AMMISSIONE FRA I CANDIDATI AGLI ORDINI SACRI
L’INVASIONE BARBARICA DEL LAICISMO
FUNERALI DI WELBY: MISERICORDIA E VERITÀ
JOPPICA... JOPPICA... ALLA SCOPERTA DELLA VALLE
* * *
L’ultimo mistico del Novecento a Bardonecchia:
DON DIVO BARSOTTI
I L 15 FEBBRAIO 2006, non lontano dal suo 92° compleanno, spirava
don Divo Barsotti, nella sua stanza a Casa San Sergio, il piccolo eremo che dal
1955, a Settignano (sulle colline di Firenze) accoglie la Comunità dei Figli
di Dio, da lui fondata nel lontano 1948 e che oggi conta più di duemila
aderenti, tra religiosi e laici, sparsi in tutto il mondo.
Nei giorni successivi alla sua morte la stampa nazionale,
sottraendolo per qualche giorno al silenzio e alla dimenticanza – non
incolpevole per altro, in quanto fu molto amato dai lettori, figli
spirituali,dagli amici, dai religiosi, ma spesso ignorato dal mondo accademico
– lo definiva: l’ultimo mistico del Novecento. Effettivamente don Divo
ha passato la vita intera ad ascoltare la voce dello Spirito, meditandola nel
suo cuore e facendola sua, per poi trasmetterla. Basti pensare che ha scritto
più di 150 libri, un vero record, fra
cui uno spicca per profondità, profezia e densità spirituale
vissuta, dai suoi più esperti estimatori definito il suo capolavoro: Il
mistero cristiano dell’anno liturgico. Un testo con il quale aprì una scuola
nuova, puntando sempre ad entrare nel mistero di Cristo, della sua vita, della
sua morte e risurrezione, per salvare con Lui il mondo. I libri del Barsotti
sono stati tradotti in molte lingue, per questo è assai conosciuto all’estero,
in Francia, in Germania, in Spagna, persino in Russia. Ha scritto migliaia di
pagine, articoli di agiografia, di spiritualità, di commenti biblici.
Unanimemente riconosciuto come una delle figure più luminose della
Chiesa del Novecento, è stato appunto scrittore, poeta, predicatore, fondatore come
già detto, un autentico uomo di Dio. Amico di Giorgio La Pira, il Sindaco santo
di Firenze, dei grandi intellettuali, cattolici e non, italiani, di tanti Cardinali
e Vescovi, non amò né cercò mai la ribalta, piuttosto la vita nascosta,
semplice, povera, evangelica, soprattutto la contemplazione. Predicò gli
esercizi spirituali al Papa e alla Curia romana, chiamato da Paolo VI, era
cercato come predicatore in decine di monasteri in Italia e all’estero, a
seminaristi, a sacerdoti, a Vescovi... sempre vivendo con vera umiltà.
foto omessa Il padre fondatore don Divo
Barsotti con il primo Superiore
generale: padre Serafino Tognetti.
Ho sempre nutrito grande ammirazione e subito il forte fascino
spirituale di don Barsotti. Il giorno della sua morte non ho potuto fare a meno
di ricordare quanto avvenne nella casa parrocchiale di Bardonecchia, in un
freddo e cupo giorno dell’autunno del 1985. Eravamo nella stanza del Parroco ed
aprimmo un pacco: conteneva un libro che don Divo Barsotti inviava a don
Bellando, sul messaggio della Madonna della Salette, intitolato Una Madre
tra noi. L’accompagnava un biglietto con il quale l’autore ringraziava chi
l’aveva, per la prima volta, guidato alla Salette, nei primi anni ’50. Sulle pagine
del Bollettino parrocchiale di Bardonecchia, fu il Parroco stesso a segnalarlo,
con testuali parole: «Mons. Divo Barsotti, il teologo mistico di Firenze, che
fu nostro villeggiante, ha pubblicato un nuovo libro, questa volta sul
messaggio della Salette: “Una Madre tra noi”. Siamo lieti di essere stati noi
ad accompagnarlo per la prima volta alla Salette e ce lo ha ricordato,
riconoscente».
Don Bellando raccontava che don Barsotti era venuto a Bardonecchia
un po’ a riposare, ed era stato accompagnato in automobile da un autista,
ospite di una sua benefattrice, Elisa Uzzielli, convertita nota alla famiglia
spirituale del Barsotti. Fu ospitato, la prima notte, nella casa parrocchiale.
Poi, il giorno dopo, insieme raggiunsero il Santuario francese.
Punto di contatto per la conoscenza fu mons. Enrico Bartoletti,
compagno di studi al Capranica, che fu sempre legato da profonda amicizia con
don Bellando ed anche lui fu varie volte a Bardonecchia. Bartoletti diventò
Vescovo di Lucca e Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana.
È importante ricordare questi legami e questi passaggi nella
nostra bella cittadina di Bardonecchia, perché nella Provvidenza tutto ha un
senso, e soprattutto perché lasciano sempre un segno.
La Salette è rimasto un luogo “sacro” per i discepoli di don Divo.
Mi è capitato più di una volta di incontrare qualche Padre della Comunità e
qualche sorella, sulla santa montagna, e sono rimasto sempre ammirato per il
loro buon esempio, la gioia che trasmettevano e in quelle poche parole
scambiate, ti lasciavano un certo contagio per il Vangelo vissuto. Ho letto con
piacere nella biografia di don Divo che agli inizi del rapporto fra don Barsotti
ed il suo attuale successore alla guida della Comunità dei Figli di Dio, Padre
Serafino Tognetti, che allora era un giovane spensierato e si chiamava Matteo,
c’è proprio un pellegrinaggio organizzato alla Salette dal Barsotti nel 1982.
Può interessare sapere che la Comunità da lui fondata è
strutturata in quattro rami: del primo fanno parte anche le persone sposate che
si impegnano soprattutto nella preghiera; il secondo riguarda gli sposati ma
con voti di povertà, obbedienza e castità matrimoniale; al terzo accedono
coloro che emettono anche i voti di castità perfetta e vivono nel mondo; il
quarto riguarda i “fratelli” e le “sorelle” che vivono una forma di vita
monastica. Hanno una casa anche in Piemonte a Vigliano Biellese.
Mi è sempre piaciuto, in don Divo un certo anticonformismo, nel
senso che non seguiva la corrente e le mode “ecclesiastiche” od “ecclesiali”.
Anzi, come scrive il suo successore alla guida della Comunità dei Figli di Dio,
Padre Serafino Tognetti: «Fu insofferente alle mode e capace con una parola di
illuminare un’intera esistenza». Due riflessioni di Padre Barsotti affascinano
me sacerdote, ma possono aiutare tutti:
«Il sacerdote non porta nulla agli uomini se non porta Dio. Il
sacerdote non evade dal mondo. È un uomo che deve essere per il mondo, ma non
può essere nulla per gli altri se prima non è un uomo di Dio ... L’unica cosa
che chiedo ai sacerdoti – diceva ancora don Barsotti – è di credere veramente
in Dio», perché «quello che si impone oggi per il sacerdote è rendersi
credibile e rendersi credibile vuol dire credere veramente. Cercando di
essere uguali agli altri, perdiamo di credibilità e soprattutto di efficacia».
Don Barsotti aveva questo segreto... dovremmo farlo capire a chi
pensa che la fede sia un aderire a strani costumi, a strane idee, mentre essa,
la fede è questione di scoprire d’avere un Padre, e di essere figlio. Aveva
davvero ragione a pensare che la cosa più importante nella vita di un uomo
fosse la fede, come disse nella sua ultima intervista. E alla domanda: «Se
fosse stato Papa, quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto?»,
rispondeva: «Dare un’importanza maggiore alla preghiera, cercare di stimolare
la fede, per credere davvero che non si può fare nulla senza di Lui».
Il Cardinale Antonelli, Arcivescovo di Firenze, nell’omelia del
funerale, raccontava: «Ho un ricordo personale che riemerge spesso in me e mi
interpella con forza. In una delle mie prime visite a don Divo si parlava, tra
le altre cose, dell’impegno sociale e dell’attività caritativa dei cristiani.
Don Divo osservò che spesso non sono segno di autentica fede e carità, e
aggiunse mestamente: “Molti non amano Gesù Cristo”. E vidi due rivoli di
lacrime scendere dai suoi occhi e rigare il suo volto. Rimasi intimamente
commosso...».
Di questo amore abbiamo tanto bisogno, perché è ciò di cui si
nutre l’esperienza cristiana autentica. Amore fatto per anime esigenti, che
rifiutano i surrogati del mondo di oggi, falsi e illusori. L’amore per Gesù
Cristo, quello che fa piangere e fa ridere, per il quale si soffre e si spera,
perché quello che si vive per il Signore Gesù è un amore vero.
Mons. Barsotti aveva le idee molto chiare che lo portavano a non
risparmiare la polemica: «La missione della Chiesa non è la pace delle nazioni,
l’unità dei popoli, la giustizia sociale. La missione della Chiesa è, con
l’evangelizzazione, l’inserimento di ogni uomo, di tutta l’umanità nel Cristo
morto e Risorto...». Era anche molto concreto, come davvero un buon padre di
famiglia che sa dire dove e che cosa bisogna tagliare: «La Chiesa è nel mondo,
ma non del mondo. Invece spesso si aspira a salvarsi in questo mondo, e magari
si preferirebbe che il Signore fosse anche un po’ a servizio dell’uomo. Così si
parla molto nelle chiese della mafia, dei debiti, del terzo mondo, degli
armamenti, del governo... Ma chi parla di Cristo morto e risorto?». Come non
rimpiangere preti di questo stampo? In fondo sono la fortuna del nostro tempo,
perché se ci salviamo è anche grazie alla fede di questi Padri.
don Claudio Jovine
AMMISSIONE FRA I CANDIDATI
AGLI ORDINI SACRI
Ovvero il primo passo ufficiale verso il
Sacerdozio
OGNI VOLTA che
compiamo qualcosa d’importante siamo naturalmente portati ad esserne
profondamente orgogliosi ed a ricordarlo con gratitudine verso coloro che ci
hanno aiutato. Ma quando questo evento costituisce una “prima volta” diviene a
maggior ragione un elemento indelebile della nostra vita; pensiamo al primo passo,
alla prima parola, al primo giorno di scuola, al primo amore Ora, l’Ammissione
è esattamente una di queste circostanze. È, infatti, la prima dichiarazione pubblica
e solenne della volontà di portare a compimento la formazione al Sacerdozio.
Il fatto che sia compiuta pubblicamente e solennemente, ovvero di
fronte alla comunità ed al Vescovo durante una Celebrazione Eucaristica,
sottolinea come questo impegno rimasto implicito fino a quel momento venga
messo a disposizione di tutta la Chiesa e ne costituisca un suo particolare
patrimonio.
Il pazientissimo lettore si chiederà in cosa consiste la
preparazione ad un momento così importante. Provo, allora, a rispondere. Dando
per scontato un appropriato periodo di preavviso, il candidato ha tempo per
soffermarsi a riflettere, osservare e meditare su ciò che sta per compiere,
aiutato magari da un buon ritiro spirituale.
Sempre il pazientissimo lettore si chiederà come si sia preparato
il sottoscritto. La risposta è più difficile di quella precedente. L’elemento
che maggiormente ha influito su questa preparazione sono stati gli appena due
giorni che sono intercorsi tra la telefonata dalla mia Diocesi e l’Ammissione
stessa, avvenuta il 12 ottobre scorso. Provvidenza volle che tutto avvenisse
durante gli Esercizi spirituali organizzati dal Seminario in cui studio.
La più grande preoccupazione fu di non avere abbastanza tempo, ma
proprio questa scarsità ha messo in evidenza l’abbondanza di valore di alcuni
aspetti ritenuti scontati e che altrimenti sarebbero passati in secondo piano.
Cercherò di riassumerli nelle poche righe che seguono.
L’organizzazione pratica, che accompagna sempre questo tipo di
momenti ed il rischio di perdersi dietro le sue piccole “faccenduole”, mi ha
mostrato come solo un vero affidamento al Signore possa condurci a saper vedere
cosa è realmente importante, a mantenere un sano distacco di fronte alle
situazioni che quotidianamente ci occupano (siano esse belle o tristi, piccole
o importanti) ed a prendere di conseguenza le decisioni corrette. La capacità
di distaccarsi dai propri progetti e dalle proprie volontà, per accogliere
quelli divini, ci porta ad uscire dal nostro piccolo mondo per incontrare Dio
presente nelle altre persone. Questo processo, però, non può rimanere soltanto
su un piano ideale, ma deve assumere una reale concretezza nella scoperta che
affidarsi al Signore consiste nell’affidarsi alla Chiesa formata dai suoi
maestri e testimoni: per esempio, nel mio caso particolare, questo affidamento
passa attraverso il Vescovo di Genova, i Superiori del Collegio Capranica e
tutte le persone che mi circondano nel percorso formativo.
Un secondo aspetto fondamentale è stata la comprensione esplicita
di come quanto più si maturi nella vita di fede, tanto più ci si accorga che la
nostra vita è un dono ricevuto per-sonalmente e personalmente donato agli
altri. In questo senso, il servizio che siamo chiamati a svolgere all’interno
della Chiesa assume un grande valore per il significato che porta con sé: non
si agisce, infatti, per una pura autoaffermazione, e neppure annientandosi in
un’istituzione, ma si orienta il proprio fare all’altro, scoprendo la nostra
più profonda essenza nell’amare, consapevoli di essere amati. Certo ci saranno
costanti dissensi e diversità di vedute, ma in un’ottica realmente cristiana
queste circostanze sono un arricchimento, se finalizzate al raggiungimento del
Sommo Bene: la salvezza ricevuta in Cristo. Infine, un ultimo elemento.
Ricevere, in modo così improvviso ed inaspettato, la decisione della Diocesi di
“ammettermi” ha sottolineato ancora una volta come tutto, e proprio tutto,
debba essere letto come strumento della volontà divina di farci crescere nell’approfondimento
della fede e nell’amore autentico. Non posso, in conclusione, dimenticare di
ringraziare don Franco e l’intera comunità di Bardonecchia, che ho da sempre
sentito vicina nella preghiera e nel sostegno in questi anni di formazione.
Assicuro a tutti voi il continuo ricordo al Signore, riconoscendo di
essere vostro debitore sin dall’inizio della mia vocazione.
Alvise Leidi
L’INVASIONE BARBARICA DEL
LAICISMO
CARO DIRETTORE e cari
amici, come avrete visto, il fatto nuovo di questo Natale è che non si può più
dire “Buon Natale” e, a pensarci bene, è giusto così.
A che vale dire “Buon Natale” quando un uomo viene suicidato
perché la vita gli è insopportabile? (...) Quando il Presepe viene profanato
nella sede di una istituzione?
Quando in quella stessa sede si progetta una saletta pagana,
affinché ciascuno preghi il suo dio senza offendere quello del vicino di
scranno? Quando i canti cristiani vengono proibiti ai bambini. delle
elementari? Quando un direttore cattolico nega ad un Vescovo l’autorizzazione a
incontrare gli studenti? Quando il crocefisso viene allontanato da qualunque luogo
pubblico? Quando un gay pride si può fare e una processione no? E vale ancora
dire “Buon Natale” se il cristianesimo viene nascosto nel vecchio Continente
cristiano? Vale se al cristianesimo è richiesto di rispettare l’islam senza
esserne rispettato? No, o “Buon
Natale” non vale più oppure vale come grido di rivolta morale e
culturale.
Il laicismo che è in corso è peggiore del nazismo e del comunismo
che, con altri mezzi ebbero gli stessi fini. Il nazismo volle sostituire il
cristianesimo e l’ebraismo col paganesimo, il comunismo con l’ateismo. Ma le
coscienze non erano pronte e i due regimi dovettero usare la violenza. Oggi non
c è bisogno di ricorrere alle purghe e ai campi di concentramento.
Oggi gli anticristiani conducono la loro battaglia all’insegna
degli stessi valori cristiani, e purtroppo tanti cristiani ci cascano.
L’eutanasia si pratica nel nome della dignità della vita e della misericordia. L’eugenetica
nel nome di non recare dolore agli innocenti. L’aborto nel nome della libertà
della donna. Il matrimonio omosessuale nel nome dell’amore col prossimo. Tra
poco, anche la poligamia sarà concessa nel nome del rispetto delle persone o
delle minoranze. E l’incesto, dopotutto, perché deve essere un tabù? Potrebbe
essere solo un’interpretazione, e siccome, come diceva quel tale, “non ci
sono fatti, bensì solo interpretazioni”, allora, cambiando vocabolario, anche
quel tabù potrebbe cadere.
Oltre a questo paradosso, le orde barbariche del laicismo ne
contengono un altro. Quelli che ieri ci sprangavano le teste gridando il
primato marxista della classe, della società o dello Stato sull’individuo sono
gli stessi che oggi predicano l’opposto, e cioè la priorità dell’utile, del
desiderio, del capriccio personale sul bene pubblico, sociale, collettivo. Gli
exmaestri del collettivismo sono diventati apostoli dell’individualismo. Sì
perché nella loro Neolingua liberale significa “libero di fare come si crede”.
Non sanno che liberalismo è
dottrina giudaico-cristiana fondata sul primato della persona e
quindi su principi e valori e proibizioni non negoziabili. Non sanno che
l’etica liberale presume quella cristiana. Non sanno che, senza il
cristianesimo, non ci sarebbe la nostra civiltà. Una cosa sola sanno: che il
cristianesimo è un ostacolo a quella dittatura del relativismo che ci vogliono
imporre.
Il nazismo e il comunismo fecero breve l’altro secolo, lo
scientismo e il laicismo potrebbero fare cortissimo questo. Dopo, a invaderci,
ci sarà l’islam, una religione di seguaci che credono ancora e che diffidano di
noi perché non crediamo più. O ci sarà qualche altra cosa, perché il vuoto che
le orde dei barbari laicisti lasciano sarà comunque riempito. Per fermarle, per
arrestare il degrado morale, per salvare la civiltà, occorre una nuova, più
difficile resistenza di credenti e non. Dunque: “Buon Natale!”.
Marcello Pera
FUNERALI DI WELBY:
MISERICORDIA E VERITÀ
LA
CHIESA PRESA DI MIRA PER I FUNERALI NEGATI
Quasi
sempre è madre
Qualche
volta maestra
NON CONVIENE mai
fidarsi, anche da credenti, delle proprie reazioni immediate quando si è in
piena tempesta emotiva, enfatizzata – è il caso di Welby – da una massacrante
campagna massmediatica e da un’indegna strumentalizzazione politica. Da notare
che uno dei risultati indiretti ma ormai noti di queste campagne mediatiche è
proprio il pesante condizionamento del senso critico e dell’autonomia nelle
valutazioni personali. Bisogna allora ragionare con pacatezza, soprattutto per
comprendere le motivazioni che hanno indotto la Chiesa di Roma a non concedere
i funerali religiosi per Welby.
Una prima osservazione d’obbligo: è scorretto giuridicamente ed
eticamente far leva su di un singolo caso – come hanno fatto i Radicali – per
imporre all’opinione pubblica e alla classe politica la richiesta di
risoluzione di un tema – l’eutanasia – di complessa valenza giuridica, dunque
generale. È vero: questa prassi, spesso utilizzata da Pannella e compagni, non
consente una equilibrata messa a punto delle molte implicazioni che tale questione
bioetica comporta. Ma, attenzione, non è solo il grande problema dell’eutanasia
a rischiare di essere inquinato, è anche il caso di partenza, quello concreto
del povero Welby, che per quanto ammantato di pietas risente di tutta la
strumentalizzazione che gli è stata riversata addosso.
Che cosa significa, allora, dopo tanto clamore e dopo le ripetute
dichiarazioni fatte dal protagonista, acconsentire ai funerali religiosi? Forse
approvare la lunga strumentalizzazione che era stata fatta? Anche in quel caso
ci sarebbe stato un problema d’immagine per la Chiesa, fosse pure quella di chi
accetta una cappellania rituale, a orpello di manovre ad essa esterne ed
estranee.
È questa – si può supporre – una delle ragioni che potrebbe aver
indotto la Chiesa a fare un passo indietro: accettare il “caso” singolo avrebbe
significato esporsi alla strumentalizzazione politica di quanti ne avrebbero
visto una forma di cedimento di fronte alla chiarezza del dettato cristiano: la
vita è indisponibile, non si tocca. Questo non ha significato certamente – come
da più parti si è pur obiettato – negare un atto di misericordia a Welby, se è
vero che in molte chiese, compresa la sua parrocchia, si è esplicitamente
inserito il suo dramma nella preghiera dei fedeli chiedendo a Dio la
misericordia e consolazione per i familiari.
La Chiesa è mater et magistra, molte volte madre
accogliente e premurosa, qualche volte maestra, che non significa giustiziera,
ma educatrice che dice la verità anche quando questa è dura e scomoda. Nello
scegliere la strada rischiosa e impopolare che poi è stata opzionata, si è
certo evocato il gesto del rifiuto, non tanto però verso chi è già nelle
braccia misericordiose del Padre, ma per quanti, attorno a quel morto, avevano
soffiato e soffiano sul fuoco della polemica, pretendendo un diritto – quello
di gestire la vita a proprio piacimento – che i credenti non possono accettare,
pena la perdita della verità della vita che è indisponibile perché sempre
donata. Come a Natale ha detto Benedetto XVI non si può cambiare ambiguamente
la vita con la morte; non si può reclamare pretestuosamente un diritto alla
vita quando c’è stata morte voluta, decisa, programmata. Non c’è dubbio quindi
che la Chiesa continua ad essere madre e che ogni credente percorrerà, insieme
ai pastori, la via della misericordia, portando ai piedi del Bambino le proprie
pene, ma anche il calvario di Welby con il suo terribile epilogo.
Ora si apre per la politica la via della riflessione e
dell’oggettiva valutazione del problema bioetico dell’eutanasia, una volta
attenuato il pathos del caso particolare. Ogni legislazione, per essere equa,
non può essere sottoposta all’urto violento delle emozioni, ma deve fare spazio
alla ragionevolezza dei tanti malati gravi ospedalizzati, che senza telecamere attendono,
per esempio, risposte certe sulle cure palliative e contro l’accanimento
terapeutico. Anche questo eviterà il ripetersi di future, angosciose
strumentalizzazioni.
Paola Ricci Sindoni
* * *
LA MISERICORDIA, la
libertà. E i rimestatori. Nei giorni successivi al tragico epilogo della
vicenda Welby è accaduto un fatto straordinario. Sui media si è dibattuto della
misericordia di Dio. Il tema più grande e misterioso, più antico e importante è
entrato addirittura nelle polemiche del giorno. Poteva essere, e in certi
passaggi lo è stato, un momento per aprire il cuore e la mente al più grande
mistero. Per restare in silenzio volgendo il cuore al più profondo senso delle
cose. Che poi fossero poche le voci disposte a riflettere con grandezza di
cuore e d’intelletto sulla misericordia di Dio e sulla libertà degli uomini,
non cambia la preziosità del momento.
È vero, hanno prevalso i discorsi dei formalisti, dei cinici
approfittatori, dei cavillatori interessati. Da un lato, c’è stata la posizione
della Chiesa: per l’anima di Welby, come per quella di chiunque, ci si affida
alla misericordia di Dio e la si invoca. Dio fa quello che vuole. Dice il
Salmo: la sua misericordia è eterna, e sovrasta l’uomo. Ma non ne elimina la
libertà.
Per rispetto alla libertà stessa del defunto e di tutti coloro che
invece desiderano ascoltare la voce della Chiesa, si è deciso di non celebrare
il rito del funerale religioso. L’atto compiuto deliberatamente da Welby era
contro la concezione della vita che la Chiesa insegna. Lo sapeva lui, e lo
sapevano coloro che lo hanno voluto accompagnare in un cammino di ricerca della
morte invece che in un cammino di speranza. Sarebbe stato mancare di rispetto
alla libertà di quell’uomo fare finta di niente. E pretendere, con la
celebrazione di un rito, di rendere tutto uguale. E sarebbe stato mancare di
rispetto verso coloro che, riconoscendo la vita come dono, e pur trovandosi in
situazioni simili o a volte peggiori, hanno deciso, in consonanza con la
visione cristiana, di non rifiutare il mistero di questo dono.
Nel momento del dolore, come insegna la vicenda dei due ladroni
inchiodati accanto a Cristo, la libertà di un uomo è messa alla prova. E può
decidere se abbracciare il Signore o la propria rabbia solitaria. La Chiesa ha
grande rispetto per la libertà, non pretende di essere il notaio di tutto e
tutti. E nemmeno di essere la padrona della misericordia di Dio.
Altri lo hanno preteso, ciarlandone a tratti in modo insulso. La
Chiesa sa che Dio fa quello che vuole. E che anche gli uomini, figli ad
immagine e somiglianza, fanno quello che vogliono. Tenendo conto di questo, la
Chiesa non si stanca di educare gli uomini a considerare Dio padre della vita e
destino buono per ognuno. Perciò esistono le sue indicazioni, che rispettano la
libertà di chiunque, e valgono per chi le riconosce. Invece in molti, con
cinismo e banalità, si sono voluti fare formalisti interpreti del costume
cristiano e si sono messi a giudicar la Chiesa, i cristiani e ad accusare
chiunque non plauda il loro progetto. Con un formidabile uso e abuso dei media,
con spregiudicatezza nello speculare sul dolore si sono voluti impancare a
giudici sulla vita e la morte. Hanno straparlato di grande battaglia ideale.
Vedremo se in nome di tale ideale, che in un funerale trova la sua pubblica
manifestazione, faranno battaglia entro un governo che sembra diversamente
orientato. E se, in caso di sconfitta, questi idealisti da bara,
rinunceranno ai loro importanti ministeri, alle poltrone. La misericordia di
Dio, come sempre, si cura poco delle chiacchiere sentimentaloidi e dei maneggi
del mondo. Segue altre vie. E non manca di sostenere chi la chiede con cuore
sincero, come mostrano mille e mille discrete e impressionanti testimonianze.
Davide Rondoni
JOPPICA... JOPPICA...
ALLA SCOPERTA DELLA VALLE
Pensieri sotto sforzo di un
montanaro improvvisato
SULL’ACCIOTTOLATO del sentiero
che si inerpica su per l’arido versante destro (sinistra orografica della Dora
Riparia) dell’alta Valle di Susa, di fronte a Chiomonte, risuona il passo
cadenzato dell’asino carico di provviste: joppica... joppica... Beh, se ce l’ha
fatta lui che era carico a salire!!!... Pensa te, un sestario di buon vino ed una
emina di buona segala. Cos’era già il sestario? Sì è vero, erano 42 litri, e la
emina la metà, quasi 23 litri, forniti da ognuna delle Frazioni committenti,
Cels e Ramats!
L’asino ha lasciato alle spalle la Ramats ed è già ai 1.450 metri
delle Grange Rigaud. Joppica.... joppica..., il passo sempre uguale si
attutisce sul sentiero sterrato riecheggiando nel silenzio della valle. Forse
c’era anche un cane con l’asino; almeno così dicono: affinità e solidarietà fra
bestie (ma il basto ce l’aveva solo l’asino) a volte più disposte degli uomini
a farsi compagnia. Il percorso non presenta difficoltà, a detta d’altri:
...un’ora per i più allenati, due per i meno. E che diamine, d’estate con tanta
caccia subacquea, in apnea, quindi a fiato dovremmo esserci!. Mah!, forse
un’ora e mezza. Però, ’sto Romean Colombano: ottantaquattro litri di vino al
mese!, quasi tre litri al giorno: è chiaro che volesse sfogare tutte quelle
calorie martellando la roccia! Joppica.... joppica... Si incominciano a
distanziare le terga dei compagni di salita, moglie compresa. E già, loro sono
montanari DOC mentre tu...!, il fiato!?: deve essere un’altra cosa che al mare;
e poi ci sono quei
chili abbondanti di sovrappeso che non posso lasciare per strada;
dovrò portarmeli lassù, fino ai 2.000 metri.
Joppica.... joppica... 1526 anno del Signore. A 51 anni il buon
Colombano Romean delle Ramats, pattuito tutto per iscritto, dà di piglio a
mazza e scalpello cominciando a bucare la montagna. Vuole sforare dalla parte
opposta del crinale, nella Valle della Toullie, di fronte al Monte Niblé, per
prelevare l’acqua preziosa che mancava alle genti di Cels in quel d’Exilles e
di Ramats in quel di Chiomonte.
D’altra parte anche l’asino era carico; no, non credo sovrappeso!.
Miseria, lui però a 4 zampe motrici, 4WD come direbbero adesso, mentre qui, con
la sola trazione posteriore...; e poi vogliamo mettere?!, c’era anche il cane,
dice la leggenda, che gli ...tirava la volata, magari girandosi indietro di
tanto in tanto, come fanno tutti questi che mi sorpassano; sembra Piazza d’Armi
ora!
Joppica.... joppica... 1533: dopo sette anni di solitarie
martellate, forate 300 tese (ogni tesa = m. 1,786) di dura roccia in un budello
largo mezza tesa ed alto poco più di una tesa, il miracolo è compiuto ed il
nostro Colombano sbuca nella Valle della Toullie; l’imponente monte Niblé di
fronte, la Val Clarea che digrada vertiginosamente a destra.
Sì ma qui bisogna farne un altro di miracolo: portare ossa e
frattaglie davanti questo benedetto Gran Pertus. Ma guarda quanti lamponi,
belli, rossi, maturi, un po’ piccolini, però dissetano come pochi!; dai che
prendiamo fiato!
Joppica.... joppica... Circa 530 metri di tunnel, per il modico
compenso di 1.500 fiorini di allora che farebbero ora meno di 3.500 euro, che
divisi per sette anni farebbero quasi 500 euro all’anno! Una miseria!; meno
male che non c’erano i sindacati!, o era lavoro autonomo!?
Urka!, ma tutti questi stanno già scendendo?!, meglio farsi da
parte ...e rifiata re. Questo qui con la barba grigia?: deve essere un medico
per essersi fermato un attimo a darmi un’occhiata, non devo avergli fatto una
buona impressione!
Joppica.... joppica... una modesta casetta per il meritato riposo
pattuì il Romean Colombano vicino al Pertus. Joppica.... joppica... Vuoi dire
che dopo più di 4 secoli resiste ancora ed è quella lì?; allora ci siamo!
Una lapide a memoria, sul bordo del sentiero, invita ad una prece
e ammonisce: “rispetta la montagna e questa non ti tradirà mai”.
foto omessa “Quattro Denti” (di fronte a
Chiomonte). [foto Sciarrillo]
Non era la casetta del minatore. Speriamo non sia qualcos’altro a
tradirci!
Quando i pini (i larici per l’esattezza) cominciano a diradarsi,
il panorama si apre sul Rocciamelone a destra, lo Chaberton a sinistra, alle
spalle l’Assietta mentre, se la giornata è chiara, verso il fondovalle si può
scorgere la collina torinese nella bruma. Ci siamo, eccoli i Quattro Denti un
po’ più su a destra! Ancora due piccoli tornantini ed il sorriso si apre,
vincendo la smorfia di fatica, sullo sguardo comprensivo e non più preoccupato
dei compagni in attesa. Cosa non sa darti la montagna!: panorami stupendi, il
rumore del silenzio e quant’altro, lasciato in basso, riesci a malapena a distinguere;
e poi la soddisfazione di aver raggiunto un traguardo con la propria fatica!
Un certo sig. Caso del CAI di Napoli (chissà se laggiù lo sanno!)
volle ricordare con una lapide l’impresa del Romean; era il 1879. Nel 1911 la
sezione CAI di Susa rifece la stessa lapide che oggi vediamo al di sopra della
galleria idraulica.
Buona quest’acqua, anche se poca!, ma si sa, ci sono i periodi di
magra... Un’ultima sorsata e giù sulla via del ritorno. Le gambe dolgono più di
prima ma tant’è, si va giù quasi per inerzia ed i lamponi dell’andata non si
vedono nemmeno.
Però, quanti notai e quanti litigi per quest’acqua da dividere in
due! Notaio di Chiomonte, 16 giugno 1651: i Consoli e gli abitanti di Chiomonte
e Ramats riconoscono di dovere in perpetuo una somma annua di 8 lire tornesi e
di 20 soldi ciascuna ai Consoli e comunità di Exilles, da pagarsi il giorno di
Natale. Non se ne saranno mica dimenticati?!; mi piacerebbe esserci alla
consegna, quest’anno; magari c’è anche la TV!
Un campanellino alle spalle si avvicina sempre di più.
All’improvviso sul sentiero compare un bracco dal pelo beige che con garbo ci
sorpassa lesto col suo campanellino tintinnante.
Ma guarda un po’, sembra il cane della favola!; e l’asino?!
Anastasio Sciarrillo