18/02/07

L’ANGOLO DELLA CULTURA (2006)

DON DIVO BARSOTTI
AMMISSIONE FRA I CANDIDATI AGLI ORDINI SACRI
L’INVASIONE BARBARICA DEL LAICISMO
FUNERALI DI WELBY: MISERICORDIA E VERITÀ
JOPPICA... JOPPICA... ALLA SCOPERTA DELLA VALLE
*  *  *
L’ultimo mistico del Novecento a Bardonecchia:
DON DIVO BARSOTTI
I L 15 FEBBRAIO 2006, non lontano dal suo 92° compleanno, spirava don Divo Barsotti, nella sua stanza a Casa San Sergio, il piccolo eremo che dal 1955, a Settignano (sulle colline di Firenze) accoglie la Comunità dei Figli di Dio, da lui fondata nel lontano 1948 e che oggi conta più di duemila aderenti, tra religiosi e laici, sparsi in tutto il mondo.
Nei giorni successivi alla sua morte la stampa nazionale, sottraendolo per qualche giorno al silenzio e alla dimenticanza – non incolpevole per altro, in quanto fu molto amato dai lettori, figli spirituali,dagli amici, dai religiosi, ma spesso ignorato dal mondo accademico – lo definiva: l’ultimo mistico del Novecento. Effettivamente don Divo ha passato la vita intera ad ascoltare la voce dello Spirito, meditandola nel suo cuore e facendola sua, per poi trasmetterla. Basti pensare che ha scritto più di 150 libri, un vero record, fra
cui uno spicca per profondità, profezia e densità spirituale vissuta, dai suoi più esperti estimatori definito il suo capolavoro: Il mistero cristiano dell’anno liturgico. Un testo con il quale aprì una scuola nuova, puntando sempre ad entrare nel mistero di Cristo, della sua vita, della sua morte e risurrezione, per salvare con Lui il mondo. I libri del Barsotti sono stati tradotti in molte lingue, per questo è assai conosciuto all’estero, in Francia, in Germania, in Spagna, persino in Russia. Ha scritto migliaia di pagine, articoli di agiografia, di spiritualità, di commenti biblici. 
Unanimemente riconosciuto come una delle figure più luminose della Chiesa del Novecento, è stato appunto scrittore, poeta, predicatore, fondatore come già detto, un autentico uomo di Dio. Amico di Giorgio La Pira, il Sindaco santo di Firenze, dei grandi intellettuali, cattolici e non, italiani, di tanti Cardinali e Vescovi, non amò né cercò mai la ribalta, piuttosto la vita nascosta, semplice, povera, evangelica, soprattutto la contemplazione. Predicò gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia romana, chiamato da Paolo VI, era cercato come predicatore in decine di monasteri in Italia e all’estero, a seminaristi, a sacerdoti, a Vescovi... sempre vivendo con vera umiltà.
 foto omessa Il padre fondatore don Divo Barsotti con il primo Superiore generale: padre Serafino Tognetti.
 Ho sempre nutrito grande ammirazione e subito il forte fascino spirituale di don Barsotti. Il giorno della sua morte non ho potuto fare a meno di ricordare quanto avvenne nella casa parrocchiale di Bardonecchia, in un freddo e cupo giorno dell’autunno del 1985. Eravamo nella stanza del Parroco ed aprimmo un pacco: conteneva un libro che don Divo Barsotti inviava a don Bellando, sul messaggio della Madonna della Salette, intitolato Una Madre tra noi. L’accompagnava un biglietto con il quale l’autore ringraziava chi l’aveva, per la prima volta, guidato alla Salette, nei primi anni ’50. Sulle pagine del Bollettino parrocchiale di Bardonecchia, fu il Parroco stesso a segnalarlo, con testuali parole: «Mons. Divo Barsotti, il teologo mistico di Firenze, che fu nostro villeggiante, ha pubblicato un nuovo libro, questa volta sul messaggio della Salette: “Una Madre tra noi”. Siamo lieti di essere stati noi ad accompagnarlo per la prima volta alla Salette e ce lo ha ricordato, riconoscente».
Don Bellando raccontava che don Barsotti era venuto a Bardonecchia un po’ a riposare, ed era stato accompagnato in automobile da un autista, ospite di una sua benefattrice, Elisa Uzzielli, convertita nota alla famiglia spirituale del Barsotti. Fu ospitato, la prima notte, nella casa parrocchiale. Poi, il giorno dopo, insieme raggiunsero il Santuario francese.
Punto di contatto per la conoscenza fu mons. Enrico Bartoletti, compagno di studi al Capranica, che fu sempre legato da profonda amicizia con don Bellando ed anche lui fu varie volte a Bardonecchia. Bartoletti diventò Vescovo di Lucca e Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana.
È importante ricordare questi legami e questi passaggi nella nostra bella cittadina di Bardonecchia, perché nella Provvidenza tutto ha un senso, e soprattutto perché lasciano sempre un segno.
La Salette è rimasto un luogo “sacro” per i discepoli di don Divo. Mi è capitato più di una volta di incontrare qualche Padre della Comunità e qualche sorella, sulla santa montagna, e sono rimasto sempre ammirato per il loro buon esempio, la gioia che trasmettevano e in quelle poche parole scambiate, ti lasciavano un certo contagio per il Vangelo vissuto. Ho letto con piacere nella biografia di don Divo che agli inizi del rapporto fra don Barsotti ed il suo attuale successore alla guida della Comunità dei Figli di Dio, Padre Serafino Tognetti, che allora era un giovane spensierato e si chiamava Matteo, c’è proprio un pellegrinaggio organizzato alla Salette dal Barsotti nel 1982.
Può interessare sapere che la Comunità da lui fondata è strutturata in quattro rami: del primo fanno parte anche le persone sposate che si impegnano soprattutto nella preghiera; il secondo riguarda gli sposati ma con voti di povertà, obbedienza e castità matrimoniale; al terzo accedono coloro che emettono anche i voti di castità perfetta e vivono nel mondo; il quarto riguarda i “fratelli” e le “sorelle” che vivono una forma di vita monastica. Hanno una casa anche in Piemonte a Vigliano Biellese.
Mi è sempre piaciuto, in don Divo un certo anticonformismo, nel senso che non seguiva la corrente e le mode “ecclesiastiche” od “ecclesiali”. Anzi, come scrive il suo successore alla guida della Comunità dei Figli di Dio, Padre Serafino Tognetti: «Fu insofferente alle mode e capace con una parola di illuminare un’intera esistenza». Due riflessioni di Padre Barsotti affascinano me sacerdote, ma possono aiutare tutti:
«Il sacerdote non porta nulla agli uomini se non porta Dio. Il sacerdote non evade dal mondo. È un uomo che deve essere per il mondo, ma non può essere nulla per gli altri se prima non è un uomo di Dio ... L’unica cosa che chiedo ai sacerdoti – diceva ancora don Barsotti – è di credere veramente in Dio», perché «quello che si impone oggi per il sacerdote è rendersi credibile e rendersi credibile vuol dire credere veramente. Cercando di essere uguali agli altri, perdiamo di credibilità e soprattutto di efficacia».
Don Barsotti aveva questo segreto... dovremmo farlo capire a chi pensa che la fede sia un aderire a strani costumi, a strane idee, mentre essa, la fede è questione di scoprire d’avere un Padre, e di essere figlio. Aveva davvero ragione a pensare che la cosa più importante nella vita di un uomo fosse la fede, come disse nella sua ultima intervista. E alla domanda: «Se fosse stato Papa, quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto?», rispondeva: «Dare un’importanza maggiore alla preghiera, cercare di stimolare la fede, per credere davvero che non si può fare nulla senza di Lui».
Il Cardinale Antonelli, Arcivescovo di Firenze, nell’omelia del funerale, raccontava: «Ho un ricordo personale che riemerge spesso in me e mi interpella con forza. In una delle mie prime visite a don Divo si parlava, tra le altre cose, dell’impegno sociale e dell’attività caritativa dei cristiani. Don Divo osservò che spesso non sono segno di autentica fede e carità, e aggiunse mestamente: “Molti non amano Gesù Cristo”. E vidi due rivoli di lacrime scendere dai suoi occhi e rigare il suo volto. Rimasi intimamente commosso...».
Di questo amore abbiamo tanto bisogno, perché è ciò di cui si nutre l’esperienza cristiana autentica. Amore fatto per anime esigenti, che rifiutano i surrogati del mondo di oggi, falsi e illusori. L’amore per Gesù Cristo, quello che fa piangere e fa ridere, per il quale si soffre e si spera, perché quello che si vive per il Signore Gesù è un amore vero.
Mons. Barsotti aveva le idee molto chiare che lo portavano a non risparmiare la polemica: «La missione della Chiesa non è la pace delle nazioni, l’unità dei popoli, la giustizia sociale. La missione della Chiesa è, con l’evangelizzazione, l’inserimento di ogni uomo, di tutta l’umanità nel Cristo morto e Risorto...». Era anche molto concreto, come davvero un buon padre di famiglia che sa dire dove e che cosa bisogna tagliare: «La Chiesa è nel mondo, ma non del mondo. Invece spesso si aspira a salvarsi in questo mondo, e magari si preferirebbe che il Signore fosse anche un po’ a servizio dell’uomo. Così si parla molto nelle chiese della mafia, dei debiti, del terzo mondo, degli armamenti, del governo... Ma chi parla di Cristo morto e risorto?». Come non rimpiangere preti di questo stampo? In fondo sono la fortuna del nostro tempo, perché se ci salviamo è anche grazie alla fede di questi Padri.
don Claudio Jovine

AMMISSIONE FRA I CANDIDATI
AGLI ORDINI SACRI
Ovvero il primo passo ufficiale verso il Sacerdozio
OGNI VOLTA che compiamo qualcosa d’importante siamo naturalmente portati ad esserne profondamente orgogliosi ed a ricordarlo con gratitudine verso coloro che ci hanno aiutato. Ma quando questo evento costituisce una “prima volta” diviene a maggior ragione un elemento indelebile della nostra vita; pensiamo al primo passo, alla prima parola, al primo giorno di scuola, al primo amore Ora, l’Ammissione è esattamente una di queste circostanze. È, infatti, la prima dichiarazione pubblica e solenne della volontà di portare a compimento la formazione al Sacerdozio.
Il fatto che sia compiuta pubblicamente e solennemente, ovvero di fronte alla comunità ed al Vescovo durante una Celebrazione Eucaristica, sottolinea come questo impegno rimasto implicito fino a quel momento venga messo a disposizione di tutta la Chiesa e ne costituisca un suo particolare patrimonio.

S.E. Mons. Luigi Palletti, Vescovo Ausiliare di Genova, nella sacrestia del Seminario di Genova il 12 ottobre 2006 con Alvise Leidi e gli altri chierici promossi al Rito di ammissione tra i candidati al Diaconato e Presbiterato. Il chierico Alvise Leidi con familiari e amici, dopo il Rito di Ammissione celebrato nella Cappella del Seminario di Genova.
Il pazientissimo lettore si chiederà in cosa consiste la preparazione ad un momento così importante. Provo, allora, a rispondere. Dando per scontato un appropriato periodo di preavviso, il candidato ha tempo per soffermarsi a riflettere, osservare e meditare su ciò che sta per compiere, aiutato magari da un buon ritiro spirituale.
Sempre il pazientissimo lettore si chiederà come si sia preparato il sottoscritto. La risposta è più difficile di quella precedente. L’elemento che maggiormente ha influito su questa preparazione sono stati gli appena due giorni che sono intercorsi tra la telefonata dalla mia Diocesi e l’Ammissione stessa, avvenuta il 12 ottobre scorso. Provvidenza volle che tutto avvenisse durante gli Esercizi spirituali organizzati dal Seminario in cui studio.
La più grande preoccupazione fu di non avere abbastanza tempo, ma proprio questa scarsità ha messo in evidenza l’abbondanza di valore di alcuni aspetti ritenuti scontati e che altrimenti sarebbero passati in secondo piano. Cercherò di riassumerli nelle poche righe che seguono.
L’organizzazione pratica, che accompagna sempre questo tipo di momenti ed il rischio di perdersi dietro le sue piccole “faccenduole”, mi ha mostrato come solo un vero affidamento al Signore possa condurci a saper vedere cosa è realmente importante, a mantenere un sano distacco di fronte alle situazioni che quotidianamente ci occupano (siano esse belle o tristi, piccole o importanti) ed a prendere di conseguenza le decisioni corrette. La capacità di distaccarsi dai propri progetti e dalle proprie volontà, per accogliere quelli divini, ci porta ad uscire dal nostro piccolo mondo per incontrare Dio presente nelle altre persone. Questo processo, però, non può rimanere soltanto su un piano ideale, ma deve assumere una reale concretezza nella scoperta che affidarsi al Signore consiste nell’affidarsi alla Chiesa formata dai suoi maestri e testimoni: per esempio, nel mio caso particolare, questo affidamento passa attraverso il Vescovo di Genova, i Superiori del Collegio Capranica e tutte le persone che mi circondano nel percorso formativo.
Un secondo aspetto fondamentale è stata la comprensione esplicita di come quanto più si maturi nella vita di fede, tanto più ci si accorga che la nostra vita è un dono ricevuto per-sonalmente e personalmente donato agli altri. In questo senso, il servizio che siamo chiamati a svolgere all’interno della Chiesa assume un grande valore per il significato che porta con sé: non si agisce, infatti, per una pura autoaffermazione, e neppure annientandosi in un’istituzione, ma si orienta il proprio fare all’altro, scoprendo la nostra più profonda essenza nell’amare, consapevoli di essere amati. Certo ci saranno costanti dissensi e diversità di vedute, ma in un’ottica realmente cristiana queste circostanze sono un arricchimento, se finalizzate al raggiungimento del Sommo Bene: la salvezza ricevuta in Cristo. Infine, un ultimo elemento. Ricevere, in modo così improvviso ed inaspettato, la decisione della Diocesi di “ammettermi” ha sottolineato ancora una volta come tutto, e proprio tutto, debba essere letto come strumento della volontà divina di farci crescere nell’approfondimento della fede e nell’amore autentico. Non posso, in conclusione, dimenticare di ringraziare don Franco e l’intera comunità di Bardonecchia, che ho da sempre sentito vicina nella preghiera e nel sostegno in questi anni di formazione.
Assicuro a tutti voi il continuo ricordo al Signore, riconoscendo di essere vostro debitore sin dall’inizio della mia vocazione.
Alvise Leidi

L’INVASIONE BARBARICA DEL LAICISMO
CARO DIRETTORE e cari amici, come avrete visto, il fatto nuovo di questo Natale è che non si può più dire “Buon Natale” e, a pensarci bene, è giusto così.
A che vale dire “Buon Natale” quando un uomo viene suicidato perché la vita gli è insopportabile? (...) Quando il Presepe viene profanato nella sede di una istituzione?
Quando in quella stessa sede si progetta una saletta pagana, affinché ciascuno preghi il suo dio senza offendere quello del vicino di scranno? Quando i canti cristiani vengono proibiti ai bambini. delle elementari? Quando un direttore cattolico nega ad un Vescovo l’autorizzazione a incontrare gli studenti? Quando il crocefisso viene allontanato da qualunque luogo pubblico? Quando un gay pride si può fare e una processione no? E vale ancora dire “Buon Natale” se il cristianesimo viene nascosto nel vecchio Continente cristiano? Vale se al cristianesimo è richiesto di rispettare l’islam senza esserne rispettato? No, o “Buon
Natale” non vale più oppure vale come grido di rivolta morale e culturale.
Il laicismo che è in corso è peggiore del nazismo e del comunismo che, con altri mezzi ebbero gli stessi fini. Il nazismo volle sostituire il cristianesimo e l’ebraismo col paganesimo, il comunismo con l’ateismo. Ma le coscienze non erano pronte e i due regimi dovettero usare la violenza. Oggi non c è bisogno di ricorrere alle purghe e ai campi di concentramento.
Oggi gli anticristiani conducono la loro battaglia all’insegna degli stessi valori cristiani, e purtroppo tanti cristiani ci cascano. L’eutanasia si pratica nel nome della dignità della vita e della misericordia. L’eugenetica nel nome di non recare dolore agli innocenti. L’aborto nel nome della libertà della donna. Il matrimonio omosessuale nel nome dell’amore col prossimo. Tra poco, anche la poligamia sarà concessa nel nome del rispetto delle persone o delle minoranze. E l’incesto, dopotutto, perché deve essere un tabù? Potrebbe essere solo un’interpretazione, e siccome, come diceva quel tale, “non ci sono fatti, bensì solo interpretazioni”, allora, cambiando vocabolario, anche quel tabù potrebbe cadere.
Oltre a questo paradosso, le orde barbariche del laicismo ne contengono un altro. Quelli che ieri ci sprangavano le teste gridando il primato marxista della classe, della società o dello Stato sull’individuo sono gli stessi che oggi predicano l’opposto, e cioè la priorità dell’utile, del desiderio, del capriccio personale sul bene pubblico, sociale, collettivo. Gli exmaestri del collettivismo sono diventati apostoli dell’individualismo. Sì perché nella loro Neolingua liberale significa “libero di fare come si crede”. Non sanno che liberalismo è
dottrina giudaico-cristiana fondata sul primato della persona e quindi su principi e valori e proibizioni non negoziabili. Non sanno che l’etica liberale presume quella cristiana. Non sanno che, senza il cristianesimo, non ci sarebbe la nostra civiltà. Una cosa sola sanno: che il cristianesimo è un ostacolo a quella dittatura del relativismo che ci vogliono imporre.
Il nazismo e il comunismo fecero breve l’altro secolo, lo scientismo e il laicismo potrebbero fare cortissimo questo. Dopo, a invaderci, ci sarà l’islam, una religione di seguaci che credono ancora e che diffidano di noi perché non crediamo più. O ci sarà qualche altra cosa, perché il vuoto che le orde dei barbari laicisti lasciano sarà comunque riempito. Per fermarle, per arrestare il degrado morale, per salvare la civiltà, occorre una nuova, più difficile resistenza di credenti e non. Dunque: “Buon Natale!”.
Marcello Pera

FUNERALI DI WELBY:
MISERICORDIA E VERITÀ
LA CHIESA PRESA DI MIRA PER I FUNERALI NEGATI
Quasi sempre è madre
Qualche volta maestra
NON CONVIENE mai fidarsi, anche da credenti, delle proprie reazioni immediate quando si è in piena tempesta emotiva, enfatizzata – è il caso di Welby – da una massacrante campagna massmediatica e da un’indegna strumentalizzazione politica. Da notare che uno dei risultati indiretti ma ormai noti di queste campagne mediatiche è proprio il pesante condizionamento del senso critico e dell’autonomia nelle valutazioni personali. Bisogna allora ragionare con pacatezza, soprattutto per comprendere le motivazioni che hanno indotto la Chiesa di Roma a non concedere i funerali religiosi per Welby.
Una prima osservazione d’obbligo: è scorretto giuridicamente ed eticamente far leva su di un singolo caso – come hanno fatto i Radicali – per imporre all’opinione pubblica e alla classe politica la richiesta di risoluzione di un tema – l’eutanasia – di complessa valenza giuridica, dunque generale. È vero: questa prassi, spesso utilizzata da Pannella e compagni, non consente una equilibrata messa a punto delle molte implicazioni che tale questione bioetica comporta. Ma, attenzione, non è solo il grande problema dell’eutanasia a rischiare di essere inquinato, è anche il caso di partenza, quello concreto del povero Welby, che per quanto ammantato di pietas risente di tutta la strumentalizzazione che gli è stata riversata addosso.
Che cosa significa, allora, dopo tanto clamore e dopo le ripetute dichiarazioni fatte dal protagonista, acconsentire ai funerali religiosi? Forse approvare la lunga strumentalizzazione che era stata fatta? Anche in quel caso ci sarebbe stato un problema d’immagine per la Chiesa, fosse pure quella di chi accetta una cappellania rituale, a orpello di manovre ad essa esterne ed estranee.
È questa – si può supporre – una delle ragioni che potrebbe aver indotto la Chiesa a fare un passo indietro: accettare il “caso” singolo avrebbe significato esporsi alla strumentalizzazione politica di quanti ne avrebbero visto una forma di cedimento di fronte alla chiarezza del dettato cristiano: la vita è indisponibile, non si tocca. Questo non ha significato certamente – come da più parti si è pur obiettato – negare un atto di misericordia a Welby, se è vero che in molte chiese, compresa la sua parrocchia, si è esplicitamente inserito il suo dramma nella preghiera dei fedeli chiedendo a Dio la misericordia e consolazione per i familiari.
La Chiesa è mater et magistra, molte volte madre accogliente e premurosa, qualche volte maestra, che non significa giustiziera, ma educatrice che dice la verità anche quando questa è dura e scomoda. Nello scegliere la strada rischiosa e impopolare che poi è stata opzionata, si è certo evocato il gesto del rifiuto, non tanto però verso chi è già nelle braccia misericordiose del Padre, ma per quanti, attorno a quel morto, avevano soffiato e soffiano sul fuoco della polemica, pretendendo un diritto – quello di gestire la vita a proprio piacimento – che i credenti non possono accettare, pena la perdita della verità della vita che è indisponibile perché sempre donata. Come a Natale ha detto Benedetto XVI non si può cambiare ambiguamente la vita con la morte; non si può reclamare pretestuosamente un diritto alla vita quando c’è stata morte voluta, decisa, programmata. Non c’è dubbio quindi che la Chiesa continua ad essere madre e che ogni credente percorrerà, insieme ai pastori, la via della misericordia, portando ai piedi del Bambino le proprie pene, ma anche il calvario di Welby con il suo terribile epilogo.
Ora si apre per la politica la via della riflessione e dell’oggettiva valutazione del problema bioetico dell’eutanasia, una volta attenuato il pathos del caso particolare. Ogni legislazione, per essere equa, non può essere sottoposta all’urto violento delle emozioni, ma deve fare spazio alla ragionevolezza dei tanti malati gravi ospedalizzati, che senza telecamere attendono, per esempio, risposte certe sulle cure palliative e contro l’accanimento terapeutico. Anche questo eviterà il ripetersi di future, angosciose strumentalizzazioni.
Paola Ricci Sindoni
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LA MISERICORDIA, la libertà. E i rimestatori. Nei giorni successivi al tragico epilogo della vicenda Welby è accaduto un fatto straordinario. Sui media si è dibattuto della misericordia di Dio. Il tema più grande e misterioso, più antico e importante è entrato addirittura nelle polemiche del giorno. Poteva essere, e in certi passaggi lo è stato, un momento per aprire il cuore e la mente al più grande mistero. Per restare in silenzio volgendo il cuore al più profondo senso delle cose. Che poi fossero poche le voci disposte a riflettere con grandezza di cuore e d’intelletto sulla misericordia di Dio e sulla libertà degli uomini, non cambia la preziosità del momento.
È vero, hanno prevalso i discorsi dei formalisti, dei cinici approfittatori, dei cavillatori interessati. Da un lato, c’è stata la posizione della Chiesa: per l’anima di Welby, come per quella di chiunque, ci si affida alla misericordia di Dio e la si invoca. Dio fa quello che vuole. Dice il Salmo: la sua misericordia è eterna, e sovrasta l’uomo. Ma non ne elimina la libertà.
Per rispetto alla libertà stessa del defunto e di tutti coloro che invece desiderano ascoltare la voce della Chiesa, si è deciso di non celebrare il rito del funerale religioso. L’atto compiuto deliberatamente da Welby era contro la concezione della vita che la Chiesa insegna. Lo sapeva lui, e lo sapevano coloro che lo hanno voluto accompagnare in un cammino di ricerca della morte invece che in un cammino di speranza. Sarebbe stato mancare di rispetto alla libertà di quell’uomo fare finta di niente. E pretendere, con la celebrazione di un rito, di rendere tutto uguale. E sarebbe stato mancare di rispetto verso coloro che, riconoscendo la vita come dono, e pur trovandosi in situazioni simili o a volte peggiori, hanno deciso, in consonanza con la visione cristiana, di non rifiutare il mistero di questo dono.
Nel momento del dolore, come insegna la vicenda dei due ladroni inchiodati accanto a Cristo, la libertà di un uomo è messa alla prova. E può decidere se abbracciare il Signore o la propria rabbia solitaria. La Chiesa ha grande rispetto per la libertà, non pretende di essere il notaio di tutto e tutti. E nemmeno di essere la padrona della misericordia di Dio.
Altri lo hanno preteso, ciarlandone a tratti in modo insulso. La Chiesa sa che Dio fa quello che vuole. E che anche gli uomini, figli ad immagine e somiglianza, fanno quello che vogliono. Tenendo conto di questo, la Chiesa non si stanca di educare gli uomini a considerare Dio padre della vita e destino buono per ognuno. Perciò esistono le sue indicazioni, che rispettano la libertà di chiunque, e valgono per chi le riconosce. Invece in molti, con cinismo e banalità, si sono voluti fare formalisti interpreti del costume cristiano e si sono messi a giudicar la Chiesa, i cristiani e ad accusare chiunque non plauda il loro progetto. Con un formidabile uso e abuso dei media, con spregiudicatezza nello speculare sul dolore si sono voluti impancare a giudici sulla vita e la morte. Hanno straparlato di grande battaglia ideale. Vedremo se in nome di tale ideale, che in un funerale trova la sua pubblica manifestazione, faranno battaglia entro un governo che sembra diversamente
orientato. E se, in caso di sconfitta, questi idealisti da bara, rinunceranno ai loro importanti ministeri, alle poltrone. La misericordia di Dio, come sempre, si cura poco delle chiacchiere sentimentaloidi e dei maneggi del mondo. Segue altre vie. E non manca di sostenere chi la chiede con cuore sincero, come mostrano mille e mille discrete e impressionanti testimonianze.
Davide Rondoni

JOPPICA... JOPPICA...
ALLA SCOPERTA DELLA VALLE
Pensieri sotto sforzo di un montanaro improvvisato
SULL’ACCIOTTOLATO del sentiero che si inerpica su per l’arido versante destro (sinistra orografica della Dora Riparia) dell’alta Valle di Susa, di fronte a Chiomonte, risuona il passo cadenzato dell’asino carico di provviste: joppica... joppica... Beh, se ce l’ha fatta lui che era carico a salire!!!... Pensa te, un sestario di buon vino ed una emina di buona segala. Cos’era già il sestario? Sì è vero, erano 42 litri, e la emina la metà, quasi 23 litri, forniti da ognuna delle Frazioni committenti, Cels e Ramats!
L’asino ha lasciato alle spalle la Ramats ed è già ai 1.450 metri delle Grange Rigaud. Joppica.... joppica..., il passo sempre uguale si attutisce sul sentiero sterrato riecheggiando nel silenzio della valle. Forse c’era anche un cane con l’asino; almeno così dicono: affinità e solidarietà fra bestie (ma il basto ce l’aveva solo l’asino) a volte più disposte degli uomini a farsi compagnia. Il percorso non presenta difficoltà, a detta d’altri: ...un’ora per i più allenati, due per i meno. E che diamine, d’estate con tanta caccia subacquea, in apnea, quindi a fiato dovremmo esserci!. Mah!, forse un’ora e mezza. Però, ’sto Romean Colombano: ottantaquattro litri di vino al mese!, quasi tre litri al giorno: è chiaro che volesse sfogare tutte quelle calorie martellando la roccia! Joppica.... joppica... Si incominciano a distanziare le terga dei compagni di salita, moglie compresa. E già, loro sono montanari DOC mentre tu...!, il fiato!?: deve essere un’altra cosa che al mare; e poi ci sono quei 
chili abbondanti di sovrappeso che non posso lasciare per strada; dovrò portarmeli lassù, fino ai 2.000 metri.
Joppica.... joppica... 1526 anno del Signore. A 51 anni il buon Colombano Romean delle Ramats, pattuito tutto per iscritto, dà di piglio a mazza e scalpello cominciando a bucare la montagna. Vuole sforare dalla parte opposta del crinale, nella Valle della Toullie, di fronte al Monte Niblé, per prelevare l’acqua preziosa che mancava alle genti di Cels in quel d’Exilles e di Ramats in quel di Chiomonte.
D’altra parte anche l’asino era carico; no, non credo sovrappeso!. Miseria, lui però a 4 zampe motrici, 4WD come direbbero adesso, mentre qui, con la sola trazione posteriore...; e poi vogliamo mettere?!, c’era anche il cane, dice la leggenda, che gli ...tirava la volata, magari girandosi indietro di tanto in tanto, come fanno tutti questi che mi sorpassano; sembra Piazza d’Armi ora!
Joppica.... joppica... 1533: dopo sette anni di solitarie martellate, forate 300 tese (ogni tesa = m. 1,786) di dura roccia in un budello largo mezza tesa ed alto poco più di una tesa, il miracolo è compiuto ed il nostro Colombano sbuca nella Valle della Toullie; l’imponente monte Niblé di fronte, la Val Clarea che digrada vertiginosamente a destra.
Sì ma qui bisogna farne un altro di miracolo: portare ossa e frattaglie davanti questo benedetto Gran Pertus. Ma guarda quanti lamponi, belli, rossi, maturi, un po’ piccolini, però dissetano come pochi!; dai che prendiamo fiato!
Joppica.... joppica... Circa 530 metri di tunnel, per il modico compenso di 1.500 fiorini di allora che farebbero ora meno di 3.500 euro, che divisi per sette anni farebbero quasi 500 euro all’anno! Una miseria!; meno male che non c’erano i sindacati!, o era lavoro autonomo!?
Urka!, ma tutti questi stanno già scendendo?!, meglio farsi da parte ...e rifiata re. Questo qui con la barba grigia?: deve essere un medico per essersi fermato un attimo a darmi un’occhiata, non devo avergli fatto una buona impressione!
Joppica.... joppica... una modesta casetta per il meritato riposo pattuì il Romean Colombano vicino al Pertus. Joppica.... joppica... Vuoi dire che dopo più di 4 secoli resiste ancora ed è quella lì?; allora ci siamo!
Una lapide a memoria, sul bordo del sentiero, invita ad una prece e ammonisce: “rispetta la montagna e questa non ti tradirà mai”.
foto omessa Quattro Denti” (di fronte a Chiomonte). [foto Sciarrillo]
 Non era la casetta del minatore. Speriamo non sia qualcos’altro a tradirci!
Quando i pini (i larici per l’esattezza) cominciano a diradarsi, il panorama si apre sul Rocciamelone a destra, lo Chaberton a sinistra, alle spalle l’Assietta mentre, se la giornata è chiara, verso il fondovalle si può scorgere la collina torinese nella bruma. Ci siamo, eccoli i Quattro Denti un po’ più su a destra! Ancora due piccoli tornantini ed il sorriso si apre, vincendo la smorfia di fatica, sullo sguardo comprensivo e non più preoccupato dei compagni in attesa. Cosa non sa darti la montagna!: panorami stupendi, il rumore del silenzio e quant’altro, lasciato in basso, riesci a malapena a distinguere; e poi la soddisfazione di aver raggiunto un traguardo con la propria fatica!
Un certo sig. Caso del CAI di Napoli (chissà se laggiù lo sanno!) volle ricordare con una lapide l’impresa del Romean; era il 1879. Nel 1911 la sezione CAI di Susa rifece la stessa lapide che oggi vediamo al di sopra della galleria idraulica.
Buona quest’acqua, anche se poca!, ma si sa, ci sono i periodi di magra... Un’ultima sorsata e giù sulla via del ritorno. Le gambe dolgono più di prima ma tant’è, si va giù quasi per inerzia ed i lamponi dell’andata non si vedono nemmeno.
Però, quanti notai e quanti litigi per quest’acqua da dividere in due! Notaio di Chiomonte, 16 giugno 1651: i Consoli e gli abitanti di Chiomonte e Ramats riconoscono di dovere in perpetuo una somma annua di 8 lire tornesi e di 20 soldi ciascuna ai Consoli e comunità di Exilles, da pagarsi il giorno di Natale. Non se ne saranno mica dimenticati?!; mi piacerebbe esserci alla consegna, quest’anno; magari c’è anche la TV!
Un campanellino alle spalle si avvicina sempre di più. All’improvviso sul sentiero compare un bracco dal pelo beige che con garbo ci sorpassa lesto col suo campanellino tintinnante.
Ma guarda un po’, sembra il cane della favola!; e l’asino?!
Anastasio Sciarrillo