Lettera del Parroco
Notizie dal museo
Nomadelfia a Bardonecchia: quando conobbi don Saltini
Il pane benedetto
(Simone del Savio) Il piccolo corista di Melezet ha fatto strada...
Ricordo di Gildo Nuvolone
I restauri della chiesa di S. Lorenzo
Fotografare gli animali... un arricchimento interiore senza confini!
“Arboreto Selvatico”: Eugenio Bolley espone
Doppio furto alle cappelle di Millaures
Festa al Cotarlau
Restauri alla cappella di San Claudio
Strettoia di Millaures
Furti nelle cappelle
Sant’Andrea 2008
Ricordare Rochemolles, 25 anni dopo
Il gipeto Argentera è tornato in libertà
Lettera del
Parroco
Il Bollettino
si apre, per consuetudine, con questa “Lettera del Parroco”, nella quale si
possono trattare vari argomenti, ma in generale ci si limita all’orizzonte delle
nostre comunità.
Vorrei, ancora
una volta (non è una novità, purtroppo!) tornare sul problema della mancanza di
sacerdoti, perché in questi ultimi tempi si è fatta più grave e con conseguenze
pratiche per la vita delle nostre parrocchie.
Guardiamoci
intorno: a Bardonecchia non c’è più il viceparroco don Antonello che non
mancava di darci un aiuto quando ne avevamo bisogno, per assicurare le funzioni
nelle varie parrocchie della zona, i Frati Francescani al Convento sono ridotti
ad una sola presenza nei fine settimana, e pur essendo Padre Mauro sempre disponibile,
non può neppure lui fare miracoli! Quanto sono lontani i tempi in cui i Frati
erano almeno 2 o 3 e noi beneficiavamo della loro presenza!
Quest’anno poi
sono mancati due religiosi che erano a noi strettamente legati: Padre
Giampietro, sempre disponibile a prestare l’aiuto richiesto con tanta generosità,
e Padre Diego, bardonecchiese di origine, che era presente almeno nelle vacanze
alla “sua” Bardonecchia e, per noi, per tanti anni ha portato la Messa nelle
festività del Ferragosto al Campeggio Bokky al Pian del Colle.
Sovente delle
persone mi dicono: «Quando vediamo qualche funzione da Roma, con il Santo
Padre, sono decine e decine i sacerdoti che vi presenziano... perché tutti a
Roma, mentre noi siamo nelle difficoltà?».
La risposta
non è difficile «Molti sono alunni delle Università ecclesiastiche della
capitale, sono a Roma per qualche anno, poi terminati gli studi fanno ritorno
alle loro nazioni».
Di fatto
alcuni vengono da noi per un aiuto nelle feste natalizie e pasquali, come i
polacchi a Bardonecchia, Sestriere e Sauze
d’Oulx.
Bisognerebbe
(ma non tocca a me la soluzione di questo problema) prendere qualcuno in aiuto
stabile, come già è stato fatto in alcune Diocesi, tra cui la Diocesi che più
si avvicina alla nostra: Pinerolo...
Non possiamo
qui dimenticare mons.Claudio Jovine, che La grande e bella statua ottocentesca
ci presta il
suo servizio a Natale e Pasqua, e don Giancarlo della “Madonna di Melezet”.
Biguzzi che
nel mese di agosto è a tempo pieno al servizio del Melezet: ci auguriamo che
questa presenza abbia a continuare!
Recentemente
un giornale di Torino ha parlato di sacerdoti del Madagascar in aiuto ai preti
valsusini: ma si tratta di un progetto che non pare di immediata soluzione, mentre
le necessità sono sempre più urgenti!
Perché parlo
di questo? Perché vedo Natale nella nostra chiesa.
(anche per
l’avanzare della mia età) che ci saranno problemi per assicurare il servizio
finora prestato, anche se già ridotto e, come già capitato, in alcuni casi sarà
necessario cambiare l’orario delle Messe o sopprimere altre celebrazioni.
Eppure a volte
pare non ci si renda conto delle difficoltà del momento e ci si lamenta perché
non ci sono alcune celebrazioni che si tenevano un tempo, quando Melezet,
Millaures e lo stesso Rochemolles avevano
un Parroco tutto per loro.
Il Vescovo ci
dice che i laici devono supplire i sacerdoti nelle mansioni che possono
esercitare e di fatto questo almeno in parte avviene. Bisognerà sviluppare maggiormente
questo impegno a favore della comunità, abbandonando la mentalità che la
parrocchia è del Parroco e tocca a lui fare tutto, anche le mansioni materiali.
Segnalo ancora
una volta la lodevole iniziativa delle donne di Millaures, che nei mesi di
maggio e ottobre recitano il Rosario e nei venerdì di Quaresima celebrano la Via
Crucis: non è possibile fare altrettanto in altre parrocchie?
Poi... le
vocazioni sono proprio una realtà ormai scomparsa dai nostri paesi?
Se mancano è
perché viviamo in un mondo in cui contano altri valori che non quelli dello
spirito e i giovani sono attratti da miraggi di guadagni e di successi che la
vita consacrata al Signore non può dare. Le cause sono molte, ma forse noi (e i
preti per primi) abbiamo rinunciato a proporre modelli di vita che sembrano
sorpassati, mentre sono ancora di oggi, perché il Vangelo non invecchia.
Concludendo
questa chiacchierata, vorrei dire: pregate per il vostro Parroco perché il
Signore gli dia salute e possa ancora continuare a fare quel poco che oggi gli riesce
di fare e, come ci ha insegnato il Signore, preghiamo tutti il Padrone della messe
perché mandi operai nella sua messe. Nella certezza che il Signore non abbandonerà
la sua Chiesa!
Il vostro Parroco: don Paolo
La croce tracciata sulla forma di pane. (foto omessa)
Wanda Nuvolone
I restauri della chiesa di S. Lorenzo
Notizie dal museo
Da tempo siamo
abituati a fare visitare il nostro Museo di Arte Sacra a utenti vari, dai semplici
appassionati di arte, agli studiosi che provengono anche da lontano, ai
giornalisti che includono il museo di Melezet tra i più importanti tesori della
conca di Bardonecchia, o ai sempre più numerosi titolari di carta “Abbonamento
Musei Piemonte” ed ogni volta cerchiamo di fare il possibile per valorizzare
tutte le opere che esso ospita. Recentemente, però, il nostro ente ha ampliato
i propri servizi. Alcuni privati hanno consegnato al museo una serie di fondi
librari che, con una accurata pulitura e catalogazione, potrebbero,
in futuro,
essere fruiti da un pubblico interessato. Tra i donatori troviamo la sig.ra
Natalina Begnis, originaria di Melezet ed erede di Alfredo Begnis, sacerdote
ordinato nel 1898.
Ella ha voluto
lasciare in custodia al museo l’intera collezione tramandata per generazioni nella
casa natale. Si tratta, per la maggior parte, di testi sacri e di teologia, ma
vi è anche un volume raro ed importante per la ricostruzione della storia
locale; si tratta di una pubblicazione del 1912 intitolata “L’alta valle di
Susa” e scritta da un sacerdote: Peracca Luigi Francesco, storico contemporaneo
di don Begnis. Anche la sig.ra Lidia Vachet ci ha consegnato un ricco fondo
ereditato dalla sua famiglia; numerose sei centine, sette centine e testi ottocenteschi,
quasi tutti in lingua francese, pubblicati a Parigi e Lione, ma anche a
Venezia, Milano. La signora Emma Rosso Pognant, pronipote di don Pietro
Massimino Vallory,
Parroco di
Melezet agli inizi del 1900 si è interessata presso il Parroco don Gian Paolo
Di Pascale ed ha deciso di lasciare al museo una serie di volumi di sua
proprietà che hanno completato quelli già in possesso dalla Parrocchia di S.
Antonio Abate. Tutti questi testi sono collocati presso la casa parrocchiale di
Melezet, in un locale adeguato alla conservazione, messo gentilmente a
disposizione dal nostro Parroco. Evidenziamo, così, l’importanza della
salvaguardia di antichi testi o manoscritti utili a studi e ricerche in ambito locale,
ci rendiamo disponibili a nuove acquisizioni (non buttate nulla!) e vi
invitiamo a
collaborare
per la manutenzione e la gestione di queste opere preziose.
Ricordiamo,
inoltre, che la campagna restauro statue continua, grazie ai preziosi contributi
della Compagnia di San Paolo, degli abitanti di Rochemolles, del Comune di Bardonecchia
e del Centro Culturale Diocesano Susa attraverso la vendita del testo “Tempi
del sacro, tempi dell’uomo”.
Hanno già
riacquistato il loro originario splendore la statua “Madonna col Bambino” -
Rochemolles,
“Madonna col
Bambino” - N. D. Coignet e altre tre statue di dimensioni inferiori. A breve
sarà completato
il restauro
della statua di S. Rocco, che potrà così tornare alla propria cappella in
occasione della festa del
Santo.
Daniela Mainardi - Valeria Bonait
190
Parrocchia S. Antonio Abate
MELEZET
Nomadelfia a
Bardonecchia: quando conobbi don Saltini
Nella
primavera scorsa la televisione nazionale ha trasmesso la fiction sul fondatore
di Nomadelfia, don
Zeno Saltini,
“Don Zeno, l’uomo di Nomadelfia”, e poi a dicembre il documentario “Don Zeno
tra realtà e
fiction”.
La parola
“Nomadelfia” deriva dal greco e significa: “legge della fraternità”. È il nome
di un popolo di
volontari
cattolici che vivono insieme per costruire una nuova civiltà fondata sul
Vangelo, civiltà in cui non sono presenti ospizi, orfanotrofi, disoccupati,
emarginati e senza tetto.
Oggi è una
popolazione di 300 persone, 40 famiglie che abitano su un territorio di 40 km.
quadrati vicino a Grosseto, in Toscana. A Nomadelfia vivono Don Zeno Saltini,il fondatore di Nomadelfia.
due tipi di famiglie: madri di vocazione e sposi.
La cellula di
questo nuovo popolo non è la famiglia isolata ma il gruppo familiare, centro di
amore aperto al mondo; ogni gruppo familiare è composto di tre-quattro famiglie,
trenta persone circa.
A Nomadelfia
non circola denaro e non esiste proprietà privata, tutto è in comune; ognuno
produce secondo le sue capacità e riceve secondo le sue esigenze. Uomini e donne
lavorano nelle aziende, in casa, nei laboratori e negli uffici della comunità, mentre
i figli vanno a scuola. Tutti i lavori che si possono compiere insieme vengono eseguiti
da tutta la popolazione.
Il fondatore,
don Zeno Saltini, nasce a Fossoli di Carpi (Modena) nel 1900; dopo la laurea in
legge entra in Seminario e nel 1931 è sacerdote. Agli inizi degli anni ’30 comincia
ad accogliere come figli alcuni fanciulli abbandonati, prima nella canonica di
San Giacomo Roncole, poi in un grande palazzo chiamato il “casinone”.
Nel 1933 nasce
“l’opera piccoli apostoli” e don Zeno crea le prime “famiglie” che in mancanza
delle mamme sono affidate ai giovani più maturi e poi alle “mamme di vocazione”.
Dopo il periodo buio della guerra, nel quale don Saltini e i suoi furono
perseguitati e dispersi, i piccoli apostoli occupano l’ex campo di
concentramento di Fossoli e lo rendono abitabile, siamo nel 1947, sono in 380
con 28 famiglie.
Gli anni ’50
vedono nuove sofferenze per don Zeno e la sua gente: guai economici e
giudiziari, si incontra l’ostilità e il sospetto delle autorità. I piccoli
apostoli – che nel frattempo si sono denominati Nomadelfia – devono nuovamente
disperdersi e don Saltini deve addirittura lasciare il sacerdozio, che
riprenderà nel 1962. Fu in questi anni che i Nomadelfi si trasferiscono
definitivamente in Toscana, in una tenuta che
la signora
Pirelli aveva loro donato dando vita all’attuale Nomadelfia
191
Nel 1976
l’opportunità di utilizzare la casa alpina degli scout a Melezet offrì
l’occasione a don Zeno e ad un gruppo dei suoi di trascorrere tra le nostre
montagne un periodo di una quarantina di giorni. I giovani studiavano nei
locali della vecchia scuola, sciavano e visitavano diverse località della
valle; familiarizzarono con la gente del posto che donò loro sci e scarponi.
Ricordo don Zeno che celebrava la Messa nella chiesa parrocchiale con don
Masset e le serate che noi ragazzi trascorrevamo con loro.
Insomma, fu
un’esperienza che lasciò un profondo ricordo sia in noi che in loro. Don
Saltini morì quattro anni dopo ma continua a vivere nella civiltà che ha creato:
«Una realtà che si ispira al modello degli Atti degli Apostoli», come dirà
Giovanni Paolo II durante la sua visita a Nomadelfia il 21 maggio 1989.
Romano
Nuvolone
Il pane
benedetto
«Dacci oggi il
nostro pane quotidiano», questa è la preghiera che Gesù ci ha insegnato di
rivolgere al Padre.
Il pane,
principale alimento di tutti i popoli, è dono di vita tanto che Gesù stesso ha
voluto essere Pane per tutti noi.
Le genti delle
nostre valli hanno da sempre nutrito per il pane un senso di rispetto e quasi
di venerazione tanto che nella vita di ogni giorno, quando ancora in famiglia si
faceva il pane, prima di venire posta a cuocere nel forno comunale la forma di
pane veniva incisa sulla superficie da una croce non solo per facilitarne la
cottura ma anche in segno di benedizione, così come prima di venire tagliata
per essere posta sulla mensa la forma di pane veniva incisa a forma di croce
con la punta del coltello così che il pane era come una benedizione della
mensa.
Nel corso di
alcune celebrazioni liturgiche, come per la festa del Santo Patrono, per la
Pasqua o altre
solennità
secondo le tradizioni, gli usi e i costumi, veniva offerto il pane benedetto
che, dopo essere stato tagliato a piccoli pezzi in sacrestia, veniva posto ai
piedi dell’altare, benedetto durante la Messa e al
termine del
rito veniva offerto a tutti come simbolo di convivialità, amicizia, carità e
condivisione. In
alcune
località il pane veniva confezionato e offerto dalle ragazze del paese; in
altre le famiglie stesse
provvedevano a
turno a mantenere viva questa bella tradizione.
La tradizione
vuole che l’usanza del pane benedetto sia sorta. nelle nostre valli nei tempi
in cui infieriva la peste; le famiglie ne prendevano abbastanza, lo custodivano
in casa e ne tenevano un pezzettino in tasca per essere consumato quando si
veniva colpiti dal male e poiché la peste faceva cadere le sue vittime come le
mosche, nel mangiare il pane si diceva: «Pan bènit, moi je vous prends et si la
mort me surprend, on me servira comme sacrement».
Ancora oggi,
in occasione di particolari solennità, il pane viene benedetto durante la Messa
e offerto all’uscita dalla chiesa in segno di amicizia e di fraternità e non ci
rimane che sperare che questa bella tradizione non venga a poco a poco a
perdersi ma continui e si rinnovi.
Il piccolo
corista di Melezet ha fatto strada...
Il piccolo
cantante di Melezet dalla potente voce baritonale, al secolo Simone del Savio,
ha fatto strada. Dall’ex coro diretto da padre Stefano, Simone, oggi
ventottenne, ha conquistato i palcoscenici lirici europei diretti nientemeno
che dalla bacchetta di Riccardo Muti. Al Festival Internazionale di Salisburgo
nello scorso mese, infatti, Simone ha cantato in Otello, diretto dal grande
Maestro, per ben sette recite, interpretando
il ruolo di Montano. La sua vita artistica, iniziata cinque anni fa con l’opera
“Il Barbiere di Siviglia” nel ruolo di Bartolo, rappresentata per dieci recite
in Lombardia, è proseguita con un continuo crescendo.
Ha iniziato i
suoi studi in Francia sotto la guida del maestro Maurice Bourbon, presso la
Poliphonie vocale en Cevennes. Ha proseguito con il maestro Valter Carignano,
direttore artistico dell’associazione “L’Opera Rinata”. Nel 2004 si è diplomato
in canto lirico al Conservatorio di Torino ottenendo il massimo dei voti, 10/10 con lode. Si aggiudica
poi il prestigioso concorso “Toti Dal Monte” a Treviso, risultando unico
vincitore, nell’opera “Don Pasquale”, nell’interpretazione del dottor Malatesta.
Il 2006
rappresenta per Simone il salto di qualità. Canta al Verdi di Trieste, a
Klagenfurt nell’opera “Don Giovanni” nella parte di Leporello e per la prima
volta varca le porte del Teatro Regio di Torino con “Manon Lescaut”. In
primavera vola in America, e a Minneapolis canta in “Così fan tutte” nella
parte di Guglielmo. Nel 2007 a Bologna interpreta il ruolo di Marcello nella
Bohème, e finalmente al tempio della lirica italiana, “La Scala”, in “Madama
Butterfly”. Sempre nello stesso anno per una ripresa
dell’ultima
regia di Strelher interpreta Don Alfonso in “Così fan tutte”. E arriviamo all’aprile
di quest’anno al Regio di Torino in “Lucrezia Borgia” e l’appassionante avventura
austriaca dell’agosto scorso con Riccardo Muti.
«È veramente
emozionante essere guidati dal Maestro – commenta Simone – si percepisce subito
la sua grande passione per la musica che trasmette con grande semplicità,
supportata da rigore e autorevolezza». «Come tutti coloro che lavorano in questo
ambiente anch’io spero che la carriera duri tanto – precisa con entusiasmo Simone
–. E ciò dipende essenzialmente dalla salute, ma anche dalla moda e da quanto i
governi di ciascun Stato siano disposti a finanziare l’arte della lirica. In
Austria è molto sentita. A Salisburgo c’è gente che spende cifre astronomiche
per una prima.
In America c’è
rispetto. In Italia la lirica è incompresa, viene considerata noiosa. Benché
sia nata proprio in Italia, non ha molti proseliti, forse se n’è persa la
cultura. Fortunatamente ci sono ancora teatri come il Regio di Torino, dove sia
l’appassionato che il cantante si trovano a proprio agio e sono molto
coccolati, è veramente ben organizzato». Secondo Simone un’opera si apprezza
vedendola dal vivo, non nel piccolo
schermo: «La
scenografia, la musica e l’atmosfera, che tutto il cast crea, riescono a trasmettere
forti emozioni».
Per il
baritono bardonecchiese la stagione 2008/09 sta per prender il via. A dicembre
sarà Sassari in Bohème, poi a gennaio a Bologna con l’opera “I Puritani”, in
primavera a La Scala e a luglio al Regio di Torino in “Adriana Lecouvreur”.
Luisa Maletto
RICORDO DI
GILDO NUVOLONE
Una foto emblematica: Gildo Nuvolone davanti alla cappella del Monte Tabor. |
Don Paolo mi ha chiesto di scrivere un ricordo di mio papà, vi
assicuro che non è facile. Ci proverò, anche se le lacrime e i ricordi fanno
subito capolino e la razionalità che serve in queste situazioni sparisce in un
attimo.
Papà è nato a
Melezet il 1º giugno del 1927 ed è mancato il 28 luglio 2008, dopo tre mesi
molto difficili tra ospedale e casa, dove è stato praticamente costretto sempre
a letto. Da circa 10 anni era affetto da una forma di leucemia che
principalmente viene alle persone anziane. Per sua fortuna la malattia,
soprattutto nei primi anni, lo ha lasciato “tranquillo” permettendogli di
condurre una vita serena e attiva,
pur con
continui controlli mensili.
Raccontarlo in
poche righe è veramente difficile, ma poiché il giorno del funerale ho chiesto
a Giorgio Agagliati di leggere alcune righe che ho voluto dedicargli, sento che
riproporre quanto ho scritto al momento sia la cosa più giusta da fare.
Papà.
Io ti ricordo
con mamma in quella foto di 50 anni fa del vostro viaggio di nozze a Sanremo.
Lì, davanti a
quella statua bianca. Un’immagine ancora in bianco e nero.
Io ti ricordo
nei prati a fare il fieno, nel giardino in mezzo alle tavolette di insalata e
alle righe di patate o a togliere il miele dagli alveari. Che profumo che aveva!
Io ti ricordo
con lo zaino in spalle: avevo solo 8 anni quando mi hai portata per la prima
volta al Tabor. Quante passeggiate abbiamo fatto insieme!
Io ti ricordo
in quelle domeniche d’estate quando con mamma e Romano si andava a fare pranzo
nei prati.
Io ti ricordo
quando alla sera preparavi lo zaino, il fucile, il binocolo e uno spuntino dove
non mancava mai l’uovo crudo, per andare a caccia con i tuoi amici. Quanti
scherzi gli hai fatto! Tornavi sempre sorridente e con la luce delle tue montagne
negli occhi.
Quando io e
Romi ci siamo sposati, ci sei stato vicino e hai amato subito Giorgio e
Valeria.
Io ti ricordo
in ospedale, quando è nato il tuo primo nipotino, a piangere di gioia davanti
al vetro della nursery. Non da meno quando sono nati Irene e Samuele.
Io ti ricordo
con lo scalpello in mano o al tornio, intento a fare orologi, pendoli, mortai e
a scolpire la Pietà.
Io ti ricordo
con i tuoi tre nipoti... “le tue Coccinelle”, eri già stanco, ma un sorriso e
una carezza per loro non mancava mai.
Nella malattia
non ti sei mai lamentato, ci hai sempre sorriso, ma più di tutto hai sorriso a
quell’infermiera
speciale che si chiama Clementina.
Potrei dire
altre 1.000 pensieri, ma per me il più importante è questo: “grazie Papà”, dal profondo
del cuore, per essere stato con noi e per esserti fatto volere bene da tanta
gente.
Nonno Gildo,
sei stato un papà speciale.
* * *
Vorrei anche
approfittare di questa occasione per ringraziare quanti ci hanno aiutato e ci
sono stati vicini nei giorni difficili della malattia: i parenti, gli amici,
l’associazione Luce per la Vita, i medici e infine don Paolo, che gli ha fatto
il regalo di somministrargli l’Olio degli infermi.
Parrocchia S.Lorenzo
Martire
LES ARNAUDS
La chiesa di
San Lorenzo a Les Arnauds risale al XVIII secolo e venne completamente
ricostruita su una chiesa precedente della quale rimane il campanile romanico
del 1300. Le sue pietre hanno visto scorrere secoli di storia e di vita
comunitaria e negli ultimi anni, grazie al contributo della Parrocchia e di
tutta la Comunità ha subìto importanti e doverosi restauri. Prima il tetto, poi
le pareti esterne, il campanile, gli intonaci interni, il retable.
Nella primavera 2008 i lavori hanno interessato
il pavimento in legno e l’impianto di riscaldamento. Per diversi mesi il
falegname Franco Gautier e l’idraulico Giulio Guillaume, Marco Vachet con i due
figli Enrico ed Emiliano ed altri operai del Consorzio agricolo Assomont, Paolo
Marre ed i cantonieri del Comune di Bardonecchia, Riccardo Lantelme e Giulio
Alimonti, si sono alternati nei lavori di restauro: smontaggio dell’antico ed
ormai deteriorato pavimento in legno, scavo e risanamento, riempimento con
inerti, posizionamento
igloo in plastica per consentire un’adeguata areazione, istallazione del nuovo
impianto di riscaldamento a pavimento, sistemazione tavolato in larice e
lucidatura. Si è colta l’occasione delle successive grandi pulizie per
restaurare gli arredi in legno, il confessionale, il portone, vari mobili, e
per restituire alla chiesa la bella balaustra in legno davanti all’altare,
un’antica cassapanca ed un sprezioso leggio seicentesco del tutto simile a quello
situato nella parrocchiale di Sant’Ippolito.
La Ditta
Romanello ha provveduto al rifacimento totale del calore della navata,
risanando le parti deteriorate dall’umidità. Dobbiamo pure ricordare la Ditta
Roude Emiliano che ha provveduto alla costruzione
e alla posa della ringhiera della scala della tribuna in ferro battuto, come
pure del parapetto
al piano
offrendo generosamente il lavoro a favore della nostra chiesa: lo ringraziamo
pubblicamente!
La chiesa
messa a nuovo, il 14 luglio ed il 30 agosto ha ospitato il Battesimo dei due
più giovani abitanti del paese: Sebastiano Marre ed Emilie Vachet, nati nel
mese di marzo a pochi giorni di distanza.
Il
ringraziamento è per tutti quelli che si sono in qualche modo adoperati per la nostra
chiesa, in modo particolare al sig. Marco Vachet, che ha preso a cuore l’opera e
l’ha seguita nelle sue varie fasi, sino alla felice conclusione.
La chiesa di
Les Arnauds è oggi un piccolo gioiellino, ammirato da tutti
G.L.
Fotografare
gli animali...
un arricchimento interiore senza confini!
«Avevo
all’incirca quindici anni quando incontrai per la prima volta un cervo», così racconta
Paolo Marre, fotografo naturalista bardonecchiese, nella sua accogliente casa
di Les Amauds, dove la presenza di numerosi palchi caduchi di cervo e di
splendide fotografie di animali testimonia il suo amore per l’intera fauna.
«Ero in bicicletta – continua Paolo –, stavo scendendo dalle grange La Rhô,
dove ho una baita, quando un maestoso esemplare mi attraversò la strada. Rimasi
estasiato. Un ricordo indelebile.
È scattata una
magica scintilla che ha trasformato la mia vita adolescenziale. Da allora ho
iniziato a seguire questo magnifico animale, dapprima con il binocolo poi con
l’obiettivo fotografico».
Paolo Marre
non si definisce un professionista della fotografia. È semplicemente un amante
della natura. «Prima di fotografare occorre conoscere il territorio – commenta
con entusiasmo –, poi imparare le abitudini di vita dell’animale. La sua vita è
scandita dal corso delle stagioni. Occorre scoprire dove sverna, dove si
accoppia, dove partorisce, dove si nasconde, dove pascola».
Ma vediamo
come è iniziata la passione per la fotografia.
Una ventina di
anni or sono, Marre entra in amicizia con Massimo Sebastiani, noto fotografo Bardonecchiese, fino a qualche anno fa
titolare di un’attività in via Medail di sviluppo e stampa, che diventerà suo
maestro. Si iscrive ad un corso di fotografia, organizzato da Sebastiani nel
Parco del Gran Bosco di Salbertrand e qui conosce Corrado Gamba, pioniere della
fotografia naturalistica in Alta Valle, oggi Consigliere del Parco.
Giunge
finalmente il gran momento dell’acquisto di un’attrezzatura. Per la grande varietà
di pellicole con diversa sensibilità si rende necessario per Paolo la disponibilità
di due corpi macchina e di una serie di obiettivi, semi-professionali.
All’avvento
sul mercato del digitale, Marre si trattiene a lungo prima di decidere la
svolta: «Le prime digitali non davano i risultati desiderati, per cui ho
atteso. Diciamo che ho trascorso qualche anno di transizione, combattuto tra
l’abbandono della macchina tradizionale e l’acquisto della digitale. Poi ho
fatto il grande passo». Da due anni circa Paolo possiede un’attrezzatura
professionale digitale reflex con obiettivi intercambiabili.
Illustrando le
modalità fotografiche, sottolinea che personalmente non si accontenta di
rimanere nel capanno, classica tecnica utilizzata dal professionista, dalla cui
attività deve trarne un reddito. «Occorre una pazienza mostruosa, che non ho –
prosegue Paolo –, a me piace girovagare. Per me la fotografia deve essere un
divertimento, non un impegno. Sono più propenso al colpo di fortuna. È chiaro
che non vado a caso. Avendo approfondito i modi di vita dell’animale che voglio
fotografare, con una buona dose di probabilità, riesco a trovarlo. Tengo a
precisare che è molto importante non disturbare l’animale. Mi piace avvicinarlo,
ma fargli capire che lo rispetto. È una grande soddisfazione quando riesco a riprenderlo
senza farmi notare, ma se capisco che lo sto disturbando rinuncio allo scatto.
È chiaro che il pizzico di fortuna dipende
molto dal momento. Il principale problema per il fotografo naturalista è la
luce. All’alba, al tramonto e nel sottobosco, situazioni più favorevoli per
l’avvistamento degli animali, è scarsa. Le stagioni sono tutte buone, ma
occorre fare una distinzione. L’inverno è, come si sa, spettacolare. Una
fotografia scattata in presenza di neve ha senz’altro il suo fascino. Siccome,
poi, gli animali sono in cerca di cibo scendono dalle vette più alte, quindi è
più facile incontrarli, ma la neve crostosa rende più difficile e rumoroso
l’avvicinamento.
Se parliamo di
primavera allora è il tempo delle nascite. E qui ribadisco che è importante non
disturbare la femmina quando partorisce, o quando allatta. È una fase di vita
che incanta, ma anche la più delicata. L’estate è la stagione che meno
preferisco per fotografare. Gli animali sono più dispersi e la presenza di
numerosi turisti li rende più sospettosi. Poi arriva l’autunno, la stagione
degli amori del cervo. Avventurarsi nei boschi tra i bramiti è un’esperienza
emozionante e riuscire a fermare questi attimi è
una grande
soddisfazione».
Paolo, che si
considera un cervo-dipendente, finora ha al suo attivo una nutrita documentazione
fotografica, dagli ungulati ai volatili, dalle marmotte ai lupi. Tra gli ungulati
il più docile è lo stambecco. Animale protetto, preferisce i luoghi rocciosi, non
fugge alla presenza dell’uomo, anche perché non è cacciato. È stato
reintrodotto negli anni Novanta nel vallone del Galambra, sopra Exilles, ed ha colonizzato successivamente la Valle di
Rochemolles. Il camoscio è bello da fotografare in inverno grazie
al suo pelo
lucido nero e folto. È da sempre presente sulle nostre montagne. «In passato,
ai tempi dei miei nonni, anni Venti/Trenta ma anche fino agli anni Quaranta, il
camoscio sopperiva al fabbisogno familiare, oggi viene cacciato solo per
divertimento», puntualizza Paolo con un po’ di rammarico. Il cervo ed il
capriolo, estinti nel ’700, sono stati reintrodotti a scopo venatorio nel
territorio dove ora è sito l’attuale
Parco del Gran
Bosco.
E quando si
parla di lupo, a Paolo si illumina il viso: «È elettrizzante poter incontrare
il lupo e riuscire a fotografarlo. Contrariamente all’immaginario collettivo il
lupo ha paura dell’uomo, per cui fugge al minimo rumore ed è difficilissimo da
vedere.
Quattro anni
fa in pieno inverno ho avuto un incontro ravvicinato con due lupi in zona Tre
Croci. Mi trovavo a 15 metri da loro, ero senza fiato e sono riuscito a fare un
solo preziosissimo scatto. Nell’autunno precedente, per la prima volta, ne
avevo binocolati alcuni nella valle dell’Almiane sopra Rochemolles. Da allora i
miei sforzi sono stati premiati da numerosi altri avvistamenti ma da scarsi
risultati fotografici».
Il discorso
poi si sposta sui volatili. Paolo ricorda la bellissima esperienza vissuta quest’inverno
con il Gipeto Argentera, prima il soccorso poi il rilascio: «Non mi era mai
capitato di avere un incontro così ravvicinato con un gipeto, anche perché qui
nella conca si rileva un’elevata concentrazione di aquile. Si sa che spesso
entrano in contrasto.
Difficilissimo
è avvicinare un volatile. A questo punto la tecnica del capanno è l’unica
risorsa.
Nella conca ci
sono due coppie di aquile nidificanti. Una volta accoppiate rimangono fedeli per
tutta la vita».
Curioso un
episodio raccontato da Paolo su di una vecchia coppia: «Qualche anno fa la femmina si ruppe un’ala, venne recuperata e
portata in un centro riabilitativo, ma non tornò più. Il maschio, allora, si
cercò un’altra femmina con la quale nidificò. Proprio l’anno scorso
quest’ultima venne molto disturbata dai fotografi, ma nonostante ciò, terminò
la covata e di conseguenza la crescita dei suoi due piccoli che sopravvissero.
Rischiosa per
l’incolumità dell’aquila è la scoperta del suo nido da parte di osservatori senza
scrupoli. Se l’aquila viene disturbata abbandona il nido e di conseguenza la covata.
La mortalità degli aquilotti è elevata».
Paolo Marre
nel corso degli ultimi anni ha avuto l’occasione di esibire le proprie foto
presso sale espositive e di illustrare in numerose conferenze specifiche le
tecniche di osservazioni e di fotografia.
Luisa Maletto
“Arboreto
Selvatico”: Eugenio Bolley espone
In un clima
perfettamente prenatalizio, folla di turisti e neve abbondante, sabato pomeriggio
Eugenio Bolley ha tagliato il simbolico nastro della stagione con l’apertura
della sua mostra, dal titolo “Arboreto Selvatico: i colori del fuoco rovente
nella conca di Bardonecchia”. Il noto pittore bardonecchiese, che si è ispirato
ai caldi colori dell’autunno, così ha commentato: «C’è un momento in cui, nella
conca, soprattutto
sulla dorsale
della Melmise e nella Valle del Frejus, migliaia di ciliegi si colorano di rosso,
quasi a rappresentare un colossale incendio, tra il verde cupo dei pini e degli
abeti, le bianche betulle, l’arancio dorato degli aceri, il verde marcio dei
frassini ed il ramato sfumato dei larici. A questa mostra pensavo da sei anni e
per sei anni ogni autunno durante le mie passeggiate quotidiane mi riempivo gli
occhi, la mente ed il cuore di colori».
«A
Bardonecchia abbiamo visto sfilare tanti campioni di sport, ma abbiamo un unico
campione dell’arte, il maestro Eugenio Bolley – ha così sottolineato il Sindaco
Francesco Avato –; gli siamo grati per aver scelto come sua residenza,
trentacinque anni fa, la nostra cittadina. Con la sua presenza e con il suo
lavoro, valorizza il luogo in cui viviamo e contribuisce alla crescita del
paese, attraverso l’azione di stimolo a
politiche
attente sotto il profilo ambientale e dei diritti civili». L’esposizione,
allestita nel foyer del teatro, accosta ai dipinti dedicati all’autun- no alcu
ni celebri Urogalli e Bardogalli, frutto della fantasiosa arte di Bolley, come tempo
fa commentò Mario Rigoni Stern: «Un uomo che va a cercare i vecchi arnesi di
lavoro e li fa uscire dal buio dei tempi; con mano delicata leva le ragnatele e
il deposito del tempo, li guarda e li osserva commosso e nella luce del sole li
fa rivivere come solo l’arte sa concepire ...». E
proprio alla
memoria del famoso scrittore, di Giorgio Calcagno e di Primo Levi, suoi grandi
amici, Eugenio Bolley ha voluto dedicare la mostra.
Nel corso
dell’ inaugurazione il Maestro, sempre molto sensibile a particolari e tristi
casi della vita, ha informato che il ricavato della vendita del catalogo andrà
a coprire in parte le costose cure riabilitative di uno sventurato giovane.
La mostra è
stata visitabile nei giorni dal 27 dicembre 2008 al 12 gennaio 2009.
Luisa Maletto
Parrocchia S.Andrea apostolo
M I LL AU R E S
Doppio furto alle cappelle di Millaures
Per le cappelle di Bardonecchia non c’è
pace. Ancora una volta sono state saccheggiate. Alcune settimane fa, di notte,
i ladri hanno compiuto un doppio furto nella frazione di Millaures, a carico
delle cappelle di S. Sebastiano in borgata Rochas e di S. Pietro Apostolo in
borgata Mey, il cui bottino è stato più cospicuo. Mentre in quelle di San Sebastiano
sono stati sottratti due vasi portafiori, una testina d’angelo e otto stampe
con cornice, il tutto risalente al 1800, in quella di S. Pietro numerosi
oggetti di grande valore artistico attribuibili ad epoche comprese tra il 1600
ed il 1800: tre cornici in legno dorato; undici dipinti, di cui, uno
seicentesco raffigurante il fondatore della cappella, Pierre Allemand, otto con
soggetti di fiori e due con immagini sacre; tre carte gloria;
due candelieri e quattro reliquiari in legno scolpito dorato; un messale antico
del 1849; un salterio romano del 1862.
Sia i custodi delle cappelle che il Parroco
don Paolo Di Pascale non riescono a capire come i ladri conoscessero bene sia la presenza che il valore di
questi oggetti, in quanto le cappelle, durante l’anno, sono sempre chiuse,
eccetto il giorno della festa patronale, celebrata con una Messa. Il 20 gennaio
per S. Sebastiano e il 29 giugno per S. Pietro.
La cappella di S. Sebastiano risale al
1675, ma è stato completamente ristrutturata nel 1800. È costantemente curata,
come un gioiellino, dai suoi abitanti. Sono loro stessi che si occupano dei
lavori di restauro. «Probabilmente – afferma Claude Allizond, nato in Francia,
ma figlio di nativi del luogo –, i ladri quella notte sono stati disturbati
perché il bottino è stato esiguo. Tutti noi siamo profondamente rammaricati, è
come se fossero entrati in casa nostra. Ora la porta, scardinata con un piede
di porco, è stata rinforzata con un’ulteriore serratura, ma il danno c’è stato
e anche se sono oggetti tutti censiti ed inseriti in rete, nutriamo poche
speranze di ritrovamento». La cappella di S. Pietro ha una storia ancora più
antica. Fatta costruire dalla ricca famiglia Allemand nel 1600 con i migliori
materiali – il tetto in lose è ancora quello originario –, ha rappresentato
sempre un punto di riferimento per la piccola comunità. Nell’edificio aveva
trovato posto anche la scuola elementare.
Naturalmente il Parroco ha sporto denuncia
presso i Carabinieri del Comando locale, che attualmente stanno conducendo le
indagini di rito.
Luisa Maletto
Festa al Cotarlau
«Notre Dame du Bon Secour priez pour nous. Nous avons recouru à Vous. Nous
diron toute la vie vive Jèsus et vive Marie».
Con queste semplici ma significative parole
datate 1727 si apre a noi la piccola chiesetta di Cotarlau, dedicata a Maria
Ausiliatrice. In questo luogo tra abeti e pini secolari regnano una pace e una
serenità molto particolari, che fanno sì che questa cappelletta di montagna,
casa della Mamma di Gesù, rimanga sempre nel cuore degli abitanti di Millaures,
Gleise, e le altre frazioni, a lei molto devoti, e ai villeggianti che per la
prima volta arrivano a Cotarlau.
Questa devozione si esprime ogni anno il 2
luglio con la processione dei fedeli e l’arrivo a Cotarlau. Celebrata la Santa
Messa, è tradizione che venga benedetto il pane e poi distribuito ai presenti.
Esprimiamo un sincero ringraziamento a don Paolo che con passione e dedizione
contribuisce ogni anno a mantenere viva questa antica usanza e con le sue
parole chiede a Maria Ausiliatrice protezione per tutti noi.
A memoria del cav. Enrico Bassi, nel 1949,
durante i lavori di rifacimento del tetto della chiesetta, venne murata tra le travi
una bottiglia contenente i nomi di coloro che parteciparono alla
ristrutturazione e a tutt’oggi la bottiglia è ancora al suo posto.
Grazie Cotarlau per il ricordo, l’emozione
e la serenità che ogni anno ci doni.
In memoria delle nostre mamme Elvira e
Maria, le figlie Silvana e Laura Rita.
Silvana Guiffre - Laura Rita Curti
Restauri
alla cappella di San Claudio
Nello scorso
numero del Bollettino già avevamo dato notizia dei lavori compiuti alla
cappella di San Claudio a Pre Richard, con il rifacimento del tetto ormai
ridotto a una pietraia. Oggi, con soddisfazione, possiamo dire che questi
lavori riguardanti la parte esterna del sacro edificio si sono compiuti nel
modo migliore e con soddisfazione comune. Il manto di copertura è stato
completato con la posa delle lose, tutte
nuove, essendo
problematica la posa di quelle vecchie, anche se integrate da altre di ricupero.
Sono poi state sistemate le grondaie in rame, scrostato e rifatto l’intonaco alla
facciata e al campaniletto, risistemata la campana.
La spesa è
relativa solo ai materiali, poiché la manodopera è stata fornita da volontari e
da dipendenti dell’Associazione Agricola a titolo gratuito. La spesa è comunque
stata di circa 60.000 Euro, e considerando l’importo delle ore lavorative
oltrepassa la somma di 100.000 Euro. Ancora grazie a tutti coloro che hanno
collaborato con grande senso di attaccamento al loro paese, in particolare al
sig. Claudio Guiffre, che ha seguito personalmente tutta l’impresa. I nomi dei
volontari sono stati pubblicati
nel precedente
Bollettino.
Ora rimane
l’interno ...molto deteriorato da anni di infiltrazioni d’acqua, ma dobbiamo
sostare un poco, sempre per la cronica mancanza di fondi!
Strettoia di
Millaures
Nel corso del
Consiglio comunale è tornato in discussione l’annoso problema della strettoia
di Millaures, avanzato quale interrogazione dal consigliere di minoranza Annamaria
Blanc: «Chiediamo con urgenza un intervento di messa in sicurezza ed allargamento
della strada provinciale che da Bardonecchia conduce a fraz. Millaures e b.ta
Prè Richard, così come già evidenziato in una lettera del Gruppo di minoranza
datata agosto
2007 e trattata nel Consiglio comunale di ottobre 2007 e da una recente
petizione (26 novembre scorso) sottoscritta da tutti gli abitanti interessati»,
ha così esordito Annamaria Blanc. «Il primo punto pericoloso è una curva a
gomito e buia a destra, scendendo verso Bardonecchia e subito dopo aver
oltrepassato l’autostrada soprastante – ha illustrato Blanc –, è già stata
oggetto di incidenti in passato.
Ultimamente è
resa ancora più pericolosa dal passaggio di veicoli ad alta velocità guidati
dai carpentieri, anche sprovvisti di patente, che lavorano a Cianfuràn in
località Gleise. Si potrebbe allargare la strada? Il secondo punto è l’incrocio
tra la strada provinciale principale e il bivio che conduce a b.ta Prè Richard,
situato subito dopo l’albergo ristorante Bellevue, salendo da Bardonecchia. La
svolta in salita verso Prè
Richard
risulta pericolosa perché taglia la strada a chi scende, non essendoci
sufficiente spazio di manovra. Terzo
punto, ben noto da anni, è la strettoia formata dalle case della frazione
stessa, per la quale si era richiesta, già con la petizione del 26 novembre
scorso, il posizionamento di un semaforo allo scopo di regolamentare il traffico
e ridurre la velocità di percorrenza». Concludendo il suo intervento, il
consigliere Blanc ha ricordato l’ipotetico progetto di una tangenziale o di un
tunnel.
Essendo una
problematica di viabilità, ha poi preso la parola l’assessore Salvatore Sergi,
che ha puntualizzato l’attuale situazione, premettendo che la strada è sotto la
gestione provinciale: «Abbiamo già fatto richiesta da molto tempo alla
Provincia di poter effettuare l’opera di allargamento della strada. Il secondo
punto pericoloso è strettamente collegato alla strettoia. L’installazione del
semaforo, già segnalato alla Provincia subito dopo il ricevimento della
petizione, potrebbe essere una soluzione,
ma ha i suoi
pro e contro. Se saremo autorizzati, eseguiremo i sopralluoghi con
l’intendimento di comprendere bene se effettivamente il semaforo rappresenta la
migliore soluzione o se, nel computo dei vantaggi e degli svantaggi, potrebbero
essere più idonee soluzioni alternative, quali l’installazione di dissuasori di
velocità e idonea segnaletica di attenzione alla strettoia e segnalazione di
pericolosità. Sull’ipotizzata tangenziale o tunnel siamo tutti d’accordo, anche
se non semplice e di immediata soluzione, anche perché soggiace pur sempre ad
un’autorizzazione provinciale.
Il progetto
non è stato abbandonato, appena sarà possibile daremo il via ad uno studio
progettuale con la Provincia».
Allargando poi
il dibattito ad altri componenti del Consiglio, si evince una riflessione
sull’installazione del semaforo: «Si tratta pur sempre di una strada di
montagna, favorire la scorrevolezza può voler dire aumentare la probabilità di
minor attenzione e maggior velocità, ed un semaforo verde non dissuade la
riduzione del traffico ad alta velocità, ma la favorisce».
Luisa Maletto
Furti nelle
cappelle
I ladri
d’arte, valori, sacrifici e d’offerte votive fatte a Dio sono tornati a colpire
due cappelle: San Pietro in Millaures e San Sebastiano in Rochas.
Cosa dire? È
difficile esprimere quello che si prova a vedere il disastro e il dolore che
questi esseri ignobili lasciano nei nostri luoghi sacri e per ogni singolo
pezzo che manca ci si sente un dolore straziante al nostro cuore. Mentre scrivo
questo articolo spero che i responsabili di questo scempio tornino sui loro
passi e restituiscano tutto ciò che appartiene a Dio. Forse non lo sanno, ma i
furti effettuati nei luoghi sacri ven-
gono
considerati un grave peccato: peccato di sacrilegio contro Dio!
Il settimo
comandamento proibisce di prendere inappropriatamente i beni altrui, recarne
danno in qualsiasi modo e prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei
beni materiali e del frutto del lavoro umano; inoltre esige il rispetto della
destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata.
Uno dei
principi della vita cristiana si basa sulla condivisione di tutti i doni che il
nostro beneamato Signore ha dato ad ognuno di noi onorandoci della custodia e
dell’amministrazione degli stessi.
Tornando ai
responsabili dei furti: col sacrilegio da voi commesso perderete l’anima e per
quattro soldi ne vale la pena? Sia vendere che acquistare oggetti provenienti
da furti non vi aiuterà di certo ad arricchirvi davanti al Signore!
Un grazie di
cuore e tante benedizioni da parte di Dio e della comunità del Rochas a Gigi e
Donatella che – guardando il tabernacolo dal quale era stato strappato e rubato
l’angelo – sono rimasti urtati nella loro sensibilità e possedendo il dono
artistico e la volontà morale ne hanno ricostruito uno nuovo; così come a Mauro
Doro per la documentazione dei quadri rubati; a Claude Allizon e Bruno Rochas
per la risistemazione della cappella. Dio saprà restituire il centuplo di
quanto dato.
Grazie in
particolare a don Paolo, che con la sua presenza incoraggia la nostra comunità
in ogni difficoltà.
Carmela Martinese Rochas
Sant’Andrea 2008
30 novembre,
festa patronale di S. Andrea Apostolo a Millaures.
Quest’anno la
festa è caduta di domenica; quindi tutto più semplice, tutti a casa, bambini e
adulti. Don Paolo ha celebrato la Messa solenne alle ore 11 con molta
partecipazione della popolazione. La celebrazione
è stata allietata dai canti del nostro Coro, preparati tempo prima con tanta
pazienza e volontà a parte di tutti noi
e Betta e Marisol. In prima fila, come ultimamente accade, era presente il
nostro Vicesindaco con fascia tricolore.
Il pane
benedetto è stato distribuito ai fedeli al termine della funzione.
All’esterno
della chiesa, grazie al bel tempo e al nostro Consorzio di Millaures, è stato
organizzato un ottimo rinfresco per solennizzare un po’ di più la nostra festa.
Da ricordare che la sera precedente, cioè sabato 29, si è svolta da “Pino”
ristorante “Bellevue” la cena di S. Andrea per tutta la popolazione con la
tombola, per trascorrere una serata un po’ diversa e in allegria.
Si ringraziano
quanti hanno collaborato con premi e lavoro.
Il ricavato,
come di consueto, è andato per le spese relative alla chiesa.
Marilena Blanc
Parrocchia S.Pietro apostolo
R OCHEMOLLES
Ricordare Rochemolles, 25 anni dopo
Siamo a 1.619
metri, in un angolo del mondo globale dove una piccola comunità giovanile ha
incontrato una piccola comunità montanara, nel 1973, i due si sono innamorati
dopo qualche diffidenza iniziale, e non si sono più lasciati.
Il Centro
Giovanile della Parrocchia San Giacomo alla Barca di Torino, dei Frati Minori
Conventuali, mise qui le sue tende estive, e dopo un po’ anche quelle invernali.
Il Vescovo di
Susa, Monsignor Vittorio Bernardetto, concesse i locali della parrocchia e i
giovani, con il sottoscritto, cominciarono un po’ di manutenzione, fino a
rendere la casa capace di una trentina di posti.
Era Parroco
allora don Angelo Bettoni. Abitava stabilmente tutto l’anno il paese solo un
uomo, Beppe Ghirardi, che divenne un riferimento insostituibile di amicizia, di
stima, di memoria storica e di educazione per i ragazzi.
La storia
della quale parliamo è scritta nei progetti dei campi, nelle innumerevoli gite
e ascensioni, nelle celebrazioni nel prato della parrocchia, nello sgombero
forzato (divertente anche se superfluo, ma che ci fece infuriare tutti) alla
vigilia di un Capodanno sotto una nevicata esagerata, nelle domeniche con i
genitori, nelle chiacchierate notturne e nei fidanzamenti allacciati e sciolti
o sfociati in matrimoni, nei genitori e nelle nonne disponibili alla cucina,
negli scherzi diabolici e in qualche bevuta alpina un po’ abbondante, nei fiori cento volte fotografati I partecipanti
alla Messa del XXV celebrata da Fra Beppe con il Parroco.
Abbiamo
creduto tutti in questi anni che nell’incontro e nel confronto con Gesù di
Nazareth annunciato “con dolcezza e rispetto” fosse possibile una umanità
nuova, un modo diverso di stare insieme, di appassionarsi alla vita.
Sabato 28
giugno non è stata una commemorazione, affatto. È stata una pagina diversa dal
solito in un libro che continua ad arricchirsi di fogli nuovi.
Metà dei
presenti aveva meno di 20 anni, tanto per capirci. E di questi tempi scoprire
che un luogo, un ambiente, una storia permette a generazioni così lontane (ma sarà
poi vero?) di stare insieme, vicine e di raccontarsi, allora quel luogo,
quell’ambiente, quella storia meritano il titolo di prezioso futuro dietro le
spalle che non deve essere dimenticato.
Fra Beppe Giunti
Il gipeto Argentera è tornato in libertà
Il gipeto appena liberato, prende il volo. (foto Pagnotto) |
Solitamente
non rientra nella quotidianità il poter assistere da vicino alla liberazione di
un gipeto. E di ciò erano ben conscie le oltre cento persone che, sabato scorso
verso mezzogiorno, si sono spinte fino alle grange Mouchequite nel Vallone di Rochemolles.
Il rapace rilasciato, di nome Argentera, ha già fatto storia. Il 15 gennaio 2008,
in un freddo pomeriggio nebbioso, alcuni sciatori di ritorno da Campo Smith
avevano
avvistato un grosso uccello che mal roteava sulle loro teste, poi
improvvisamente una planata in picchiata. Il rapace si era posato sulla neve,
lasciando una scia di sangue e, chiuso le grandi ali, sembrava chiedere aiuto.
Era stato infatti attaccato e ferito da un’aquila. Se quegli ignari passanti
non avessero dato l’allarme, il gipeto avrebbe concluso quel giorno la sua
giovane vita. Ma dopo quella segnalazione si
avviava una
vasta operazione di soccorso. Dapprima il recupero immediato da parte del Corpo
Forestale, poi il ricovero alla clinica veterinaria di Grugliasco, ed infine la
riabilitazione, avvenuta in un centro specializzato del Pavese, l’Oasi di Sant’Alessio.
Sono trascorsi venticinque giorni, tra cure e riabilitazione, non ben tollerati
dal gipeto, una femmina di 15 anni, rilasciata nel 1993 tra le Alpi Marittime
del Mercantour, dopo circa novanta giorni dalla nascita.
«La natura di
questi rapaci è fondamentalmente selvatica – ha dichiarato Harry Salamon,
direttore del centro riabilitativo –, mal si adattano ad altri modi di vita,
come quello di nutrirsi con cibi offerti dall’uomo. Perciò a stento siamo
riusciti ad alimentarlo, lo abbiamo quasi costretto. Ieri infatti ha consumato,
anche se controvoglia, un abbondante pasto a base di ossa di ungulati, e da
questo momento potrebbe anche vivere una settimana senza mangiare. Ma siccome è
dotato per sua natura di una
grande
memoria, senz’altro fra queste montagne, a lui ben note, troverà da cibarsi».
Al grande
evento hanno partecipato numerose persone, non solo appassionati,
ma
rappresentanti di enti istituzionali, associazioni, riviste specializzate,
troupe televisive ed ornitologi, come il dottor Paolo Massara, il più tenace ed
esperto osservatore di rapaci.
Giunto in auto
a Rochemolles con gli agenti provinciali della Tutela della Fauna e della
Flora, al seguito di un consistente corteo di auto, il gipeto è stato
trasbordato sul fuoristrada di Paolo Marre, fotografo naturalista, nonché
responsabile dei cantonieri comunali, che il giorno prima si erano attivati per
liberare la strada dalla neve fino a Mouchequite. La viabilità, però, è stata
limitata a qualche mezzo attrezzato per affrontare la salita, fra incredibili
muraglioni di neve, immagine ormai dimenticata per anni dai bardonecchiesi.
Appena sentito
il profumo dell’aria frizzante e limpida, Argentera ha iniziato a scalpitare,
ma purtroppo ha
dovuto sottomettersi ancora una volta alle
volontà umane. La libertà anche per il gipeto ha un caro prezzo, così è stato costretto
ad attendere ancora un’ora, nella sua gabbia ben oscurata, l’arrivo di tutti,
TV comprese.
Sul luogo del
lancio, affollatissimo ed echeggiante di voci e grida, Paolo Fasce, presidente
della Fondazione Internazionale per la Conservazione del Gipeto, ha colto l’occasione
per ringraziare tutti coloro che hanno collaborato al salvataggio di Argentera:
«Sono grato a tutti per questo evento, reso possibile solo grazie ad una grande
solidarietà. Da più di trent’anni ci prodighiamo nella difesa del gipeto e,
comunque, possiamo ritenerci soddisfatti dei risultati ottenuti. Vi devo
confessare che dal nostro
punto di vista
ci preme molto la riproduzione di questi rapaci, per cui avremmo voluto liberarlo
in Val Maira, dove esiste un gipeto maschio e forse lì avrebbe potuto nascere un
“grande amore”. Ma pensando che avremmo scontentato molti bardonecchiesi, abbiamo
deciso di affidarci alla Natura. Era giusto liberare qui Argentera, nelle sue montagne».
Alle 12,30
circa è giunto il gran momento. È stata alzata la grata della gabbia.
Argentera
forse non si è reso subito conto del miracolo. Si è guardato attorno per qualche
secondo, poi, in un silenzio quasi irreale, ha spiccato il volo. L’immensa
folla ammutolita ha solo guardato. Qualcuno, troppo emozionato, non è riuscito
a riprendere la maestosa apertura d’ali. Altri hanno scattato migliaia di foto,
altri hanno seguito con potenti cannocchiali i primi volteggi.
In quel
momento Argentera nel limpido cielo di Rochemolles non era solo. In mattinata
gli appassionati ornitologi avevano già avvistato due gipeti immaturi, uno
marcato, l’altro probabilmente nato in libertà e purtroppo due aquile. Per
circa un anno Argentera sarà monitorato attraverso un piccolo apparecchio radio
applicato sul dorso, poi, quando le pile si esauriranno la sua privacy non sarà
più violata, e verrà osservato solo
con le comuni tecniche di avvistamento.
Luisa Maletto