,
si distinguono persone di età e di ceto sociale diverso; numerosi procedono a
piedi: questo era il modo di viaggiare più frequente ed era anche quello
raccomandato, in quanto per lunga tradizione della Chiesa, si riteneva che
l’andare a piedi fosse il modo di viaggiare più virtuoso; si nota che altri
sono a cavallo, in questo caso la cavalcatura più usata era il mulo, chiamato
”bordone”, il cui nome passò poi ironicamente ad indicare il bastone al quale
ci si appoggiava. Nel bassorilievo, si nota che, su di una cavalcatura, vi è
una scimmia, simbolo della lussuria, da cui ci si deve guardare durante il
cammino.
7 La
figura del Pellegrino è un topos
nella letteratura novellistica europea.
8 Il
Duomo di Fidenza (Parma) era un luogo di passaggio e di ospitalità per i
pellegrini, che, percorrendo la Via
Francigena, ne costeggiavano la facciata destra. Le
statue ed i bassorilievi sono opera dell’architetto e scultore Benedetto
Antelami (1150-1230) che, con i suoi allievi, vi
lavorò tra il 1178 e il 1198.
9 Secondo
un’altra interpretazione, dato che sulla stessa torre sono raffigurati episodi
riguardanti Carlo Magno, si tratterebbe del corteo dell’imperatore che
ritornava in Francia; in ogni caso, il bassorilievo vale come testimonianza del
modo
di procedere e dell’abbigliamento di
uomini del sec XII.
10 Per
quanto riguarda la Via Francigena, vedi avanti.
Il pellegrinaggio era quasi sempre
individuale, raramente succedeva che più componenti di una famiglia partissero
insieme, tuttavia, nella “Letteratura Odeporica” ve ne sono esempi11.
Nei bassorilievi che `ancheggiano il
portale centrale del Duomo di Fidenza è rappresentata, a sinistra, una famiglia
di pellegrini ricchi (\g. 2), a destra, una di poveri (\g. 3),
ben differenziati dal modo di vestire.
Nel Medio Evo la concezione del
tempo era assai diversa da quella attuale: vi erano persone che passavano vari
anni in pellegrinaggio, sia per devozione personale che per uscire dai confini limitati
in cui la maggioranza della popolazione viveva. A volte, mentre compivano una “Peregrinatio Maior”, dei pellegrini decidevano di andare ad una meta “Minor”: effettuavano perciò una deviazione che comportava
alcuni giorni di viaggio; per esempio, durante il cammino dalle Alpi a Roma, mentre
percorrevano la Via Francigena, deviavano e passavano da Assisi o da Loreto,
facendo un pellegrinaggio dentro un pellegrinaggio; questo fatto non era
ritenuto eccezionale: a fronte di un viaggio che poteva durare anche un anno,
una settimana in più non eramolto. I pellegrini che giungevano alla meta del
loro viaggio ornavano il mantello o il cappello con oggetti che simboleggiavano
il compimento del voto: se erano stati in Terra Santa, portavano un ramo di
palma o delle ampolle con l’acqua del Giordano; se a Roma, avevano piccoli
rilievi di piombo con impresse le immagini di S. Pietro o S. Paolo; se a
Santiago di Compostella, la conchiglia galiziana.
Chi tornava da un pellegrinaggio da
una delle “Peregrinationes Maiores” era considerato come arricchito di una grazia speciale:
se era stato in Palestina, per aver sostato nei luoghi dove si era svolta
l’opera di redenzione di Cristo, se a Roma per averne visto l’immagine impressa
sul drappo della Veronica. Inoltre, data l’esperienza acquisita nel viaggio,
durante il quale si era trovato di fronte a situazioni difficili, aveva
attraversato regioni lontane e incontrato popolazioni di costumi diversi,
godeva di una notevole considerazione da parte dei concittadini e delle
autorità, che spesso gli affidavano dei compiti importanti.
11 Letteratura
Odeporica (da odós viaggio) è la letteratura che nasce dall’esperienza diretta
del viaggio; comprende Itinerari di pellegrinaggio, diari e memorie di viaggio, documenti di
archivio, novelle, canzoni e ballate che si riferiscono al cammino; quella che riguarda il
pellegrinaggio, è stata oggetto, in questi ultimi decenni, di numerose ricerche
e di studi approfonditi.
Il pellegrinaggio influnzò le opere artistiche maggiori, quali l’architettura, la scultura e la pittura, quelle minori, come l’oreficeria, la ceramica, la vetreria 12, ma anche l’onomastica e la toponomastica.
Il pellegrinaggio influnzò le opere artistiche maggiori, quali l’architettura, la scultura e la pittura, quelle minori, come l’oreficeria, la ceramica, la vetreria 12, ma anche l’onomastica e la toponomastica.
Le Vie di Pellegrinaggio: “santa è
la meta e santo è il viaggio”
Le vie di pellegrinaggio sono
percorsi che portano ad una meta religiosa, che dà il senso e il nome al
cammino: le vie Romee, sono quelle che conducono a Roma, le Gerosolimitane a Gerusalemme
e così via. Non se ne deve considerare unicamente il tracciato, ma bisogna
invece esaminare anche la zona circostante, l’area
di strada, che comprende tutto ciò che si
riconduce al pellegrinaggio e che ne è condizionata. Sono caratterizzate dalla
presenza di strutture che pre`gurano la devozione propria del luogo di arrivo,
da luoghi di accoglienza, da toponimi e da racconti di miracoli avvenuti
durante il percorso. Vediamo che il cammino per Roma, chiamato anche Iter sancti Petri, è sottolineato dalla presenza di chiese, piloni,
affreschi e hospitali13 dedicati
all’Apostolo, quasi dei cartelli stradali ante litteram; analogamente quello dell’Arcangelo
Michele, da Mont Saint Michel in Francia al Gargano in Puglia, è punteggiato da
chiese ed edicole che testimoniano il desiderio di protezione dell’Angelo14.
Esaminando una Via,
si nota che non si è mai davanti ad un percorso unico, ma ad un insieme di
tracciati, perché i pellegrini, per necessità, trovavano dei tratti alternativi
che poi si riunivano in un punto obbligato, che poteva essere il superamento di
un passo alpino o l’attraversamento di un corso d’acqua. Lo spostamento dal
percorso principale avveniva anche per motivi stagionali: nelle valli, spesso
si notano due vie, l’inferiore, più vicina al corso d’acqua e frequentata nei
mesi estivi, e l’altra parallela, a mezza costa, sul lato solatio, per i mesi invernali.
La ricerca di un’alternativa, a volte, dipendeva anche dalla malevolenza di un
feudatario, che non vedeva di buon occhio che, nei suoi territori,
transitassero degli estranei. Le Vie erano suddivise in tappe, la cui lunghezza
variava, a secondo della difficoltà del percorso, tra i 30 e i 40 chilometri.
Spesso le strade erano poco più che dei sentieri, su cui si poteva procedere unicamente
a piedi o a dorso di mulo; solo i carri leggeri e smontabili potevano essere
usati. In alcune zone, i pellegrini
utilizzavano tratti di vie romane ancora percorribili, come la via Emilia, tra
Piacenza e Fidenza, o l’Appia tra Benevento e Brindisi.
Nel Medio Evo, per esigenze
militari, sorsero dei percorsi che divennero in seguito assi portanti delle vie
di comunicazione: un tipico esempio è la via di Monte Bardone15, che, unendo un antico tracciato
tra la Val di Taro e quella del Magra, permise ai Longobardi, dall’anno 521, il
passaggio di armati tra la Val Padana e la Tuscia 16; in seguito alle loro conquiste
nell’Italia Centrale e Meridionale, questa via si allungò al sud `no ad
intercettare, nella zona di Bolsena, la via Cassia, e, a sud di Roma l’Appia,
arrivando a Benevento e di qui al Gargano, al santuario di S.Michele, il loro santo
protettore; utilizzando tratti della Flaminia, potevano raggiungere il
territorio di Spoleto; in questo modo tutti i loro possedimenti erano collegati
tra loro. Per rendere la via più sicura, i Longobardi vi posero dei presidi
militari, come quello al valico della Cisa 17 o quello di Radicofani tra Umbria e Toscana e fondarono
delle abbazie regie.
12 Tra
le opere di oreficeria vanno ricordati gli altari, come quello della cattedrale
di S. Zeno di Pistoia, realizzato tra
la metà del sec. XIII e la fine del XV
e che contiene una reliquia di S. Jacopo; per quanto riguarda la ceramica, la
fiasca dei
pellegrini, originariamente di
materiale povero e di forma globosa schiacciata, divenne di vetro o di
ceramica, e, passata dal
’500, nelle botteghe di valenti
maestri, assunse forme diverse e decorazioni preziose e, pur andando ad ornare
le tavole di
famiglie ricche, continuò ad essere
chiamata “la fiasca da pellegrino”.
13 Le
strutture permanenti costituiscono la cultura materiale del pellegrinaggio.
14 A
Sutri, lungo il cammino, nella chiesa rupestre della Madonna del Parto, vi è un
affresco che riproduce un gruppo
di pellegrini che vanno verso il
santuario del Gargano e la grotta in cui avvenne il miracolo che diede origine
al culto.
15 La
derivazione da Longobardorum Mons è evidente.
16 In
quegli anni, il dominio dei Bizantini si estendeva dall’Esarcato alla parte
centrale e meridionale dell’Italia; con
la flotta dominavano sia le coste
adriatiche che quelle tirreniche, mediante vie interne comunicavano con Roma;
era quindi
una necessità vitale, per i Longobardi,
che stavano assediando Pavia, trovare una nuova via di collegamento con la
Tuscia.
17 Il
toponimo locale “Bardi” ricorda l’antico presidio militare longobardo.
Quando negli ultimi decenni del secolo
VIII, i Franchi sconfissero i Longobardi e occuparono gran parte dell’Italia,
per rendere agevoli i collegamenti con i loro territori al di là delle Alpi con
quelli italiani18,
prolungarono la via `no ai valichi alpini. Prese il nome di Via Francigena e divenne per alcuni secoli l’unica via che permettesse,
dalle regioni del Nord, di raggiungere Roma19; su questo asse viario s’incamminavano pellegrini,
viandanti, mercanti ed eserciti.
Durante tutto l’Alto Medio Evo
l’attraversamento di un corso d’acqua costituì un grave ostacolo nel cammino
dei pellegrini; i ponti, molto rari, avevano le spallette in muratura e la parte
centrale in legno che, con le piene dei `umi, rovinava facilmente; pagando un
pedaggio si era traghettati su barche, ma non era raro il caso di barcaioli
disonesti, che, quando i passeggeri erano giunti a metà del fiume, esigessero
altro denaro, oltre a quello richiesto, minacciando di gettarli nel fiume, se
non avessero aderito alle loro richieste.
Nell’economia medievale, i ponti
erano molto importanti, perché facevano affluire persone e circolare il denaro:
gli abitanti di Viterbo, nel XII secolo, distrussero il piano di strada del
ponte della vicina località di S. Valentino, obbligando i viaggiatori ad
attraversare la loro città. Nel secolo XI e in quelli successivi, per
facilitare il passaggio dei pellegrini che si dirigevano a Compostella, sul
“Camino”, i sovrani di Navarra e di Castiglia fecero costruire dei ponti che
portano ancora i loro nomi.
In Italia, nel secolo XII, sorsero i
Comuni: città come Milano, Bologna e Firenze divennero centri importanti per
l’artigianato, per il commercio e per gli studi; è naturale quindi che mercanti,
studiosi e pellegrini vi confluissero: le vie cambiarono, si trovarono dei
percorsi più celeri e diretti, le strade vennero migliorate e furono costruiti
dei ponti. Nel secolo successivo si ebbe in Europa una generale fioritura
economica e sociale: ripresero gli scambi commerciali a grande distanza, si
verificò un grande movimento di uomini e di merci e la strada ne fu la protagonista.
Oltre alle vie di terra, bisogna
ricordare le rotte marittime, percorse soprattutto per andare in Terra Santa;
molti pellegrini confluivano nei porti della Puglia per essere trasportati sulle
coste della Palestina; la Repubblica Veneta, dalla fine del sec. XI, aveva
organizzato un vero e proprio “servizio”: tra i mesi di maggio e di ottobre, da
Venezia, partivano molte navi, che, dopo aver fatto scalo nei porti
dell’Adriatico, da Otranto, affrontato il mare aperto approdavano a S. Giovanni
d’Acri.
Molti pellegrini che venivano dalle
zone dei fiumi Weber ed Elba21 non si inoltravano nella valle del Danubio, a causa
dell’ostilità di quelle popolazioni, ma, attraversata la Carinzia, scendevano in
Dalmazia e s’imbarcavano sulle navi veneziane22.
Un pellegrinaggio eccezionale, per
la durata e le distanze percorse, fu quello compiuto da Nikulas da Munkathvera23, abate del monastero di Tingor in
Islanda, il quale dopo aver navigato `no a Bergen, in Norvegia, passò per
Aalborg, in Danimarca; di qui iniziò il suo viaggio, via terra, per Roma.
Giunto nella città, dopo alcuni giorni, durante i quali visitò le chiese, si recò
in S. Pietro per ottenere l’indulgenza plenaria. Da Roma partì per Brindisi,
dove s’imbarcò per S. Giovanni d’Acri. Ritornato sulle coste pugliesi 24, rifece il percorso da Bari
all’Islanda.
18 Nei
secoli VIII e IX, i territori dei Franchi arrivavano fino al Reno e occupavano
parte della Svizzera.
19 Lungo
questa Via, l’epopea di Carlo Magno e dei suoi paladini è presente in racconti
popolari, nelle arti figurative, (per es. i bassorilievi del Duomo di Fidenza),
nei toponimi, come quello “Le querce di Orlando” nella zona di Sutri, ecc.
20 C’è
chi chiama il percorso da Roma a Brindisi Via Francigena del
sud, ma molti studiosi la ritengono una denominazione
impropria
21 V.
Lamberto di Hersfeld, Opera, in Monumenta Germania e Historica, Re. Germ,
Hannover 1894, pp. 92-100, che cita le vicende di un pellegrinaggio di massa,
compiuto nel 1064-65 da circa 7.000 Tedeschi che, guidati dal Vescovo di Bamberga,
furono «molestati dagli Ungheresi, attaccati dai Bulgari, messi in fuga dai
Turchi, insultati dagli arroganti Greci di Costantinopoli» ... nell’Asia
Minore, il viaggio si concluse tragicamente nella zona di Cesarea, dove contro
di loro si avventò un’orda di fanatici musulmani, che ne uccise a centinaia.
22 Questo
percorso è testimoniato dalle chiesette e dagli oratori a pianta centrale,
dedicati alla Santa Croce.
23 V.
Raschella: Itinerari Italiani in una
miscellanea geografica islandese del XII sec.,
pp. 541-84.
24 Stranamente
Nikulas da Munkathvera non da alcuna notizia né su Gerusalemme né sulla
Palestina.
L’abate descrisse il suo
pellegrinaggio, durato quasi tre anni, dal 1151 al 1154, e ne compilò l’Itinerario perché servisse da guida per i suoi monaci; suddivise le
distanze non in miglia, ma in giornate di viaggio, adottando un criterio
temporale anziché quello spaziale più usato. Su tutte le Vie si incontrano nomi
di località che richiamano il pellegrinaggio quali Ospedaletti; sono
innumerevoli i borghi intitolati ai Santi legati al pellegrinaggio quali S.
Pietro, S. Nicola, S. Pellegrino e l’Arcangelo Michele.
Esaminando gli Itinerari delle Peregrinationes Maiores, si nota che spesso alcuni tratti coincidono: per
esempio, sulla Via Francigena, tra Roma e Lucca, transitano sia i pellegrini
che ritornano da Roma, sia quelli che vanno a Santiago che quelli che vanno a
Saint Michel; sui percorsi si diffondono particolari culti di santi, si verificano
scambi di esperienze di viaggio e di conoscenze che contribuiscono alla
diffusione delle idee e avviano all’unità della cultura europea.
Nel pellegrinaggio, il cammino è
essenziale quanto la meta; più della strada che si percorre, sono importanti i
mutamenti che avvengono nella mente del pellegrino, che attraversando luoghi
disabitati, in compagnia solo di se stesso, medita sul significato della vita e
si sente davanti a Dio, cui offre il sacrificio e le fatiche del viaggio. Il
cammino santifica il pellegrino ed è fonte di conoscenza di sé.
Graziella Bava
La Cappella di Villa Stella del
marchese Clavarino con
l’imponente statua della Madonna donata alla nostra
chiesa di Bardonecchia e posta nella Cappella invernale
(foto: coll. F. Clavarino)
l’imponente statua della Madonna donata alla nostra
chiesa di Bardonecchia e posta nella Cappella invernale
(foto: coll. F. Clavarino)
Una reliquia della Sindone nella Croce di Bardonecchia
La
ritrovata Croce processionale di Bardonecchia, straordinaria opera di
oreficeria risalente al 1442, ha continuato ad essere al centro dell’interesse
dopo che i restauri dell’anno passato avevano portato all’eccezionale scoperta
di una reliquia sindonica all’interno della sua anima lignea. Si è pertanto
resa necessaria una ricognizione scientifica, avvenuta il venerdì 22 maggio
2014, sotto l’attenta regia del Parroco don Franco Tonda.
Durante un’intensa giornata di
lavoro senza interruzione, dalle 9,30 del mattino alle 16,30 del pomeriggio, la
restauratrice Valeria Borgialli ha provveduto nuovamente allo smontaggio integrale
della parte metallica per giungere all’apertura del piccolo sepolcreto ligneo
posizionato all’incrocio dei bracci della Croce, per trarne il piccolo involto
tessile che vi era contenuto.
Le abili mani della restauratrice Valeria Borgialli nell’atto di smontaggio della
preziosa Croce processionale. (foto G. Alimento)
|
L’emozione palpabile degli astanti è
divenuta ancora più intensa quando il prof. Piero Savarino, chimico e
consulente scientifico per la S. Sindone del Vescovo di Torino, ha provveduto all’esame
del tessuto, con una lunga serie di pesi e misure dei filati e della loro
torcitura, che ha evidenziato l’antichità del reperto che, pur non appartenendo
alla Sindone, probabilmente costituisce una reliquia “per contatto”, facente
parte forse di un’antica fodera del Sacro Lino, secondo una prassi comune del tempo.
Durante tutte le procedure scientifiche, queste sono state registrate in un verbale poi sottoscritto dai presenti, a futura memoria. Si è avuta così conferma dell’originalità della reliquia, il cui involto era rimasto intatto dal tempo della sua deposizione nel cuore della Croce, costituendo la testimonianza più antica del culto sindonico nella Valle di Susa, prima ancora che la reliquia passasse alla custodia dei Principi di Casa Savoia. Si è quindi pensato di organizzare durante le vacanze estive la presentazione dei risultati dell’attesa ricognizione, corredandola di adeguate immagini da proiettare su un ampio schermo.
Durante tutte le procedure scientifiche, queste sono state registrate in un verbale poi sottoscritto dai presenti, a futura memoria. Si è avuta così conferma dell’originalità della reliquia, il cui involto era rimasto intatto dal tempo della sua deposizione nel cuore della Croce, costituendo la testimonianza più antica del culto sindonico nella Valle di Susa, prima ancora che la reliquia passasse alla custodia dei Principi di Casa Savoia. Si è quindi pensato di organizzare durante le vacanze estive la presentazione dei risultati dell’attesa ricognizione, corredandola di adeguate immagini da proiettare su un ampio schermo.
Dal piccolo sepolcreto è stata appena estratta la reliquia con il cartiglio recante
la dicitura “Ex Scindone D.ni”. (foto G. Alimento)
|
Si è messo in luce il dato rilevante non solo della datazione del 1442, confermato definitivamente dai restauri, ma anche che la Croce astile, definibile “stauroteca” in quanto conserva al suo interno la preziosa reliquia sindonica, è stata commissionata dalla stessa Comunità Bardonecchiese, probabilmente dal consortile dei suoi Signori, i De Bardonnèche, recando in modo visibile il loro stemma, sia in uno dei rombi del nodo della sua base, sia nel vessillo dell’asta dell’effigie di Sant’Ippolito.
Il perito tessile Piero Vercelli pone sul vetrino per lo studio al microsopio il
prezioso tessuto. (foto G. Alimento
|
Il successivo 6 agosto, con un pubblico
altrettanto folto, si è tenuta la seconda parte della presentazione con
l’intervento del sindonologo prof. Piero Savarino che ha avuto come tema la
relazione scientifica dell’esame della reliquia e dei suoi tessuti. Nonostante
l’argomento di carattere tecnico, vivissima è stata l’attenzione dei presenti,
che hanno potuto contare sull’eccellente qualità delle immagini in
macrofotografia di Guido Alimento, riprese nel corso della ricognizione. Il
pomeriggio si è concluso con le parole del nostro Parroco, che ha sottolineato come
la Croce pastorale di Bardonecchia non costituisca soltanto un prezioso reperto
artistico,ma il visibile testimone, da quasi seicento anni, della Fede viva
della nostra comunità negli appuntamenti solenni della vita religiosa di
Bardonecchia, confermandone la presenza nell’occasione della Santa Pasqua,
della festa Patronale di Sant’Ippolito e per il Santo Natale.
Una Croce che, nel suo argenteo
splendore di luce, racchiude nel suo intimo la Reliquia della Passione di
Nostro Signore, richiamandoci alla verità del fatto storico della Redenzione. Questo
profondo pensiero ci accompagnerà in quest’anno del “Giubileo della Misericordia”
proclamato da Sua Santità il Papa Francesco, per renderlo ancora più fruttuoso.
Marco Albera
VERBALE APERTURA E CONTROLLO DELLA
CROCE DI BARDONECCHIA
I lavori hanno inizio alle ore 9,30.
La restauratrice, sig.ra Borgialli, procede ad effettuare l’apertura della
Croce. I lavori sono documentati da una serie di fotografie scattate dal
fotografo sig. Alimento.
All’atto dell’apertura emerge per
primo il cartiglio portante la scritta (la scritta sarà oggetto di ulteriori approfondimenti).
L’aspetto del cartiglio è un rettangolo irregolare con lati di circa millimetri
33,1; 7,00; 32,7; 8,2. Tale cartiglio era ripiegato due volte a metà nel senso
della lunghezza ed era alloggiato superiormente al reperto in corrispondenza
del tassello di chiusura. La cavità (8x8x6 mm di profondità senza tener conto
del coperchio) contiene una sorta di pacchetto di stoffa a forma cubica come la
sede dell’incavo ove era contenuto. Si estrae l’involto e si osserva con una
lente. Prima dell’apertura dell’involto vengono eseguite 6 fotografie numerate
da 1 a 6 secondo uno schema che viene allegato. Il perito tessile sig. Vercelli
individua all’interno del pacchetto la presenza di frammenti di legno. Si
documenta con una serie di fotografie individuando le facce con numeri
appoggiati sul vetro su consiglio del dott. Castelli.
Il sig. Vercelli documenta il colore
del pacchetto di stoffa (seta, con trama molto più grande dell’ordito).
La misura è effettuata per confronto
con pantone tessile e risulta nº 14-0837TP, giallo acquoso tendente al nº
14-0827TP, giallo cedrino; simile al 14-0740TP, bambù. Si pesa il tutto.
risulta un peso totale di g 0,14.
Si procede all’apertura del
pacchetto. Allontanato l’involucro esterno di seta si vede un tessuto interno. Il
peso dell’involucro risulta essere pari a g 0,04. I due pezzetti di legno
presenti pesano g 0,02. Il peso del tessuto contenuto nell’involucro di seta
risulta essere pari a g 0,09. La differenza fra il peso totale e la somma delle
pesate è dovuto alla limitata precisione della bilancia e ricade nella normale
dispersione dovuta all’errore sperimentale.
Il tessuto contenuto all’interno dopo
attenta e cauta distensione, per osservazione con lente appare tessuto a “tela”
e non è uno spigato. L’area è di circa 338 millimetri quadri. Il peso risulta
quindi pari a 266 grammi permetro quadrato. Ordito 27 fili per centimetro,
trama 22 fili per cm. Spessore del tessuto 0,50-0,55 millimetri (8 misure,
rilevazione con calibro elettronico). Il conteggio dei fili viene ripetuto
anche sulle fotografie. Si è
proceduto al calcolo del titolo del filato che compone il tessuto, che è
risultato pari a numero metrico 20000 (20000 metri pesano 1 kg) titolo in Tex
50 (1000 metri di filo pesano 50 grammi). Nel calcolo del titolo si è tenuto
conto dell’imborso medio tra ordito e trama del 10%). Le misure effettuate,
devono considerarsi con una tolleranza del 5% anche a causa del forte
ripiegamento del campione, delle sue ridotte dimensioni e dello sfrangiamento
perimetrale. Si osserva il campione al microscopio; il filato appare filato con
torsione z. A 150X le fibre sembrano essere fibre di lino. Con la
strumentazione a disposizione a ingrandimenti maggiori (600X) non si riesce ad
avere una visione sufficientemente chiara.
La misura del colore con il pantone
tessile risulta essere compresa tra: 16-1333TP, cerbiatto, 16-1326TP, sabbia di
prateria (colore uguale a quello del campione della Sindone depositato presso
l’archivio della Sindone e facente parte del campione residuo della radiodatazione),
17-1045TP, mela alla cannella. Il tessuto risulta essere di buona consistenza ma
non presenta tessitura a spina di pesce ma intreccio con armatura tela, non
compatibile con quello del telo sindonico.
Non si ritiene opportuno espletare
ulteriori indagini sperimentali. Tutti i reperti vengono riposti nella loro
originale sede. Si procede quindi a ricollocare le varie parti della croce
nella loro originale posizione. I lavori terminano alle ore 16,30.
Bardonecchia, 22 maggio 2015.
Il Parroco don Franco Tonda
La Restauratrice Valeria Borgialli
Il Perito Tessile Piero Vercelli
Il Fotografo Guido Alimento
Dott. Enrico Castelli
DottMarco Albera
Prof. Piero Savarino
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Le campane del 1702
Nel
“Libro delle obbligazioni della Confraternita dei penitenti bianchi di
Bardonecchia”, i vari procuratori succedutisi nell’incarico hanno elencato sia
i lasciti testamentari alla Confraternita e le donazioni in denaro od in
natura, sia le spese sostenute a vario titolo.
In alcune pagine del manoscritto
sono riportate notizie che si riferiscono a due campane fuse nel 1702.
È noto che la campana maggiore della
chiesa di S. Ippolito, detta “la Grosse”, è la più anziana di quelle
attualmente in uso e risale al 1702. Dedicata alla B. V. Maria ed ai Santi
Giuseppe ed Ippolito, svolge quindi il suo compito da più di trecento anni.
Nel testo citato si riporta che la
sua fusione è stata effettuata a Plampinet a spese della Comunità di
Bardonecchia, come riportato anche nella relazione che i “consuls” di
Bardonecchia dovevano fare annualmente alla collettività. Il fatto che a
sostenere la spesa per la campana fossero gli abitanti di Bardonecchia può
spiegare il suo utilizzo anche per scopi non religiosi come, ad esempio, per la
convocazione dei consiglieri eletti dagli abitanti.
Non si aveva notizia dell’esistenza
di una seconda campana della cui fusione ci riferisce il procuratore della
Confraternita Alessandro Garcin, elencandone poi dettagliatamente le spese sostenute.
«Il ventinove maggio millesettecentodue
è stato dato incarico a mastro Francesco Vallier, fonditore di Plampinet, di
realizzare una campana che servirà per suonare gli uffizi che cantano i
confratelli penitenti nel loro oratorio, come consta dalla qui allegata
quietanza del detto Vallier, certificata in copia dal notaio Agnes».
Essa è stata fusa il quattordici
luglio 1702 «assieme a la grosse della parrocchia
ed ha per iscrizione quanto segue: Christo regi in eucharistia Triumphanti,
Beato petro ac Stoe franciscoe, hoc cymbalum dicabat Societas confallonis et ad
ipsam pertinent anno 1702».
La benedizione è stata impartita da
don Fantin, gran vicario, il 19 luglio 1702. Padrino e madrina sono stati il
notaio Pietro Beraud e “tante” Francesca Aymon (l’appellativo “tante”, letteralmente
“zia”, era usato normalmente per le persone anziane) che donarono per
l’occasione alla Confraternita una lira e sedici soldi ciascuno.
«La campana pesa centottanta libbre,
come (risulta) dall’articolo diciassette della resa dei conti alla comunità dai
consuls del millesettecentodue, avendo detratto da un importo maggiore quello
di centoquaranta quattro lire * (144 lt) che è il prezzo ed il valore della
campana ... non compreso la perdita del metallo che è di nove libbre».
* NOTA: le lire di cui si fa
riferimento nel testo sono “lire tornesi” (abbreviate lt). Nel medioevo in
Francia si utilizzavano due “livre”: quella “parisis” nelle zone sotto il
diretto controllo della corona francese, e quella “tournois” (di Tours) nella
contea d’Angiò. Nel 1203, la contea d’Angiò passò sotto il controllo della
corona francese e le due livres, circolarono una accanto all’altra. Il loro
rapporto era di 4 lire parisis = 5 lire tournois. Entrambe erano suddivise in 20 soldi ma il soldo parisis valeva 15 denari parisis
e quello tournois valeva 12 denari tournois. Nel 1266 re Luigi scelse come moneta di conto la lira
tornese che si riferiva a un lingotto d’argento di 80,84 grammi ed a uno d’oro
di 8,271 grammi.
La moneta in uso nel Delfinato era la
Lira tornese. La vendita del Delfinato alla Francia non ebbe alcuna influenza
sull’impiego della moneta. Col passaggio dell’alta Valsusa ai Savoia si
continuò, almeno nella contabilità, ad usare la lira tornese. Quando si tratta
di lire piemontesi nella contabilità della Confraternita si specifica lire “di
Piemonte” ma l’abbreviazione è sempre lt. Si può ricavare la correlazione tra
lire piemontesi e tornesi da alcune annotazioni nel testo: «quatre Livres ... de piedmont
faisant trois livres de France» «quarante sinq livre monei de piemont faisant
celle de trante trois livre quinse sols tournois» «dix Sols piemont qui font
Sept Sols Six deniers tourmois»
«7 lt 10 s tournois faisant piemont 10 lt piemont».
A questo punto il procuratore annota
che per pagare una parte delle 144 lire tornesi utilizza un lascito di sessanta
lire che Giacomo Chanoux, detto “la tour”, ha stabilito nel suo testamento
ricevuto dal notaio Agnes, con l’incarico per la Confraternita di far celebrare
tutti gli anni ed in perpetuo un servizio funebre. Il Chanoux, gravemente
ammalato, è ammesso nella Confraternita «il
6 dicembre 1702, ai piedi del suo letto, ed è deceduto il giorno dopo».
Singolare è l’annotazione del
procuratore che riporta: «prima
dellamorte del Chanoux gli ho detto che il legato che aveva fatto non era
sufficiente per obbligare la Confraternita a fare un servizio annuale, (e lui) mi
ha donato ancora nove lire».
A completamento della somma vi è un
secondo lascito: «Francesco Garcin,mio padre, ha
donato settantacinque lire per pagare il rimanente debito del metallo ...
incaricando la Confraternita di fare, per il riposo della sua anima, un
servizio annuale e perpetuo». Inoltre
«i signori Giovanni Morel e Giovanni
Francesco Blanc hanno donato la corda per la campana».
Pagato il metallo necessario alla
fusione della campana, per la sua messa in opera occorreva affrontare una serie
di spese, di cui è riportato l’elenco:
Ho pagato a mastro Francesco Vallier
per la realizzazione della campana dodici lire come da certi\cato di mastro
Agnes notaio, che ha la quietanza del Vallier. 12 lt La perdita del metallo è
di nove libbre in ragione di cinque libbre per cento ed ho pagato per queste
nove libbre, a sedici soldi la libbra, sette lire quattro soldi. 7 lt 4 s
La minutaglia metallica pesa otto
libbre; mi costa con la manodopera ed il carbone sei lire dieci soldi. 6 lt 10
s
Ho pagato a Ippolito Beraud, figlio
di Claudio, per il braccio di sostegno e muratura nove lire sedici soldi,
compreso la calce. 9 lt 16 s
Pagato per il battaglio, che pesa
dieci libbre, e per altro ferro di sostegno alla campana e per la catena e la
realizzazione dei ferramenti, pesanti compreso battaglio e catena trenta
libbre, in ragione di tre soldi sei denari la libbra, cinque lire cinque soldi
ed a Claudio Pellerin per la fabbricazione dei ferramenti un lira, in tutto. 6
lt 5 s
Pagato ad Ippolito Beraud, figlio di
Claudio, per aver aiutato a fare il battaglio dodici soldi. 12 s
Pagato per la correggia che tiene il
battaglio quindici soldi. 15 s 43 lt 2 s
Il procuratore, dopo aver detratto
da questa cifra quanto donato da padrino e madrina, conclude: «rimane dovuto per i ferramenti 39 lt
10 s».
Non si sa perché i confratelli
avessero sentito la necessità di disporre di una propria campana né si
conoscono le ulteriori vicende di quest’ultima.
La frase precedentemente citata: «... una campana che servirà per
suonare gli uffizi che cantano i confratelli penitenti nel loro oratorio…» fa sorgere una serie di domande. Disponeva la Confraternita
di un oratorio o di una cappella? Dove era ubicata? Quali sono state le sue
sorti?
Il termine “oratorio” viene
utilizzato solo in questo caso e non compare mai in tutti gli altri documenti
relativi alla Confraternita che ci sono pervenuti. Nel libro viene usato alcune
volte il vocabolo “cappella” ma in tutti i documenti riguardanti la
Confraternita non vi sono altre indicazioni relative alla sua esistenza ed
ubicazione.
Alcune frasi inserite nelle ricevute
dei pagamenti effettuati, allegate al volume, permettono di esprimere
un’ipotesi. Ippolito Beraud, figlio di Claudio, dichiara infatti di aver
ricevuto, il dieci agosto 1702, dieci lire e otto soldi permateriali e lavori
da lui svolti inerenti alla campana e di aver «innalzato
sul campanile la detta campana e messo un contrappeso».
Da Gianbattista Piat, che dà
quietanza di cinque lire e cinque soldi per la fornitura di trenta libbre di
ferro impiegato per quanto necessario alla campana, si apprende che questa «... attualmente è sul grande
campanile della chiesa a Bardonecchia…». Si
tratta del vecchio campanile, ancora esistente, della chiesa parrocchiale. Se
la Confraternita avesse disposto di un edificio proprio non vi sarebbe stato
alcun motivo per posizionare altrove la campana. Si deduce quindi che molto
probabilmente le funzioni religiose dei confratelli venivano svolte nella
chiesa di S. Ippolito, verosimilmente utilizzando una cappella laterale.
Guido Ambrois
90º anniversario del Congresso
Eucaristico
diocesano a Bardonecchia (1925-2015)
Nell’anno
1925, il 26 luglio, Bardonecchia fu sede del Congresso Eucaristico diocesano,
un avvenimento importante che ebbe risonanza non solo nella nostra Valle ma
anche nelle regioni francesi confinanti. Poiché nel Bollettino Parrocchiale del
2012 se ne parlò in modo esauriente, con chiarezza e precisione, qui ne
accenniamo soltanto. L’articolo (pag. 95-98) evidenzia il grande fervore
religioso con la partecipazione numerosa a tutte le Funzioni, anche quelle
celebrate di notte. Oltre alle autorità civili erano presenti tre Vescovi: Mons.
Umberto Rossi di Susa, Mons. Giuseppe Calabrese di Aosta e Mons. Auguste Grumel
di Saint Jean de Maurienne.
I treni che provenivano dalla bassa
valle e dalla Francia erano accolti alla Stazione ferroviaria dalle Bande
musicali del Circolo di Azione Cattolica “Mario Chiri” di Susa e di Modane con
la Marcia Reale e la Marsigliese. Bella questa fratellanza fra i pellegrini
italiani e francesi uniti dalla Fede!
L’articolo è arricchito da tre fotografie: l’interno della chiesa di S. Ippolito ornato con ricchi damaschi, la folla sul sagrato ed uno scorcio della grandiosa processione che si snodò lungo le vie di Bardonecchia. Il periodico “La Valsusa” del 1º agosto 1925 descrive l’aspetto «ben pittoresco offerto dai drappi posti ad ogni finestra, balcone, bandiere, lampioncini e ghirlande».
Questi addobbi furono ancora in uso
per molti anni per la processione di Corpus Domini. Dell’anniversario di
Bardonecchia il giornale “La Valsusa” parlava ampiamente, con titoli a grandi
lettere, già precedentemente al suo avverarsi, informando che «il vecchio borgo
di Valsusa, la conca preferita dai villeggianti piemontesi, ha già virtualmente
aperto la campagna preparatoria del VI Congresso Eucaristico Diocesano, il cui recente
annuncio ha destato un’onda di santa simpatia in tutta questa conca magnifica,
situata alle porte d’Italia ... serena conca incantevole al confine della
Patria». Pensiamo di fare cosa gradita aggiungendo alcune foto. Nella prima (foto 1) si vede una bambina dare il benvenuto al Vescovo, che
ascolta compunto. Dal ritratto scritto in nota nell’articolo del 2012 non
sembra Mons. Rossi, che è descritto con la «persona maestosa, i capelli biondi
che contornano il viso ascetico». Chissà con quale emozione la bambina stava
ripetendo le parole imparate a memoria, accompagnate dal gesto della mano
destra alzata come stesse ripetendo una poesia!
Porta le scarpette bianche “della
festa”, come la bimbetta dietro di lei di cui si vedono solo i piedi, mentre
quella vicino in primo piano, con un raffinato abito a balze, ha stivaletti
scuri. Da un lato sono tutti uomini, dall’altra osservano la scena con
attenzione delle signore che, come richiedeva l’etichetta del tempo,
indossavano il cappello (foto
2). Nell’altra immagine il Vescovo
sotto un festoso baldacchino è rivolto verso la folla e verso la Croce
processionale che è la preziosa croce quattrocentesca che – rubata nel 1971 –
nel 2012 fu ritrovata e restituita a Bardonecchia. Dietro l’Altare sono
allineati dei paggetti, che ricordiamo in altre due foto (foto 3 e 4). Indossano abiti lussuosi, dove spiccano le candide
gorgiere arricchite intorno al collo ed i cappelli piumati come era uso nel XVI
secolo. L’indimenticabile mons. Francesco Bellando, Parroco di Bardonecchia dal
1946,
li ricordava ancora durante la Peregrinatio Mariae del 1948. Infatti sono visibili con crociati dotati di lunghe trombe, in una foto della pubblicazione del 1993 dedicata a mons. Bellando mancato l’anno precedente.
Le altre fotografie che presentiamo in queste pagine dedicate al Congresso del ’25 riproducono i “Quadri viventi”, un uso che non esiste più. In uno (foto 5) gli angioletti sono in piedi in adorazione dell’Ostensorio, posto in alto. Le donne lavoravano alacremente per preparare gli abiti. La mia nonna me lo raccontava, dimostrando ancora a distanza di tanti anni la soddisfazione e la gioia di essere riuscita a confezionare le ali per la sua bimba. Effettivamente, da come appaiono nella foto n. 6 del particolare della bambina, esse si rivelano ben riuscite, dotate di piume leggerissime. L’espressione della bimba è “poco angelica”, più interrogativa che gioiosa, probabilmente perché rivolta al fotografo che “armeggiava” con il suo apparecchio e che richiedeva un lungo tempo di posa. Nel 1946 anch’io venni vestita da angelo, stavo su un tavolo inginocchiata con le mani giunte rivolta alla Madonna, che appariva in piedi, interpretata da una mia amichetta. Le calzature “celestiali” erano pantofole rivestite con la carta argentata in cui si avvolgeva il cioccolato.
li ricordava ancora durante la Peregrinatio Mariae del 1948. Infatti sono visibili con crociati dotati di lunghe trombe, in una foto della pubblicazione del 1993 dedicata a mons. Bellando mancato l’anno precedente.
Le altre fotografie che presentiamo in queste pagine dedicate al Congresso del ’25 riproducono i “Quadri viventi”, un uso che non esiste più. In uno (foto 5) gli angioletti sono in piedi in adorazione dell’Ostensorio, posto in alto. Le donne lavoravano alacremente per preparare gli abiti. La mia nonna me lo raccontava, dimostrando ancora a distanza di tanti anni la soddisfazione e la gioia di essere riuscita a confezionare le ali per la sua bimba. Effettivamente, da come appaiono nella foto n. 6 del particolare della bambina, esse si rivelano ben riuscite, dotate di piume leggerissime. L’espressione della bimba è “poco angelica”, più interrogativa che gioiosa, probabilmente perché rivolta al fotografo che “armeggiava” con il suo apparecchio e che richiedeva un lungo tempo di posa. Nel 1946 anch’io venni vestita da angelo, stavo su un tavolo inginocchiata con le mani giunte rivolta alla Madonna, che appariva in piedi, interpretata da una mia amichetta. Le calzature “celestiali” erano pantofole rivestite con la carta argentata in cui si avvolgeva il cioccolato.
Rammento la mia emozione nell’attesa
dimettermi in posa all’arrivo della processione, che si teneva di sera,
illuminata dai flambeaux. Non ricordo per quale ricorrenza.
La foto
n. 7 rappresenta il quadro del Sacro
Cuore di Gesù con alcuni angioletti, parte dei quali sono inginocchiati e altri
in piedi e due bimbe che indossano l’abito della Prima Comunione.
Solo due angeli vestono di scuro,
come il bimbo più piccolo poco visibile nell’immagine sfocata dagli anni, che è
seduto ai piedi di Gesù. Un angelo in basso, in primo piano, in una mano regge
il turibolo. In un altro “quadro”, bimbe vestite di bianco e dalla parte
opposta bimbi in abiti scuri, poco visibili, sono come in estasi davanti alla Madonna
ai piedi del monumento tuttora esistente dedicato a Francesco Medail (foto 8), l’ideatore del Traforo ferroviario del Frejus.
L’iscrizione “I bimbi d’Italia a Maria” riporta la dedica alla Madonna sulla vetta del Rocciamelone. Forse ricorda l’interesse di Mons. Rossi per la “Santa Montagna” dove nel 1922 aveva fatto costruire una nuova Cappella-rifugio, e nello stesso 1925 aveva indetto e guidato un pellegrinaggio fino alla cima. Non so se l’origine dei “quadri viventi” sia da collegare alle “Sacre rappresentazioni” del passato, che derivavano dalle “Laudi” medievali. Era uno spettacolo che si teneva sul sagrato, durava tre giorni e coinvolgeva tutti gli abitanti del paese. Avevano lo scopo, come gli affreschi sui muri delle Cappelle, di dare un messaggio, come ora la televisione. Veniva oggettivato in figurazioni concrete, provocando un’impressione immediata, il senso del trascendente; si esaltava il sentimento religioso, materializzandolo in esempi spettacolari. Se ne conservano diversi testi dei paesi della valle, dedicate ai Santi patroni o alla Passione, il tema più diffuso in tutta Europa e che a San Giorio fu proprio rappresentata nel 1925 e tuttora si rinnova ogni anno a Villarfocchiardo.
Giulietta Tonini
(foto: coll. G. Tonini)
L’oro di Valle Stretta
La
sequenza delle foto di Valle Stretta tra la fine dell’estate e il primo autunno
indora lo schermo del mio computer. Se molte forme si modificano o si perdono,
il colore tende a espandersi ovunque, trasformandosi in un’unica tonalità.
Apparentemente indifferenti alla nudità dei rami e al profilo sfigurato dei
cardi, verso la fine del giorno persino le rocce ingialliscono come se fossero
larici. Allora riascolto lo scricchiolio degli scarponi mentre si fanno strada
in un coacervo di erba secca e di foglie perdute.
Le greggi che fino a poco tempo prima stazionavano tra le luci del Colle di Thures sono transumate a Ravenna. (foto G. Alimento) |
Invece nelle praterie che circondano
i rifugi la natura ha creato di nuovo; e se pochi giorni fa il rosso estivo dei
“cavolacci” appariva sfilacciato in umida bambagia, ora quegli steli si sono trasformati
in catename. Sembrano anelli dei portachiavi o anche, alla luce dorata del
tramonto, fedi nuziali. Visti da lontano, allungati, potrebbero essere i tasti
di un clarinetto. Così, appena mi avvicinano al torrente, mi metto in ascolto
del suo concertare.
Scomparso il sole, l’intera valle
vive attimi di incertezza vigile. Che fare al buio? Dopo qualchemomento,
caparbiamente, la luce solare si ripresenta. O forse è il fiume che rimpiange
ed evoca il grande astro; fattesi brunite, ora le acque narrano l’oro della valle.
È una colata di luce quieta, quasi
priva di contrasto, che trascina fuori dal mondo l’ambiente alpestre e chi è
presente in esso.
Qualche minuto prima, fissavo il
dinamismo del torrente addensarsi in curve bluastre incorniciate d’oro. Ora
invece, sotto quel chiarore incerto, l’acqua rallenta il suo corso quasi
scendesse in punta di piedi. Leggera si fa ascoltare. Ciò nonostante fluisce
con la solennità di un canto gregoriano mentre sembra volersi ritrarre da
questo mondo e negare il suo scorrere e il fluire stesso del tempo.
In quei momenti rivivo i mosaici e
le icone bizantini. Le greggi che fino a poco tempo prima stazionavano tra le
luci alte del Colle di Thures sono transumate fino a Ravenna.
Per animare lo scorcio della
pecorella accarezzata da Mosè a San Vitale; oppure la scena del Buon Pastore a
Sant’Apollinare in Classe. Al centro di quest’ultimo mosaico, una croce dorata domina
il blu del cielo stellato, le stesse tonalità del torrente che sto lambendo.
In quei momenti rivivo i mosaici e le icone bizantini. (foto G. Alimento) |
Quei capolavori bizantini, ideali e
fantastici, furono concepiti dopo che, nei primi due secoli di vita, il
Cristianesimo non aveva prodotto immagini di Gesù, della Madonna o dei Santi.
Nei secoli successivi ci si domandò:
se in Cristo coesistono la persona umana e quella Divina, in che modo
rappresentare la Seconda? Per essa si dovevano ricercare una forma e dei colori
in grado di evocare la perfezione di Dio.
Pur adeguati ai nostri occhi
carnali, in base a tale sensibilità i personaggi evangelici vennero rappresentati
idealmente al di sopra della realtà. L’aspetto spirituale doveva prevalere.
Perfettamente simmetrici, immobili e
ieratici, essi suggeriscono pace e silenzio mentre ì loro occhi, fissi e
ingranditi, esprimono profonda sacralità; al contrario, la bocca è
rimpicciolita come a suggerire digiuno e silenzio. I corpi slanciati, già
proiettati verso l’Alto, sono nascosti nelle pieghe infinite delle vesti.
Soprattutto, il tempo è negato dal fondo oro che evoca la quiete dell’Assoluto,
luce immutabile senza contrasto. Riflesso di una bellezza inesprimibile, ottenuto
usando materiali terreni.
Per quanto tempo l’oro immateriale
di Valle Stretta ha fermato l’avanzare del mio orologio? Attorno a me non c’era
più la luce insostenibile della scorsa estate; eppure sognavo il luccichio di
milioni di lucciole che si aggiravano discrete tra i cespugli e in mezzo agli
alberi. Sopra di me non vedevo la stellata dei mosaici ravennati, evocazione
del Paradiso.
Ugualmente ho ascoltato uno slancio
verso l’eternità, la voce di Isaia: «L’erba diventa secca, il fiore appassisce
ma la Parola del nostro Dio si realizzerà per sempre». Tutto l’ambiente di
Valle Stretta gioiva del prezioso metallo.
Nel frattempo avanzavo lentamente, o
forse piuttosto stavo fermo, sentendo attorno a me un che di essenziale,
lontanissimo dall’oro del mondo.
Guido Alimento
ACCADEVA PIÙ DI CENT’ANNI
FA...
Un bardonecchiese soccorritore
al terremoto di Messina (1908)
La
scorsa primavera, riordinando i vecchi ma cari ricordi dei miei avi, ho
ritrovato un’antica pergamena incorniciata, recante il fregio del Regno
d’Italia e del Ministero della Guerra, un diploma di riconoscimento con medaglia
commemorativa, conferito nel 1911 al mio bisnonno, Augusto Chareun, classe 1888,
bardonecchiese di pura stirpe. La pergamena così recita:
Augusto Chareun, Genio Ferrovieri
(Roma, 1908). (foto: coll. C. Marino)
|
REGNO D’ITALIA - MINISTERO DELLA GUERRA
DIPLOMA di autorizzazione a fregiarsi
della medaglia commemorativa istituita con regio Decreto del 20 Febbraio 1910,
n. 79, rilasciato al Soldato della Brigata Ferrovieri del Genio n. 142 77.70 di
matricola, CHAREUN AUGUSTO, che prestò opera soccorritrice nei luoghi devastati
dal terremoto del 28Dicembre 1908.
Allegata la medaglia del re Vittorio
Emanuele III.
Roma, addì 20 gennaio 1911
Firma: il Ministro Paolo Spingardi
In effetti il bisnonno fu sempre
molto legato a questo diploma, tanto che per tutto il corso della sua vita lo
tenne appeso nella sua camera da letto e non se ne separòmai. Nel diario che
egli tenne (e confesso che di tanto in tanto è dolce e bello leggerlo e
rileggerlo) qualche stringato ricordo di quell’avventura così lontana nel tempo
è presente.
Dunque il soldato del Genio
Ferrovieri Augusto Chareun, di stanza per il servizio di leva sulla tratta
Roma-Frascati, partì per Messina con tutta la sua Brigata il giorno
immediatamente successivo al terribile sisma con i primi soccorritori, e rimase
nella devastata città siciliana per due mesi, cercando, insieme ai suoi
commilitoni, di fornire aiuto in quello che doveva apparire come uno scenario
veramente apocalittico, all’indomani del disastro naturale di maggiori dimensioni
che abbia colpito il territorio italiano in tutta la sua storia. Il terremoto
di Messina è stato infatti definito come la più grave catastrofe naturale in
Europa per numero di vittime a memoria d’uomo ed effettivamente fu uno degli
eventi più tragici del XX secolo, tanto che commosse l’opinione pubblica del
mondo intero.
Diploma e medaglia conferiti ad Augusto Chareun per l’opera di soccorso prestata
a Messina subito dopo il terremoto del 1908. (foto: coll. C. Marino)
|
Diploma e medaglia conferiti ad
Augusto Chareun per l’opera di soccorso prestata
a Messina subito dopo il terremoto
del 1908. (foto: coll. C. Marino)
Posso solo cercare di immaginare
cosa abbia potuto significare per un giovane di montagna, nato alla borgata
della
Rhô, abituato alle Alpi, a neve,
pascoli e boschi, poter vedere un luogo così diverso dal suo paese natale e così
devastato. Nel maggio 1909 il Governo decise di ricompensare con specifica
attestazione civili, militari, enti e organizzazioni che si erano impegnati nelle
operazioni di soccorso e Re Vittorio Emanuele III emanò un Regio Decreto con il
quale furono fissate le modalità di concessione di una speciale medaglia di
benemerenza, da attribuire alle persone riconosciute meritevoli.
* * *
All’alba del 28 dicembre 1908, alle
5,20 del mattino uno dei più potenti sismi della storia, stimato nell’ 11º
grado della Scala Mercalli, colpì Reggio Calabria ed il popoloso abitato di Messina,
subito seguito da un maremoto di impressionante violenza, che si riversò sulle
zone costiere di tutto lo Stretto con ondate che raggiunsero i 13 metri di
altezza: «un rombo spaventoso, la terra
cominciò a tremare, i palazzi si accartocciavano rovinosamente, le case
crollavano. Le urla disperate della gente colta nel sonno echeggiavano in ogni
parte della città. Il mare gemeva impazzito infrangendosi alto contro la costa.
Il cielo brillava di una luce funerea. Tutto ciò che la popolazione aveva
laboriosamente costruito fu distrutto. Scilla e Cariddi erano risultati
vittoriosi nell’ultima battaglia».
Dell’antica capitale del Regno di
Sicilia non sopravvisse quasi nulla: in alcuni secondi il 90% degli edifici
crollò, a causa della prima e delle successive scosse sismiche, e quel poco che
rimase in piedi venne devastato dagli incendi.
Messina, che all’epoca contava circa
140.000 abitanti, ne perse circa 80.000 e Reggio Calabria registrò circa 15.000
morti su una popolazione di 45.000. Il bilancio in termini di perdite di vite
umane raggiunse la cifra di 120.000 vittime, con un altissimo numero di feriti
ed una stima di circa 100.000 profughi. Entrambe le città persero gran parte
della loro memoria storica e dovettero affrontare una catastrofe umanitaria
senza precedenti; all’alba di quel 28 dicembre Messina era un ammasso di
macerie e i sopravvissuti si aggiravano in uno scenario di morte e di rovine.
Messina dopo il terremoto del 1908. (foto d’epoca) |
L’eco di tale evento fu enorme sia a
livello nazionale che internazionale, tanto che si registrò, forse per la prima
volta su così vasta scala, una rete di solidarietà privata e proveniente da
tutto il mondo che affiancò il governo nell’opera di soccorso immediato e a medio
termine. Messina era allora una città conosciuta, vivace e intellettualmente
ricca, con un sistema economico basato sul commercio marittimo, ed ospitava,
già da qualche generazione, comunità inglesi, svizzere e tedesche; numerosi
stranieri la visitavano, era ricca di chiese e capolavori medioevali e
barocchi. Già il 29 dicembre gli equipaggi di diverse navi e corazzate russe e
inglesi, che si trovavano nel Mediterraneo per missioni commerciali e militari,
prestarono i primi soccorsi e procedettero ad un primo ripristino dell’ordine
pubblico. In seguito giunse la flotta della Marina Italiana e poi seguirono
navi tedesche, francesi, spagnole, greche e americane.
Il Re Vittorio Emanuele III e la
Regina Elena giunsero a Messina il 30 dicembre, accompagnati da due ministri
del governo Giolitti, e portarono con loro medici, infermieri, pompieri ed
anche i soldati del Genio, per prestare i più urgenti interventi, trovare i
superstiti e cominciare a pensare alla ricostruzione. Si ricorda in particolare
come la Regina si distinse per il grande impegno profuso in quell’occasione,
approntando ospedali sulle navi della Regia Marina dove furono ricoverati
moltissimi sopravvissuti e dove si dedicò instancabilmente alla cura dei
feriti. Le navi da guerra vennero infatti utilizzate per trasportare questi
ultimi a Napoli, Roma e in altre città costiere, dato che dei nosocomi e
dell’organizzazione sanitaria della città non rimaneva nulla.
Nei giorni successivi al sisma
l’Italia ed il mondo vennero a conoscenza dell’enorme portata della catastrofe messinese
e giunsero aiuti da capi di Stato e di Governo, come il Presidente degli Stati
Uniti Theodore Roosevelt ed il Kaiser di Prussia e Germania Guglielmo II, e dal
Pontefice Pio XI.
Il mare dello Stretto si riempì di
centinaia di navi che portavano viveri, coperte, legname, generi di conforto e
braccia per scavare sotto le macerie; in tutta Italia si crearono comitati spontanei
di soccorso per la raccolta di denaro, cibo e indumenti, intervennero la Croce
Rossa e l’Ordine dei Cavalieri di Malta, da molte città partirono squadre di
volontari composte da medici, ingegneri, operai, sacerdoti e insegnanti. Per
far fronte ai più immediati fabbisogni della popolazione si diede avvio alla
costruzione di quartieri di baracche di legno denominati Americano, Svizzero,
Tedesco... in segno di riconoscenza verso i Paesi che, con i loro aiuti, ne
agevolarono la realizzazione. Un quartiere fu intestato alla Regina Elena e
ancor oggi esistono l’Ospedale Piemonte, il quartiere Lombardo ed uno chalet
alpino donato dalla Confederazione Elvetica. Alcune baracche sono tutt’ora
abitate.
Testimone illustre di quei giorni fu
il futuro Premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo, allora un bimbo
di 7 anni, giunto aMessina a seguito del padre ferroviere, e che in seguito
rievocò l’esperienza nella poesia Al
Padre: «Dove
sull’acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie ... Il terremoto
ribolle da due giorni, è dicembre d’uragani e mare avvelenato ...».
L’opera di ricostruzione complessiva
della città fu, come noto, molto lunga, si interruppe a causa della Prima
Guerra Mondiale, e terminò nel 1932, e la storia della città era, nel
frattempo, radicalmente cambiata, poiché la gloriosa Messina era crollata
insieme agli antichi palazzi.
Mai come in questo caso si può
affermare che nulla fu più come prima.
E così è giunto fino a noi questo
ricordo della storia di una vita di 108 anni fa, una vita che aveva incrociato
un evento naturale e storico al cospetto del quale l’umanità fu davvero messa alla
prova!
Chiara Marino
– Fonti e approfondimenti:
J. DICKIE, Una catastrofe patriottica.
1908: il terremoto di Messina,
Ed. Laterza, 2008.
F. MERCADANTE, Il terremoto di Messina, Ed. Anastatica, 1962.
A. SINDONI, Memoria e tesimonianza nel
centenario del terremoto di Messina 1908-2028,
Ed. Rubbettino, 2012.
P. SAITTA, Quota zero. Messina dopo il
terremoto: la ricostruzione infinita,
Ed. Donzelli, 2013.