10/02/09

LE MEMORIE DI UN GIOVANE MONTANARO


LE MEMORIE DI UN GIOVANE MONTANARO

All’inizio del Settecento Bardonecchia, che apparteneva alla Francia da 350 anni – da quando cioè aveva cessato di esistere il Delfinato autonomo – era abitata da circa 180 famiglie e 800 persone: un altro migliaio di abitanti era distribuito nei paesi della conca, le odierne frazioni di Rochemolles, Melezet, Les Arnauds e Millaures.
In particolare a Millaures viveva una cinquantina di famiglie, tra cui quella del giovane Joseph Guiffre, che, come tutte, viveva delle magre risorse agro-pastorali di una montaga di nove mesi di inverno e tre mesi di inferno. Il nome di questo montanaro è giunto fino noi poiché egli aveva l’abitudine di annotare in un quadernetto gli avvenimenti del paese e della famiglia. Si tratta di annotazioni che partono dal 1703 e che ci offrono un contributo diretto, a tratti commovente, per rievocare – al di là dei resoconti ufficiali – gli eventi di cui ricorre il terzo centenario: accanto alla “grande storia”, di cui Bardonecchia visse in quel tempo una breve pagina, la “piccola storia”, quella che si conserva attraverso la testimonianza di un uomo qualunque, alle prese con i suoi problemi di quotidiana sopravvivenza. Cominciamo a scorrere il memoriale, nella traduzione dal francese, a partire dal 1706, anno del quale il Guiffre ricorda un solo evento, che evidentemente lo ha molto impressionato:
A sinistra: il duca di Savoia Vittorio Amedeo II.
A destra: il generale Otto Rehbinder. (collezione A. Bianco)



«Nell’anno 1706, il 12 maggio, alle nove e mezza del mattino il sole si è oscurato, la luce del giorno è scomparsa di colpo e si potevano vedere le stelle come di notte. Io e mio fratello Jean Pierre, che lavoravamo a Bardonecchia alla costruzione di un muro nel giardino di Jean Nevache, abbiamo dovuto smettere il lavoro perché non ci vedevamo più. Quando il sole si è oscurato faceva molto freddo, poi è cominciato a riapparire il giorno come se fosse l’aurora, e il sole era così accecante che non vi si poteva rivolgere lo sguardo».


Si trattava di quella stessa eclissi di sole che a Torino, nei giorni di apprensione per l’imminente assedio alla città da parte dei francesi, era stato interpretato come presagio favorevole: nel sole che si oscurava nel cielo era visto infatti il segno della sconfitta del Re Sole. Non solo: nell’oscurità improvvisa si vide bril lare la costellazione del Toro, ed anche questo fu assunto a simbolo della fortuna della città, che aveva il toro nel suo emblema. In effetti, dopo quattro mesi di durissimo assedio, le truppe di Luigi XIV verranno sconfitte nella memorabile battaglia del 7 settembre.
Ma la eco di quegli avvenimenti, che mutarono il corso della storia europea, probabilmente non giunse fino a Millaures, neppure nell’anno successivo, quando la guerra di successione spagnola continuava, ma ormai su fronti lontani, e Bardonecchia restava saldamente in mano francese. Anche per il 1707 un solo avvenimento è annotato dal Guiffre:
«Nell’anno 1707 i soldati sono rimasti in paese sino alla fine di maggio. Nello stesso anno, il 6 giugno, nella notte di San Claudio, e il successivo giorno 7 fino al pomeriggio, è caduta una pioggia incessante, che ha portato via tutti i ponti da Rochemolles fino a Oulx, ha distrutto tre case a Bardonecchia, ha allagato la chiesa e ha fatto gravi danni. Attraversando Bardonecchia l’acqua ha scavato la strada dalla fontana della piazza sino oltre l’abitato, sulla via di Melezet, per un’altezza di mezza tesa».
Per la cronaca, l’altezza di mezza tesa corrisponde a poco meno di un metro. Quella del 1707 è una delle molte alluvioni disastrose che nei secoli hanno perio- dicamente sconvolto la conca di Bardonecchia. Ma nell’anno successivo il diario del nostro Joseph, redatto sempre senza enfasi, con un apparente distacco che sembra evocare la vita severa dei montanari, cambia registro: non si parla più di eventi naturali, bensì di quegli avvenimenti di cui stiamo celebrando il terzo cen- tenario:
«Nell’anno 1708, il 30 luglio il duca di Savoia è entrato in Bardonecchia con un grosso esercito comprendente truppe sue e di altre provenienze, cioè tedeschi, brandeburghesi, ussari, valdesi, che sono venute ad accamparsi nella piana di Bardonecchia».
 Va ricordato ancora che per i bardonecchiesi il duca di Savoia e il suo esercito rappresenta- vano il nemico. Che cosa era dunque accaduto?
Riprendiamo per sommi capi il filo delle vicende della guerra di successione spagnola, che da otto anni sconvolgeva l’Europa. Il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, dopo avere liberato la sua capitale, mirava a ulteriori rivincite sui francesi che, pur dopo lo smacco subito a Torino, conservavano il controllo della Savoia, oltre che delle loro valli del Chisone e di Susa, da Gravere in su.
Queste valli, al di qua delle Alpi, erano una spina nel fianco del Piemonte, e la loro conquista, da
secoli obiettivo della dinastia, diventava ora forse possibile.
Il 16 luglio 1708 il duca raduna a Susa un esercito di 37.000 uomini, compresi gli alleati imperiali guidati da Virico Daun. Il 19 luglio le truppe passano il Moncenisio e il 24 sono a Modane, il 28 a St. Jean-de-Maurienne. Sembrano intenzionate a proseguire la discesa nella valle dell’Arc, verso Chambery o, passando dal Galibier, verso Grenoble: così credono i francesi che accorrono a sbarrare il passo, sguarnendo le postazioni che si trovano al di qua delle Alpi.
Invece, con una mossa sulle cui vere motivazioni politico-militari gli storici ancora si interrogano (una strategia geniale per indurre in errore il nemico o una rinuncia forzata su pressioni forse di Vienna?), il duca decide di puntare su Bardonecchia e l’alta Valle di Susa. Ordina al barone di Rehbinder, un valoroso ufficiale svedese di origine estone, di risalire la valle dell’Arc; il 29 luglio questi arriva a Modane, dove lascia il grosso delle sue truppe e imbocca con 400 granatieri e 5 battaglioni il vallone che porta verso il colle della Rhô: qui arriva l’indomani mattina, dopo la notte passata nei pressi del Charmaix, e debella la debole guarnigione francese a presidio del valico. Quindi la discesa su Bardonecchia, dove i soldati però non si fermano, ma proseguono fino a Savoulx: in due giorni hanno percorso oltre 60 chilometri, superando le Alpi e un dislivello di duemila metri! Vittorio Amedeo II, appreso il buon esito dell’azione dell’avanguardia, decide di compiere anch’egli con il grosso dell’armata lo stesso percorso: il 1º agosto è a Modane e il giorno dopo, valicato il colle della Rhô ormai libero, scende a Bardonecchia, senza incontrare resistenza.
La data del 2 agosto 1708 può così essere assunta come quella in cui Bardonecchia entra di fatto a far parte del Ducato di Savoia, che diventerà poi Regno di Sardegna e quindi Regno d’Italia: in questi giorni possiamo quindi a buon diritto celebrare i 300 anni di Bardonecchia italiana, anche se la sanzione formale della sua annessione al Piemonte si avrà soltanto 5 anni dopo. A Bardonecchia il duca decide di accampare le truppe nei prati della conca per qualche giorno, mentre con i suoi ufficiali studia la situazione in vista di un possibile assedio a Briançon. E i soldati stranieri, si sa, non sono mai tra gli ospiti più benevoli. Ben se ne avvedono anche a Millaures, dove il nostro Joseph annota:
«Per tre giorni i soldati si sono dati al saccheggio, costringendoci a lasciare le case e a rifugiarci nei boschi o nei prati. Nella borgata Rochas sono rimaste solo tre persone: la moglie di Simon Medail, vedova e malata, un figlio di Sebastian Allizond, anche lui infermo, e la moglie di Jean Baptiste Blanc che viveva presso sua nipote, vedova di Michel Reuil. Sono stati perquisiti più di venti volte, spogliati e derubati dei loro vestiti. Sono rimasti soltanto quelli che non potevano scappare, gli altri si sono accampati bivaccando alcuni nelle grange Allemand, altri alla Testa del Ban di Rochemolles, tranne Blaise Allemand, Jean Rochas ed io Joseph Guiffre, che siamo andati sotto il Clos con le nostre cose e il nostro bestiame, e ci siamo rimasti fino al venerdì, quando i tedeschi e altri soldati di grossi distaccamenti sono penetrati nei villaggi e anche nei boschi per rubare e saccheggiare: non è rimasta una casa né una porta che non sia stata aperta o sfondata. Dopo aver prelevato nelle case e nei boschi una gran quantità di bottino e di bestiame, si sono ritirati nell’accampamento».
Il saccheggio, va detto, era una pratica comune a tutti gli eserciti di quel tempo, senza eccezioni: era il mezzo, ai nostri occhi brutale, di sostentamento dei combattenti. Non venivano risparmiati gli edifici religiosi, come, nel nostro caso, la cappella di San Claudio a Prerichard: se ne conserva un inventario che elenca i pochi arredi sacri rimasti dopo il «saccheggio delle armate dei tedeschi» del 1708. Gli infelici montanari, evidentemente indifferenti alle ragioni dei due contendenti, cercano di recuperare qualcosa e si rivolgono alla massima autorità presente a Bardonecchia:
«Qualcuno di noi è andato a lamentarsi dal duca di Savoia, comandante dell’armata, il quale ha ordinato di restituire i capi di bestiame che si potevano riconoscere: così Jean Medail fu Simon è riuscito a riconoscere la sua mula, Blaise Allemand ha ritrovato due mucche, mio fratello Michel Guiffre ha ricuperato il suo asino. Tutto il resto è andato perduto: mobili, biancheria e altre cose, anche ingenti somme di denaro e grandi quantità di cereali, senza contare foraggio, fave, piselli, cavoli e altre verdure. I saccheggi duravano tutto il giorno senza tregua, poiché l’ordine era di prelevare paglia, fieno, avena, orzo, segala, senza alcuno scrupolo e senza temere nessun castigo. Che Iddio ci doni la pace, attraverso la sua santa grazia».
L’invocazione della pace come dono di Dio testimonia la religiosità dei valligiani: le cappelle che punteggiano i pendii della nostra conca, in buona parte già esistenti all’epoca dei fatti di cui ci occupiamo, ne sono prova evidente.
Seguiamo ancora per qualche settimana, dopo la sosta a Bardonecchia, le vicende dell’armata piemontese e imperiale. L’obiettivo principale era ora la conquista del forte di Exilles, che sbarrando la valle consentiva ai francesi il controllo del territorio. Era difficile investirla solo frontalmente: occorreva l’appoggio di un’azione sul fianco, e per questo si era formato su ordine del duca un distaccamento di soldati al comando del generale Pallavicino che da Bardonecchia si era portato a Rochemolles, aveva risalito la Valfredda fino al passo Galambra per scendere alle Grange della Valle e attestarsi a Ramat sopra Chiomonte sin dal 2 agosto. Dopo un assedio di soli tre giorni, il forte sarà espugnato il giorno 12: per i piemontesi si trattava ora di utilizzarlo ai propri fini, riparandolo dai danni del- l’assedio e ristrutturandolo in funzione antifrancese. Per i lavori serviva mano- dopera locale, e anche Joseph Guiffre fu precettato: «Nel medesimo anno 1708 ci hanno mandati a lavorare alla demolizione del forte di Exilles e alla sua ricostruzione, a scavare trincee a Deveys e a San Colombano, poi ancora a Exilles a costruire ridotte e batterie per cannoni. I lavori sono continuati nel 1709. Ricevevamo una razione quotidiana di pane, mentre i tanti che andavano a lavorare a Susa alla Brunetta venivano pagati da Sua Altezza, in misura diversa uno dall’altro, ma non ricevevano il pane. Nello stesso 1708, intorno al giorno di Santa Caterina, ci fu un grande terremoto che provocò la scomparsa di una sorgente, che era abbastanza ricca, nel luogo detto Fontana Laurens».
La guerra sarà ancora lunga, i francesi tenteranno di recuperare i territori del- l’alta Valle e per qualche anno la popolazione dovrà di volta in volta convivere con gli opposti eserciti. A Bardonecchia i piemontesi lasciano una guarnigione per controllare le mosse del nemico, ma considerano ormai acquisita la sovranità sul territorio, tanto che ottengono un formale giuramento di fedeltà da parte
della popolazione, firmato il 5 gennaio 1709. Da parte francese si temono anche incursioni piemontesi oltre le Alpi, e si approntano le difese: ne è testimonianza il muro in pietre a secco, lungo circa 15 chilometri, fatto erigere nel 1709 dal duca di Berwick sul crinale che separa le valli della Clarée e della Guisane, a quote intorno ai 2.500 metri, ancora ben visibile dopo tre secoli.
Nelle annotazioni di Joseph Guiffre, dopo i drammatici eventi del 1708 c’è una pausa di due anni, alla quale fanno seguito ancora storie di violenza: «Nell’anno 1711 i francesi sono venuti ad accamparsi a Oulx, e sono passati dal colle della Rhô: ci hanno fatto ammassare grandi quantità di fieno oltre il ponte di Royeres, di paglia nei prati di Blanc e di legna a Oulx. Altre requisizioni nel 1712 ci hanno fatto la grazia di avvicinare il deposito delle tavole di legname. Dopo averci costretti a rifornirli fino al limite estremo delle nostre possibilità, se ne sono andati. Nel 1712, dopo che i francesi si erano ritirati, sono venuti a farci visita i tedeschi, rovistando nelle grange, nei fienili e nelle stalle».
Ma infine le armate si allontanano, e il nostro Joseph può finalmente rivol- gere la sua riconoscenza al Signore: «Lodato sia Dio che con i frutti della terra ci nutre come figli suoi: il Signore Dio, nella sua bontà, ci ha fatto il dono di una tregua». Per la pace definitiva occorre attendere ancora qualche mese, fino al trattato di Utrecht del 12 aprile 1713, con il quale il re di Francia cede al duca di Savoia il forte di Exilles, le valli di Pragelato, Cesana, Oulx, Bardonecchia, Fenestrelle e Casteldelfino. La notizia è così riportata dal Guiffre: «Nell’anno 1713, il 9 aprile domenica delle Palme, ci è stato annunciato un armistizio per il giorno 12, sino a nuovo ordine, con l’abolizione di tutti i prece- denti divieti di commercio con la Francia: ci è stato comunicato che potevano ritirare un certificato coloro che intendevano recarsi in Francia o fare commerci tra Piemonte e Francia. Nello stesso anno 1713, il 6 agosto, Sua Altezza Reale ci ha fatto conoscere la pace conclusa con la Francia e la Spagna, dandoci istru- zioni per l’accensione di falò in segno di gioia. Il giorno 13 ha emanato l’ordine ai rappresentanti delle comunità, cioè consoli, consiglieri e altri notabili, di andare a prestare il giuramento di fedeltà».
Il giuramento, conservato nell’Archivio di Stato di Torino, si è tramandato idealmente da una generazione all’altra fino ai giorni nostri, attraversando i profondi mutamenti negli assetti della società e delle istituzioni, ma conservando un valore simbolico di adesione alla comune patria italiana. Per questo ci è sem- brato giusto oggi, quando il tempo delle guerre di conquista è stato archiviato – si spera per sempre – nel gran libro della storia a beneficio della naturale fratel- lanza con i vicini francesi nello spirito della nuova Europa, richiamare alla memoria questi fatti, minori certo ma annoverabili a pieno titolo tra gli episodi fondanti dell’unità nazionale, di cui tra poco celebreremo i 150 anni.
Alessandro Bianco