04/11/13

ATTUALITA' (2012)

Argomenti:
San Giacomo alle Grange Fréjus (25 luglio 2012)
Cappella del Monserrat
San Bartolomeo alle Grange Vernet (24 agosto 2012)
L’Anno della Fede
Il Concilio Vaticano II in breve
“I Tabachin”
La quiete della gran tempesta
La regina delle Alpi piemontesi in estate e d’inverno

San Giacomo alle Grange Fréjus (25 luglio 2012)
La borgata di montagna delle Grange Fréjus si erge lungo la strada che da Bardonecchia sale verso il colle del Fréjus ed è tradizione che ogni estate, come per le altre borgate della conca, in occasione della ricorrenza del suo Santo Patrono, venga raggiunta da una processione per la celebrazione della Santa Messa. Dalla chiesa parrocchiale il pellegrinaggio percorre il sentiero che si snoda da Borgo Vecchio e che, costeggiando l’antica Tur d’Amun, sale verso le Grange Fréjus: da una decina d’anni circa tale sentiero è stato arricchito da belle tavole in legno scolpito raffiguranti le stazioni del Santo Rosario, realizzate dal maestro scultore Angelo Vachet e da Piergiorgio Conti, con la collaborazione di Sergio Ambrois, Umberto e Mario Ambrois e della famiglia che, nella bella stagione, risiede alla borgata per la gestione degli alpeggi Fréjus e Pian delle Stelle. Le tappe di preghiera scandiscono la risalita fino a giungere alla Cappella, dedicata al culto di San Giacomo, nel cui prato antistante viene celebrata la S. Messa con la distribuzione del pane benedetto, seguita da una gradita colazione, offerta dalle famiglie delle Grange.
L’Atto di Benedizione della Cappella, quale fonte storica giunta fino a noi e presente negli archivi parrocchiali, narra di una rifondazione avvenuta nell’anno 1685: «Il 25 del mese di luglio 1685, alle ore 9 del mattino, in seguito al permesso del Signor Jean de Pourroy, Abate e Prevosto di Oulx, la Cappella eretta con il titolo del grande santo Giacomo, detto il Maggiore, nella frazione della montagna delle Granges ricostruita in altro luogo, completamente rifatta, è stata benedetta da me Jerome Andrè, Parroco di Bardonecchia, sottoscritto, assistito dal Sig. Claude Poncet, prete e teologo, di Melezet e Jean de Nevache, prete.

San Giacomo alle Grange Fréjus,
benedetta dal Parroco Jerome Andrè
il 25 luglio 1685. [foto C. Marino]

La suddetta Cappella dovrà servire secondo l’antica destinazione, come succursale della parrocchia per i villaggi di montagna, da quello di Serre, Merdovine, Chalances, Grauvières e di ogni luogo nelle dipendenze. In seguito a questo, la Messa parrocchiale della festa di San Giacomo, è stata solennemente cantata, con la predica tenuta dal Sig. Antoine Joseph Charbonnel, dottore in teologia, Parroco di Nevache, in presenza dei signori soprannominati e di numerosi fedeli. Atto sottoscritto da Jerome Andrè, Parroco di Bardonecchia, e da Claude Poncet, prete, Jean de Nevache, prete, Charbonnel, Parroco di Nevache, con le firme di Agnès, Tournoud, Denevache, Allizond, Barbier».
I volumi ed i registri parrocchiali ci ricordano inoltre come nei pressi delle Grange Fréjus fosse presente, in borgata Serre, una Cappella dedicata a N. S. della Pietà, Sant’Ippolito e San Giorgio, costruita nell’anno 1759 per volontà di Caterina Morel e benedetta nel 1762 dal Parroco don Agnès: purtroppo tale Cappella è andata distrutta e non è giunta fino a noi, ma il suo ricordo testimonia comunque la grande fede che ha sempre animato le genti di queste montagne.
La Cappella delle Grange Fréjus, come detto, è dedicata al culto di San Giacomo Maggiore (così tradizionalmente detto per distinguerlo dall’Apostolo omonimo Giacomo di Alfeo detto Minore), patrono di pellegrini, viandanti, cavalieri e soldati. Fu uno fra i più carismatici dei dodici Apostoli di Gesù, fratello dell’Apostolo ed Evangelista Giovanni, nato a Betsaida in Galilea e, sino alla chiamata del Maestro, pescatore con padre e fratello sul lago di Tiberiade. Giacomo e Giovanni furono tra i primi discepoli e seguirono Gesù dopo che Giovanni Battista lo ebbe indicato loro come il Messia, e a loro si unirono Simon Pietro e Andrea.
Con gli altri Apostoli accompagnò il Maestro durante la sua vita pubblica e, insieme a Pietro, fu testimone della trasfigurazione e del colloquio con Mosé ed Elia, del miracolo della risurrezione della figlia di Giairo e dell’ultima notte al Getsemani alla vigilia della Passione.
Dopo la morte e risurrezione del Cristo, Giacomo divenne un importante elemento della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme e, secondo quanto narrato sin dall’antichità, si imbarcò per la penisola iberica dove evangelizzò l’Andalusia e parte del Portogallo, arrivando fino alla Galizia, remota regione di cultura celtica all’estremo ovest della Spagna. Tornato in Palestina proseguì con determinazione la sua missione evangelizzatrice, nonostante la sempre crescente opposizione delle autorità, ma il re della Giudea Erode Agrippa, per placare le proteste delle autorità religiose, compiacere i giudei ed assestare un duro colpo alla Prima Chiesa Cristiana, individuato Giacomo quale figura più rappresentativa, lo condannò a morte per decapitazione, nell’anno 42.
L’Apostolo Giacomo venne così imprigionato, flagellato ed ucciso, divenendo il Primo Martire del Collegio Apostolico.
Sempre secondo le antiche narrazioni, due discepoli di Giacomo, Attanasio e Teodoro, ne raccolsero il corpo e lo trasportarono da Gerusalemme fino alle coste della Galizia, ad Iria Flavia, il porto romano più importante della zona. Il sepolcro contenente le sue spoglie, di cui nei secoli si persero le tracce a causa delle persecuzioni e delle proibizioni di visitarlo, venne riscoperto sul monte Liberon dal Vescovo Teodomiro nel IX secolo grazie alla visione di «strane luci simili a stelle» avuta dall’eremita Pelagio: da allora il luogo di sepoltura di Giacomo venne denominato campus stellae (campo della stella) o compus tellum (terreno di sepoltura). La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi nel corso del Medioevo, ed il luogo prese il nome di Santiago (da Sancti Jacobi, in spagnolo Sant-Yago) dal quale deriva l’attuale nome di Santiago de Compostela, capoluogo della Galizia: qui, nel 1075, iniziò la costruzione della grandiosa Cattedrale a lui dedicata.
Quando la Spagna cadde sotto l’occupazione araba, i cristiani spagnoli tributarono a San Giacomo un culto fiducioso e appassionato, e la fede nella sua protezione divenne lo stimolo per la riconquista, tanto che la leggenda narra come l’Apostolo fosse apparso alla guida delle truppe cristiane durante alcune battaglie. L’Europa cristiana iniziò i pellegrinaggi a Compostela già nel corso del X secolo e da allora divenne uno dei tre principali pellegrinaggi della cristianità, insieme a Gerusalemme e Roma. Il Cammino di Santiago di Compostela è il lungo percorso che i pellegrini affrontano sin dal medioevo, percorrendo strade francesi e spagnole attraverso i passi pirenaici di Roncisvalle e Somport per il camino aragonès ed il camino francés, e giungere infine al Santuario. Il Camino de Santiago è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco e Itinerario Culturale Europeo dal Consiglio d’Europa.
San Giacomo (la cui etimologia del nome ebraico è colui che segue Dio), ha come emblemi bastone, otre, borsa e cappello da pellegrino e la conchiglia.
La grandiosa basilica diSan Giacomo
a Compostela, iniziatanell’anno 1075.
[foto C. Marino]

Giungere a Santiago, visitare la sua grandiosa cattedrale e baciare la preziosa reliquia di San Giacomo è stata, per chi scrive, un’esperienza unica ed emozionante, poiché tra la moltitudine di devoti e di pellegrini che vi si incontrano, sono veramente ancora presenti l’appassionata realtà della fede e della speranza. Là dove in un tempo lontano si credeva fosse l’estremo limite delle terre conosciute, la finis terrae, punto di congiungimento delle anime dei morti pronte a seguire il sole nel suo corso per attraversare il mare, si erge ora uno dei pilastri della cristianità, e credo che nel suo piccolo la Cappella di San Giacomo delle Grange Fréjus fosse ugualmente un pilastro di vera fede per le popolazioni che l’hanno costruita e custodita nei secoli con amore.
Chiara Marino

Fonti e Approfondimenti:
Atto di Benedizione della Cappella di S. Giacomo alle Granges - 1685 - Archivi Parrocchiali
P. FOURNIER, Giacomo Apostolo, Edizioni Città Nuova, 2012
G. BERSON, Con San Giacomo a Compostela, Lindau Edizioni, 2008
D. AGASSO, San Giacomo il Maggiore - Famiglia Cristiana
D. PERICARD-MEA, Compostela e il culto di San Giacomo nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 2004
P. CAUCCI VON SAUCKEN (a cura di), Guida al Cammino di Santiago de Compostela, ed. Terre di Mezzo

Cappella del Monserrat
«Il titolo di “Monserrat” venne aggiunto alla Cappella della Visitazione nel 1700 per il voto di un marinaio di Bardonecchia, Jean Montoux, che, salvatosi da un naufragio sulle coste della Spagna, portò la devozione alla Madonna venerata sulle montagne della Catalogna.
Nel 1800 la Cappella ebbe cure particolari da Giuseppe Medail che ne era Procuratore. La fece restaurare a proprie spese e vi pose un quadro della famiglia, inginocchiata ai piedi della Madonna»
(da “Bardonecchia e le sue Valli”, pag. 37).
[foto M. Medail]

Con il 2012 per la Cappella del Monserrat si è probabilmente concluso l’iter dei lavori di consolidamento, ristrutturazione e restauro che erano iniziati nel 2001. Nel decennio trascorso, in fatti, numerosi sono sta ti gli interventi effettuati. In particolare:
– nel 2001: realizzazio ne di uno scavo a nord, ad est ed a ovest della Cappella, della profondità di 4-5 me tri e l’installazione, nel medesimo, di un tubo microfessurato del diametro di 25 cm. Scopo, quello di portare all’esterno e ventuali infiltrazioni d’acqua che avrebbe ro potuto arrecare dan no alla Cappella;
– nel 2002: realizzazio ne, alle fondamenta della facciata, di uno sbarramento costitui to da 20 pali di ac ciaio della lunghezza di 9 metri, infissi nel terreno e bloccati tra loro, nella parte sporgente di un metro, di un collare di cemento armato; realizzazione del sagrato e della scalinata di accesso;
– nel 2003: chiusura delle numerose crepe presenti sui muri perimetrali e della volta; consolidamento della parete est, gravemente compromessa dalle numerose crepe, mediante l’iniezione di cemento liquido per un totale di 50 quintali di cemento; posa degli autobloccanti del sagrato ed in stallazione della ringhiera di protezione del medesimo; tinteggiatura della parte anteriore della Cappella;
– nel 2005: rifacimento del tetto previo lo smantellamento delle la miere, ormai arrugginite (erano state
installate nel 1975), sostituite con altre lamiere coperte con scandole di legno; intonacata la parete
esterna a nord;
– nel 2006: demolizione del pavimento in cemento delle due Cap pelle e realizzazione del pavimento con listoni in legno di larice; rasatura dei muri perimetrali interni e riparazione dei cornicioni in scagliola; sostituzione delle inferriate delle finestre e installazione di una nuova finestra situata sulla facciata della Cappella, scongiurando, in tal modo il pericolo di infiltrazioni di neve portata dal vento nel periodo invernale; tinteggiatura della Cappella ove è situato l’altare;
– nel 2007: demolizione e rifacimento della gradinata presente all’interno per l’accesso alla Cappella dell’altare; verniciatura dei pavimenti in legno;
– nel 2008: restauro dell’affresco, risalente all’anno 1761, raffigurante “l’Annunciazione”, posizionato sopra la porta di accesso alla Cappella dell’altare; restauro di un quadro gravemente danneggiato dai ladri vandali in occasione dei tre furti perpetrati nella Cappella il 26 luglio e 23 settembre 1981 e 30 settembre 1983;
– nel 2012: lavori di restauro dell’altare settecentesco, con recupero delle colorazioni originali e integrazione delle dorature deteriorate, nonché pulitura e restauro dei 10 candelabri e della croce; acquisto di “finte candele” per la definitiva sistemazione dell’altare.

I numerosi lavori eseguiti sono stati in parte finanziati grazie alle donazioni da parte di anonimi benefattori, con il finanziamento del Comune di Bardonecchia, con i fondi della Parrocchia, con le offerte dei fedeli in occasione della ricorrenza del 2 luglio. Ma anche grazie all’opera meritoria dei volontari che hanno eseguito dei lavori gratuitamente.
S.M.

Fiori d’inverno
Attorno al presepe dell’Epifania
carezze di rami freschi di calicantus
fiori d’ambra e d’oriente
aperti dalla luna nella brina di
gennaio.
Suggestioni d’inverno
e profumo di paese
resistono
in immagini lontane e chiare
nella sera limpida
dopo la neve.
gennaio 2012 Maria Fiorenza Verde

San Bartolomeo alle Grange Vernet (24 agosto 2012)
...Sancta Maria, Mater Dei... Siamo alla prima sosta per la prima decina del Rosario che reciteremo salendo al Vernet. Meno male che ad iniziare le decine dispari tocca a don Giorgio, che non sembra aver risentito dell’impennata del sentiero: se gli astanti avessero dovuto cominciare la prima Ave Maria, forse il coro avrebbe avuto qualche defezione. Al canto però il fiato è tornato, e dopo si riprende la salita, più ripida di prima, verso la seconda stazione, nel silenzio interrotto solo dallo scalpiccio sullo sterrato.
«Volete che Mirko riceva il Battesimo nella fede
della Chiesa che tutti insieme abbiamo professato?».
«Sì, lo vogliamo». 
«Mirko, io ti battezzo nel nome del Padre
e del Figlio e dello Spirito Santo»
 (dal Rito del Battesimo). [foto L. Tancini]
Ma ecco che lassù, in cima al tratturo, appare e si ferma un fuoristrada; prode lui, conducente in macchina, e per giunta in discesa, la tecnica contro il cavallo di Sant’Antonio.
Sì, sì, scenderà anche facilmente, ma non sa di perdere una sottile soddisfazione che pervade l’anima, i ricordi, mentre le gambe si muovono a ritmo, il pensiero va libero ed i sensi s’immergono nei suoni e negli odori del bosco ancora in ombra. Gli passiamo accanto, con l’intima certezza della superiorità di gusto degli eletti.
E stavolta, alla seconda stazione, l’attacco della preghiera tocca ai fedeli; ma nell’attesa di quelli più arretrati sul sentiero, il fiato torna ed il coro è unanime. Un canto di conclusione e via per la terza tappa, i muscoli ben caldi ed il cuore al giusto ritmo. Ma dal basso sale il rumore di un motore e compare un altro fuoristrada; uno che scendeva, l’altro che sale, non è che stamane qualcuno voglia persuaderci che camminare non è più di moda, neanche in montagna? Vada, vada pure, tanto quel raccoglimento che il passo cadenzato, calmo, consente a chi sale a piedi, è negato al guidatore immerso nella tecnica del mezzo. Peggio per lui.
Passiamo anche la terza stazione, e la quarta; ma di nuovo la macchina in discesa! Nooo, certo che, se ci si aspettava che qualcuno demordesse e dovesse ricorrere al trasporto meccanico, s’erano fatti dei conti sbagliati. Scendi, scendi pure cara vettura, siamo tutti qui, e stavolta anche ben vicini, neanche sparsi lungo il sentiero, e nessuno richiederà un trasporto, se non alle proprie gambe.
E recitando le litanie della Madonna, arriviamo finalmente in vista delle baite del Vernet; 300 metri di dislivello in un’oretta, non malaccio per una comitiva di oranti senza pretese sportive. Visto che tutte quelle vetture erano inutili?
Ora siamo pronti per assistere alla celebrazione della S. Messa; c’è don Giorgio, e don Franco è tornato a tempo da Parigi? Ma certo! È laggiù, sceso fresco fresco da una vettura, che chiede sollecito se siamo trafelati, e come mai...
Pondus corporis, reverendo, quel peso del corpo che la macchina non fa sentire, ma le gambe, e gli anni, sì!
Mentre si allestisce l’altare, ecco che i fuoristrada di prima, più qualcun altro, arrivano adagio dal fondovalle, stavolta carichi di persone: e non sono volti di soliti villeggianti “snob” che passerebbero caricandoti di polvere, passano adagio, con cautela... La curiosità vien spiegata da don Franco prima dell’inizio della S. Messa: durante la funzione ci sarà il Battesimo di un bimbo, Mirko, figlio di due giovani di Bardonecchia.
Nell’attenzione di tutti si svolge la celebrazione: “Gloria in excelsis Deo...”, e l’inno viene continuato nel latino della Missa de Angelis... per un momento penso che don Franco rimanga pressoché solo a cantare in latino, ma mi accorgo che quasi tutti accompagniamo con le note e le desinenze giuste.
Ricordo una S. Messa domenicale, tanti anni fa a Dompierre, nel centro della Francia, al canto maestoso dei monaci, lievemente accentuato sulle finali, con le “u” un po’ più dure. Alla Collegiata di Briançon, forse alla stessa ora, canteranno lo stesso “Gloria” alla S. Messa solenne, e così alla Frauenkirche a Monaco, alla Cattedrale di Sant’Jago a Compostela, sul fronte dell’oceano lontano...
E dire che qualche Guiscardo d’oltralpe, ma anche qualche intellettuale cispadano, rifiuta di riconoscere le millenarie radici cristiane d’Europa e si ferma superbamente ad un Illuminismo francofono giovane di duecent’anni o poco più, addirittura ostinandosi a definire la date come e.v. (evo moderno) anziché d.C. (dopo Cristo)... già, ma l’evo moderno quando comincia?
... Et in terra pax hominibus bonae voluntatis... quanta ce ne vuole di buona volontà a tenere insieme, in pace, anche solo un pugno di europei dilaniati dall’ansia del vantaggio monetario, senza più, forse, un forte disegno sociale comune ed il rispetto del lavoro degli umili... solo l’adorazione del vitello d’oro.
Mi distraggo quasi, ma le parole continuano a fluire, da sole, sulle note del tetragramma, così come apprese in una lontana adolescenza...
La S. Messa procede, la lettura testamentaria corre, ma non crea immagini; nella mente e nel cuore c’è il ricordo di una chiesa salesiana, di voci squillanti di giovanetti, di qualche stecca indotta dal trapasso tonale dell’adolescenza, di don Bernardo che copre magistralmente con i registri bassi dell’organo.
Ma al Vangelo una frase di Giovanni richiama al presente ed assume oggi un particolare rilievo: «“Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto il fico”, dice Gesù a Natanaele (Bartolomeo)». Don Franco stimola una meditazione, e viene spontaneo pensare che, prima che i tuoi genitori ti portassero quassù, piccolo Mirko, Gesù ti ha visto, come vide ciascuno di noi, e ti ha offerto la sua amicizia, caro “cucciolo d’uomo”; amicizia
che, se vorrai, potrà durare per sempre. Forse anche tu, come gran parte di noi, in qualche momento ti comporterai come un Pietro impaurito in quella notte di tregenda, ma tornerai presto all’Amico che ti attende disponibile. Ecco, don Franco sta chiedendo ai tuoi genitori conferma del loro impegno a crescerti secondo l’insegnamento di Gesù;
e quest’impegno che essi assumono di fronte a tutti, coinvolge anche noi in qualche modo a mantenere, con l’opera e l’esempio, quell’ambiente sociale cristiano nel quale essi hanno dichiarato di volerti crescere.
Non per nulla abbiamo risposto coralmente “Credo” allo proposte di Fede che don Franco ci ha rivolto. È bella questa S. Messa, è ricca, è impegnativa.
Bravo, Mirko, ci hai dato una bella occasione: benvenuto! E non hai neppur cacciato uno strillo in tutta la funzione, neanche allo scorrere dell’acqua battesimale sulla fronte. La funzione va a terminare, con la distribuzione del pane e la benedizione dei partecipanti; dopo di che – pregevole pensiero predisposto dagli ospiti del Vernet – ci aspetta una buona colazione, sempre apprezzata dopo una camminata mattutina nell’aria frizzante del bosco.
Quattro chiacchiere, poi si scende; passo dal Chaffaux, e vedo con piacere che stanno restaurando la Cappella di S. Maddalena. Ricordo con tenerezza un’altra Cappella dedicata alla Maddalena, a picco su una valle profonda, non lontana da qui, ultimo resto di una comunità che vi si raccoglie, sempre più ridotta, una sola volta l’anno. Da sempre mi ha affascinato la figura di Maria di Magdala, che secondo Giovanni, fu la
prima testimone della risurrezione di Cristo. Scendo in fretta, approfittando dei garretti per ora ancor solidi, per distanziare chi mi segue e godere di un po’ di solitudine nel bosco; ma mi manca qualcosa...
Quando avevo imparato a cantare il Gloria, la S. Messa finiva con la proclamazione dei primi versetti del Vangelo di Giovanni, allora in latino sulla cartagloria di sinistra, in “cornu Evangelii”, come prescriveva la liturgia canonica preconciliare:
«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di Lui
e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In Lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini».
Dopo queste parole è chiaro perché Lui ha visto Natanaele sotto il fico, prima ancora che Filippo lo chiamasse, perché ha visto Mirko, perché ha visto noi prima che ci presentassero al fonte battesimale, perché l’amicizia che ci offre è più che preziosa...
Ma non usa più ricordarlo...
«... il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora fede sulla terra?».
Lo scampanio di mezzogiorno sale sereno da Bardonecchia ormai vicina e copre con rinnovata certezza il versetto dubbioso del Vangelo di Luca.
C.C.

In questi decenni è avvenuta una desertificazione spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio dall’espansione di questo deserto che possiamo nuovamente riscoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne.
BENEDETTO XVI
(omelia dell’11 ottobre 2012 per l’apertura dell’Anno della Fede)

L’Anno della Fede
«La fede è un dono di Dio... Beato te che hai fede...», sono le osservazioni che udiamo spesso ripetere e che vengono riferite, quasi, per scusare chi non ha ricevuto questo prezioso dono di Dio. Se però ripensiamo al Vangelo ed alle parole di Gesù ci accorgiamo subito che in realtà la fede non è soltanto un dono gratuitamente avuto e, quindi, non meritorio, in quanto Gesù si è espresso diversamente: «La tua fede ti ha salvato... Abbi fede e sarai salvo... Chi non crede sarà condannato...». La fede deve essere quindi oggetto della nostra ricerca e conquista. Forse, però, a volte, abbiamo della fede un concetto limitativo ed  incompleto: «Se credo di ottenerla, certamente il Signore mi concederà la grazia che gli ho chiesto». La vera fede non è solo la “speranza” e neanche la “certezza” di ottenere ciò che desideriamo, ma presuppone una
fiducia completa in Gesù, un’adesione della mia libertà a lui, alle sue parole, alla sua presenza.
Si tratta di un’accettazione della sua volontà, di un’unione con lui che mi fa desiderare e ricercare ciò che lui mi chiede. Se credo, accetto quanto Gesù mi chiede.
Se ripensiamo il cammino di fede che abbiamo fatto nella nostra vita, dopo le prime preghiere recitate in famiglia, dopo i primi insegnamenti di sacerdoti e suore, ci accorgiamo che la vera fede è nata quasi misteriosamente da un desiderio di riporre la nostra fiducia in qualcuno di cui sentiamo il bisogno, con cui vogliamo collaborare ed a cui vogliamo offrire la nostra esistenza. È una chiamata ed è sempre Dio che ci cerca per primo.
Il Papa Emerito Benedetto XVI ha voluto richiamarci a riflettere sulla grande virtù della fede e ci ha proposto un anno intero di riflessione e di preghiera proprio perché ciascuno di noi esamini il suo modo di credere ed aumenti la sua fede. Ha indetto l’Anno della Fede con la Lettera Apostolica “Porta Fidei” datata 18 ottobre 2011, in cui, tra l’altro, scrive: «In questi decenni è avanzata una desertificazione spirituale. Cosa significhi una vita, un mondo senza Dio, purtroppo, lo vediamo ogni giorno attorno a noi ... Ho deciso di indire un “Anno della Fede” con inizio l’11 ottobre 2012 e conclusione il 24 novembre 2013 ... L’Anno della Fede è un invito ad una autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Desideriamo che questo Anno della Fede susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza».
Tutti i giornali, dell’Anno della Fede, ne hanno parlato e le iniziative di riflessione e preghiera sono state molte. Nella nostra parrocchia l’Anno della Fede ha suscitato il desiderio di una conoscenza più approfondita dei Documenti del Concilio Vaticano II che è stata curata dal Parroco attraverso riunioni mensili, rispondendo così a un consiglio del Papa stesso: «Più volte ho insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio ... cioè ai suoi testi per trovare l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo ... né ha voluto sostituire quanto è antico ... piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede viva in un mondo in cambiamento» (dall’omelia dell’11 ottobre 2012 dell’inizio dell’Anno della Fede).
Tre conferenze di riflessioni e spiegazioni del “Catechismo della Chiesa Cattolica” sono state svolte dalle insegnanti Laura Mainardi e Chiara Rossetti.
Il diacono Armando Lazzarin, in due cicli di tre lezioni, ci ha fatto meditare su alcune verità contenute nel “Credo”, ed il Parroco di Sestriere don Giorgio Nervo ci ha ulteriormente fatto approfondire ed apprezzare i contributi della nostra fede anche alla luce di recenti studi.
Iniziative, anche queste, suscitate dal Papa: «In questo Anno della Fede il Catechismo della Chiesa Cattolica potrà essere un vero strumento a sostegno della fede, soprattutto per quanti hanno a cuore la formazione dei cristiani, così determinante nel nostro contesto attuale» (Porta Fidei, 12).
L’Anno della Fede ci aiuti a ricordare che il Vangelo di Luca inizia con la figura di Maria dicendo di lei: «Beata colei che ha creduto», e il Vangelo di Marco termina con l’espressione: «Chi crederà... sarà salvo».
Milena Rossetti

Il Concilio Vaticano II in breve
Il Concilio fu annunciato a sorpresa da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959. La fase preparatoria durò più di tre anni. L’11 ottobre 1962 ebbe inizio la prima sessione di lavori, con la celebrazione liturgica e il discorso  Gaudet Mater Ecclesia, doppiato la sera stessa dal Discorso alla luna pronunciato in una piazza San Pietro gremita di pellegrini.
L’8 dicembre 1962 i lavori furono sospesi senza che fosse stato promulgato nessun Documento; i Padri bocciarono infatti quasi tutti i testi redatti nella fase preparatoria e si rese necessario un periodo di riflessione durante il quale, il 21 giugno 1963, Paolo VI successe a Giovanni XXIII, morto il 3 giugno, un mese dopo aver pubblicato l’Enciclica Pacem in terris. I lavori ripresero il 29 settembre 1963. Fino all’8 dicembre 1965 si successero altre tre sessioni, più o meno coincidenti con i mesi di settembre-dicembre degli anni 1963-1965.
Il Vaticano II ha emanato 16 Documenti, tra Costituzioni, Decreti e Dichiarazioni.
Le Costituzioni sono: Sacrosanctum Concilium sulla liturgia; Lumen gentium sulla Chiesa; Dei Verbum sulla divina Rivelazione; Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
I Decreti: Inter mirifica sui mezzi di comunicazione sociale; Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche; Unitatis redintegratio sull’ecumenismo; Christus Dominus sull’ufficio pastorale; Perfactae caritatis sul rinnovamento della vita religiosa; Optatam totius sulla formazione sacerdotale; Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici; Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa; Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri.
Le Dichiarazioni: Gravissimum educationis sull’educazione cristiana; Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane; Dignitatis humanae sulla libertà religiosa.

“I Tabachin”
Quando un giorno del 1948 la signora Isolina Masset uscì a comprare un francobollo per spedire una lettera alla sorella in Francia, non poteva immaginare che sarebbe tornata a casa con una tabaccheria! Da  quell’anno infatti la storia della famiglia Masset si legò alla tabaccheria n. 1 di Borgovecchio e l’attività che cambiò la loro vita durò per più di 50 anni.
La famiglia Masset, originaria di Rochemolles, dopo la pensione di papà Giovanni si era trasferita in Borgovecchio. I tre figli erano giovani, tutti intorno ai vent’anni: Angelo, il primogenito, nato nel 1919, era maestro ma in quegli anni lavorava al casinò dell’hotel Fréjus; Irene, nata nel 1925, che aveva imparato a cucire dalle donne del paese ed era andata a perfezionarsi alla scuola di taglio a Torino, faceva la sarta; Mario, il più giovane, classe 1928, era in attesa di partire per il servizio militare.
A dire il vero la tabaccheria si era già affacciata nella storia della famiglia, nel 1919, quando a papà Giovanni, tornato ferito dalla Grande Guerra combattuta sul fronte orientale, era stata offerta la licenza: ma la mamma, incinta di Angelo, non volle assumersi quell’impegno reputando più tranquillo l’impiego in ferrovia che stava per arrivare al marito.
La proposta che la tabaccaia di Borgovecchio fece in quel giorno del 1948 a mamma Masset non cadde nel vuoto: Isolina, tornata a casa, ne parlò in famiglia e tutti insieme decisero di comprare la licenza dal vecchio proprietario, Aldo Gerard, e di buttarsi nella nuova attività. I Masset, sempre uniti, senza mai risparmiarsi i sacrifici, iniziarono così la loro storia di commercianti.
Accanto alla tabaccheria, che c’è ancora oggi in via Giolitti, c’era il bar e nel retro c’era una piola con annessa la cucina.
Il bar e la tabaccheria erano comunicanti con due ingressi separati sulla via; il piccolo ristoro sul retro era inizialmente costituito da due ambienti e una grande stufa a legna li riscaldava entrambi. Mamma Isolina stava in cucina, papà Giovanni vendeva i tabacchi e i giornali, i figli erano i tuttofare: una piccola impresa familiare che cresceva negli anni grazie al coraggio di tentare e la grande voglia di lavorare. La piola divenne ben presto un unico ambiente, più accogliente e, ca piente e agli inizi degli anni ’50 i Masset seppero modernizzarsi e portarono a Bardonecchia i primi calcio-balilla e anche un ping-pong. Nella piola e nel bar, che rimanevano aperti anche la sera, si radunava la gioventù: gli altri locali del paese erano più vecchiotti, non offrivano attrattive per i giovani, mentre quello gestito dai tre giovani fratelli Masset era un ritrovo nuovo con più vita e con moderne possibilità di divertimento.
Mario e Cesarina con Daniela e Antonella.
[foto collezione A. Masset]

In inverno Bardonecchia, grazie alla ferrovia, era una comoda località sciistica e la domenica arrivava alla stazione da Torino il “treno popolare” delle sette e mezza: alle otto la piola era piena di sciatori che venivano a fare colazione e, ricorda Irene Masset, la stanza si riempiva del profumo di quel latte buono appena munto a cui i cittadini non erano più abituati!
Si prenotava il pranzo per mezzogiorno, si lasciavano gli zaini in custodia, e poi via, con gli sci nei piedi, giù lungo viale Capuccio, fino al campo Principe o al campo Smith, a sciare.
Irene ricorda sorridente anche qualche cliente celebre, come Raf Vallone, il divo del cinema, che la mattina di un primo dell’anno, al ritorno dalla S. Messa, lei trovò nel negozio mentre comprava il giornale ...che colpo al cuore!
Agli inizi degli anni ’50 ancora un cambiamento: la famiglia comprò una licenza di generi alimentari da Faure, chiuse il bar e nei locali accanto alla tabaccheria aprì una rivendita di frutta e verdura.
In estate, quando a Bardonecchia c’erano anche i villeggianti e la clientela cresceva, Angelo, che nel frattempo aveva vinto la cattedra di maestro a Perosa Argentina e nei mesi estivi tornava in famiglia con la moglie a lavorare in negozio, partiva tutte le mattine con il treno delle tre e mezza per andare a Torino ai mercati generali a comprare la frutta e la verdura fresca. Angelo sceglieva solo il meglio che trovava e, quando al pomeriggio arrivava a Bardonecchia il camion di Bono (che faceva servizio per tutti i negozi), i Masset mettevano fuori dal negozio il banco, due ripiani in legno, una bilancia, le cassette appena giunte ...e via, una buona parte della merce era già venduta prima di sera. Irene ricorda con orgoglio la scelta di lavorare sulla qualità, “era più cara, ma era la migliore!”.
In alto da sinistra: Masset Giovanni Antonio,
papà; Irene; Isolina (mamma).
In basso, da sinistra: i fratelli Masset
Angelo e Mario. [foto coll. A. Masset]

Nel 1954 Mario si sposò con la giovanissima Cesarina Bompard e anche lei entrò nell’attività familiare; era arrivata una ventata di allegria con la gioviale Cesarina, che diede, con la sua umanità, un nuovo vigore al clan Masset: sempre pronta a chiacchierare, ad accogliere i clienti della tabaccheria come se fossero ospiti di casa, Cesarina contribuì a caratterizzare il negozio per quel clima di familiarità che tutti ricordano.
Negli anni ’60 la licenza di commestibili fu ceduta e la tabaccheria si ingrandì, prendendo l’aspetto di oggi: sono quegli gli anni in cui il negozio, che nel frattempo era diventato anche merceria, profumeria e cartoleria, diventò il luogo dove ci si fermava volentieri per fare due chiacchiere, dove si passava alla domenica prima di andare a S. Messa per comprare il giornale e intanto si incontrava altra gente, ci si scambiava un saluto, una notizia.
Il papà Giovanni, che con l’avanzare dell’età non lavorava più, passava anche lui la sua giornata in tabaccheria, e fino all’ultimo, fino al 1978 quando morì alla bella età di 90 anni, lo si trovava seduto su una sedia che scambiava quattro parole con i clienti.

Agli inizi degli anni ’70 anche Daniela, la primogenita di Cesarina e Mario, iniziò a lavorare dietro il banco dei giornali, con la stessa giovialità di tutta la sua famiglia. Fino al 31 agosto 2001 quando i Masset decisero di “andare in pensione” dopo 53 anni di ininterrotta attività. «Di vacanze ne avevamo fatte ben poche – ricorda Irene Masset –, il negozio non è mai stato chiuso, ad eccezione di funerali e matrimoni in famiglia!».
La cessione dell’attività fu come chiudere un capitolo per Bardonecchia, un avvenimento che fu anche ricordato da “La Valsusa” del 6 settembre 2001.
La tabaccheria dei Masset è stata un angolo vivo di Bardonecchia: non era solo un negozio, era qualcosa di diverso creato dal clima di giovialità che accoglieva chiunque, era il luogo dove ci si fermava a chiacchierare, a divedere una parola sul tempo, sulle ultime novità del paese, su chi se n’era andato per sempre, su chi si sposava e sugli ultimi arrivati nella comunità. Lì si incontrava sempre qualcuno, le chiacchiere si intrecciavano e si usciva sorridenti con il giornale sotto il braccio. Dalla porta che collegava il negozio alla casa, uscivano i profumi della cucina e (...cari ricordi ormai lontani!) Daniela correva a chiamare la mamma Cesarina perché erano arrivate le sue amiche, Alfonsina e Irma: tra giornali, matasse di lana e giocattoli, scorrevano parole e storie e il tempo passava lieto.
A distanza di pochi mesi l’uno dall’altra, tra il dicembre 2011 e marzo 2012, Mario e Cesarina se ne sono andati e con loro un pezzo di Bardonecchia. È rimasta Irene, la memoria storica della famiglia, a cui dobbiamo con riconoscenza questi ricordi.
Antonella Filippi
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Cari sposi, abbiate cura dei vostri figli e, in un mondo dominato dalla tecnica, trasmettete
loro, con serenità e fiducia, le ragioni del vivere, la forza della fede, prospettando loro mete alte e sostenendoli nella fragilità. Ma anche voi figli, sappiate mantenere sempre un rapporto di profondo affetto e di premurosa cura verso i vostri genitori. (...)
Mantenere un costante rapporto con Dio e partecipare alla vita ecclesiale, coltivare il dialogo, essere pazienti con i difetti altrui, saper perdonare e chiedere perdono, superare gli eventuali conflitti, concordare gli orientamenti educativi ... sono tutti elementi che costituiscono la famiglia. (...)
La domenica è il giorno della famiglia, nel quale vivere assieme il senso della festa, dell’incontro, della condivisione, anche della partecipazione alla Santa Messa. Care famiglie ... non perdete il senso del giorno del Signore! È come l’oasi in cui fermarsi per assaporare la gioia dell’incontro e dissetare la nostra sete di Dio.
BENEDETTO XVI
(omelia tenuta a Milano il 3 giugno 2012 per il 7º Raduno mondiale delle Famiglie)

La quiete della gran tempesta
«Udii un rotolio di sassi smossi: erano camosci, invisibili in quanto immersi in un banco di nebbia...». [foto G. Alimento]

Per due estati ho ricercato i laghi della Gran Tempesta. Sulla carta la via migliore sembrava il sentiero diretto al Col des Muandes. Ma la realtà è più complicata rispetto alle mappe in quanto l’ultimo tratto è sbarrato da una selva di massi somigliante a una città in rovina.
Tra un frammento di roccia e l’altro si aprono buche profonde spesso occultate da cespugli di ginepro abbarbicati sul terreno come serpenti. Sul fondo degli antri resisterebbero i resti del ghiacciaio della Gran Tempesta che un tempo ricopriva l’area.
Qualche camminatore ha udito strani gemiti provenienti da quell’inferno dominato dal gelo anziché dal fuoco. Una specie di Ade da cui trapelerebbe il lamento dei morti.
In realtà non ho mai sentito alcun suono da quegli abissi, anche se lassù il vento della solitudine scatena la fantasia: e se a lamentarsi fossero le anime di viandanti stroncati da una nevicata improvvisa? I massi precipitati dalle montagne non potrebbero essere cacciatori di camosci sorpresi dalle gelate autunnali e pietrificati?
«Aspirai gli effluvi di fiori e piante rare,
menta, spinaci selvatici...». [foto G. Alimento]
Quel caos, apparentemente drammatico, trasmette piuttosto un senso di quiete remota tanto che qualche volta avrei voluto trasformarmi in sasso e restare per sempre. Poi le difficoltà di superare quel labirinto mi hanno riportato alla realtà. Dopo diversi tentativi finalmente in un tardo pomeriggio di fine agosto dal culmine di un dosso ho scorto uno dei sette laghi che cercavo.
Appariva in controluce proprio sotto le pareti rossastre della Gran Tempesta dove un sipario di nuvolaglia apriva verso un ovale azzurrissimo mescolato a venature verdastre. Sulla superficie, pagliuzze d’argento brillavano come stelle in pieno giorno. Tuttavia la distanza e le ombre crescenti mi convinsero a desistere.
Durante l’inverno una guida ha suggerito: «Evita quel percorso, contorna piuttosto il lago Lavoir quindi sali deciso verso sinistra. Lì i massi sono superabili con facilità, devi solo prestare attenzione alle buche coperte dai rampicanti».
All’inizio dell’estate successiva ho seguito i consigli della guida per raggiungere l’area della Gran Tempesta.
Nemmeno da quella parte esiste sentiero e mentre zigzagavo l’erba secca gemeva sotto gli scarponi come stoffa strappata; quasi pregandomi di evitare la zona.
Ciò nonostante salii fino ai laghetti che mi rapirono con la loro aura di silenzio e solitudine: le montagne specchiate sulla loro superficie appaiono vicine mentre in realtà sono separate da valli profonde.
Nel frattempo la luce del meriggio veniva schermata dal vagare di nubi sempre più frequenti. Rendendomi conto che sulle pareti ferruginose della montagna si stava addensando un temporale, estrassi dallo zaino maglione e giacca a vento.
Il masso che mi aveva offerto riparo tratteneva ancora un po’ di calore estivo, tuttavia ebbi un brivido: e se fosse stato davvero un cacciatore congelato e pietrificato? Contemporaneamente udii un rotolio di sassi smossi; erano camosci, invisibili in quanto immersi in un banco di nebbia. Non seppi mai se fuggissero me o la tempesta che stava scoppiando.
Lo scenario divenne drammatico anche se le cime subivano senza una piega le saette che si scagliavano su di loro. Tuttavia le acque dei laghi avevano trasformato la tempesta in uno spettacolo di suoni e luci: al rombo dei tuoni, al ticchettio della pioggia e ai bagliori delle saette esse rispondevano variegando dal verde cupo a infiniti chiarori grigi e marroni; come un paesaggio di Klimt.
Finché gocce lucenti preannunziarono i colori del sole: azzurro, verde muschiato, giallo con pagliuzze d’oro figlie del vento che formavano minuscole pieghe sulla superficie come un lenzuolo non stirato.
Aspirai gli effluvi di fiori e piante nane, menta, spinaci e carote selvatici come se ogni presenza, compresi i massi più insensibili, si adoperasse per festeggiare la fine del temporale. Canticchiavo mentre farfalle e libellule, poche in verità, ripresero a danzare.
Proseguii fino alla testata del pianoro e ammirai d’infilata i laghi che apparivano come triangoli azzurri  intersecati: un dipinto cubista. Intorno sorella acqua, radice inconsapevole di ogni cosa, non precipita né rimbomba.
Attraversando il letto asciutto dell’immissario ascoltavo il torrente sotterraneo filtrare discreto come se provenisse da mondi lontanissimi; in realtà scorreva appena sotto i ciottoli.
Forse quel lavorio sotto tono ha lasciato spazio al deserto circostante, incurante del contrasto secco - umido registrato dalla nostra mente.
Un fischio di marmotta fu subito ripreso dal sibilo del vento che piegava le distese dei piumetti.
Già asciutto, il loro candido testone si presentava fresco di parrucchiere e, mentre li accarezzavo, credetti di sfiorare un coro angelico che evita di sedurre attraverso i colori o i profumi.
Nello stesso momento il gemito prolungato di un animale ferito, moribondo o partoriente ha rammentato il dolore universale. Lassù lo scenario non è diverso dalla caduta di Adamo ed Eva.
Come la tempesta che ancora brontolava in lontananza, gli animali in fuga manifestano questa lacerazione: si fa appena in tempo a intravedere la rete candida disegnata sul pancino scuro di una nocciolaia che subito l’uccello vola via. Così marmotte ed ermellini si precipitano verso le loro tane.
Tuttavia sono convinto che intorno ai laghi della Gran Tempesta qualche traccia dell’Eden sia rimasta. Certo, avendolo perduto non è facile intravederla.
Ricordo quell’ermellino lunatico che danzò fino a bloccarsi per lunghi secondi a un metro di distanza, non so se per terrore o vanità. O era la nostalgia del paradiso perduto?
Lo scorso agosto stavo salendo con un amico quando il nostro parlottare fu interrotto da un rotolio di massi. Visto che non pioveva da tempo, pensai ai camosci: «Contrariamente a quel che molti credono, mentre si spostano fanno rumore. Qui non li ho mai avvistati, ma sono sicuro della loro presenza; due anni fa, proveniente da un fondale di nebbia, ho udito lo stesso fragore di sassi smossi».
Alzammo lo sguardo verso una selletta verdissima posta in verticale duecentocinquanta metri sopra le nostre teste. «Sono in branco, almeno una ventina».
«Mi presti il binocolo?».
«Certo, nel frattempo li riprendo col teleobiettivo».
«Guarda quelle nuvole bianche vagare dietro alle sagome scure dei camosci che risaltano in controluce: uno sfondo perfetto. E mentre le madri risalgono lentamente il crinale, i giovani non smettono di giocherellare sui prati sottostanti. Alcuni accennano a rincorrersi come bambini sul campetto parrocchiale».
«Corrono attraverso i prati ma si fermano subito; qualcuno balza sulle rocce per osservarci meglio. All’inizio credevo fuggissero, in realtà non ci pensano minimamente in quanto si fidano di noi».
«Come ti è venuto in mente che i massi intorno a noi sono antenati congelati e pietrificati? In ogni caso i camosci hanno perdonato i cacciatori che hanno colpito per sfamarsi. Ora, pur mantenendosi a distanza, il loro comportamento lascia trapelare la quiete ingenua che doveva regnare nel Paradiso Terrestre».
Guido Alimento

La regina delle Alpi piemontesi in estate e d’inverno
Cabinovia dello Jafferau.
[foto “La Valsusa”]

Adagiata in una conca soleggiata a 1.300 metri di quota, attorniata da splendide montagne con cime che superano i 3.500 m., Bardonecchia può essere considerata uno degli angoli più suggestivi dell’arco alpino occidentale. È stata protagonista delle Olimpiadi di Torino 2006 ospitando le gare di snowboard e uno dei villaggi olimpici.
Bardonecchia preserva il proprio territorio e la propria estetica, pur aprendosi alla modernità più tipica delle città. Tale connubio la rende una località di charme in continua evoluzione in termini di impianti, strutture e servizi.
Grazie alle molteplici iniziative sportive, culturali e musicali, i locali trendy e i ristoranti tipici, si rivela la meta ideale per un pubblico giovane e per le famiglie.
La natura è viva, viva la natura!
Bardonecchia annovera tra i suoi abitanti marmotte, pernici, cervi, caprioli, camosci, stambecchi, volpi, aquile reali, gipeti e vive in rapporto vero con la natura, che si può assaporare anche solo passeggiando tra le foreste di abeti, pini e larici che ricoprono per larga parte il territorio. Una guida alpina, un accompagnatore naturalistico, o una cartina e un paio di scarponcini: ecco ciò che serve per scoprire Bardonecchia, una delle località alpine più ricche di sentieri. I percorsi sono alla portata anche delle gambe meno allenate e portano alla scoperta di laghi e boschi, pascoli e borgate d’alpeggio, cascate e ruscelli: passo dopo passo, un grande spettacolo della natura.
Sport
«Bardonecchia significa avere la possibilità di godere
appieno le proprie passioni sportive». [foto “La Valsusa”]
Bardonecchia significa avere la possibilità di godere appieno le proprie passioni sportive: uno dei bike park più estesi d’Europa: 400 km. di sentieri segnalati e dedicati a freeride, cross country, downhill, junior park e poi, un vero paradiso per le escursioni anche fino ai 3.000 metri del ghiacciaio del Sommeiller.
Bardonecchia è un vero paradiso anche per lo sci e per lo snowboard, grazie ai suoi 100 km. di piste sempre perfettamente preparate, con il 50% di piste con innevamento programmato e con i suoi 200 maestri ed istruttori.
Tutto questo arricchito dall’eredità olimpica: pista olimpica, half pipe e snowpark del Melezet.
Per gli amanti dell’inverno: sci, sci di fondo, snowboard, telemark, racchette da neve con escursioni
naturalistiche e culturali, diurne e notturne, bag jump, winter trekking, pattinaggio su ghiaccio, escursioni a cavallo/slitta su neve, escursioni con il gatto delle nevi, sci alpinismo e freeride ... tintarella in quota dopo la polenta fumante... Per gli appassionati del sole estivo: bike park, adventure park, skate park, nordic  walking, mountain board, equitazione, golf, pesca, trekking, vie ferrate, arrampicata, calcio, beach volley, passeggiate, passeggiate, passeggiate e ancora passeggiate...
La Sampdoria in allenamento nello stadio
di Bardonecchia. [foto “La Valsusa”]

Per i cultori dei colori della primavera e dell’autunno: camminare per immergersi nella mutevolezza dell’ambiente e decidere con la libertà più assoluta di fare quello che si desidera.
Sempre a disposizione all’insegna di sport e benessere: piscina, palestra, centri benessere, tennis, basket, volley, calcio a 5, boulder e tanto altro.
Lo Stadio di Bardonecchia Lo Stadio di Bardonecchia significa un ritiro di massima qualità, non solo per le, squadre di primo livello, in una delle località migliori dell’arco alpino nord-occidentale per clima, altitudine, servizi e caratteristiche degli impianti sportivi e ricettivi oltre che quelli dell’accoglienza.

La storia
Nel corso dei secoli Bardonecchia ha seguito la storia dell’Alta Valle di Susa, ma il fatto di trovarsi in una conca chiusa lontana dalle grandi vie di comunicazione (se si escludono le due mulattiere del Colle della Scala e del Colle della Rhô) ha reso la cittadina relativamente “indipendente”, come si leggeva sotto lo stemma comunale “Seigneur de soi-meme” (Padrona di se stessa).
 L’origine del nome Bardonecchia è incerta, una interpretazione meno poetica, ma più vicina alla realtà, fa derivare il nome da “Bardot” o “Bard”, che in francese significano rispettivamente muletto e sella, nel ricordo del commercio che si svolgeva con i muli tra la nostra valle e le vicine valli francesi.
Secondo le ricostruzioni più accreditate, al tempo della conquista romana Bardonecchia faceva parte con tutta l’Alta Valle di Susa del regno di re Cozio ed era abitata dai Belaci, uno dei 14 popoli ricordati nell’iscrizione posta sopra il fregio dell’Arco di Augusto a Susa.
Verso l’anno mille i saraceni venivano scacciati dalla Valle ad opera di nobili che si sarebbero stabiliti in seguito nella zona, tra questi anche i visconti di De Bardonneche contemporanei di Umberto Biancamano fondatore della dinastia dei Savoia. Dopo l’epoca feudale verso il XIV secolo si formavano gli “Escarton”, gruppi di Comuni che si federavano per riscuotere le imposte per poi ripartirle.
La famiglia degli Albon consolidato il proprio patrimonio nel Brianzonese mirava ad estenderlo anche in Valsusa, solo il potere sabaudo riusciva a fermare l’avanzata degli Albon verso Torino.
L’Alta Valle rimaneva saldamente in mano a questi ultimi, che avevano assunto il nome di Delfini, fino al 1349 quando Umberto II cedeva all’erede al trono di Francia i propri territori.
Con il Trattato di Utrecht del 1713 il Duca Vittorio Amedeo II riotteneva dalla Francia i territori occupati in Savoia, l’Alta Val Susa e la Val Chisone che si riunivano al Piemonte dopo secoli di dominazione francese.
Il Duca assumeva il titolo di re di Sicilia e successivamente re di Sardegna.
Nel 1784 nasceva a Bardonecchia, Giuseppe Francesco Medail la cui intuizione sul Traforo Ferroviario del Fréjus avrebbe, circa un secolo dopo nel 1871, cambiato la vita e la storia del paese. L’abitato di Bardonecchia con il passaggio della linea ferroviaria si ampliò, sorsero i primi alberghi e la nostra conca venne lentamente affermandosi come centro di villeggiatura estiva ed invernale.
All’inizio del ’900 con la diffusione dello sci Bardonecchia divenne tra le prime stazioni in cui si praticava il nuovo sport. Nel 1908 veniva fondato lo Ski Club Bardonecchia, uno tra i più antichi d’Italia e nel 1910 due fratelli norvegesi Harald e Trigwe Smith saltavano dal trampolino nella località che oggi da loro prende il nome: “Campo Smith”.
Alcuni dei primi alberghi sorti a Bardonecchia ebbero l’onore di ospitare grandi personaggi come il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti assiduo frequentatore dal 1903 al 1926, mentre il Principe Umberto di Savoia fu ospite dell’hotel Sommeiller e dell’albergo Savoia edificato nel 1925. Gli anni Trenta videro la costruzione di grandi impianti sportivi quali lo Stadio Littorio per il ghiaccio, la slittovia Colomion e di edifici pubblici come la Colona IX Maggio (ex colonia Medail).
Oggi una moderna autostrada e la linea ferroviaria internazionale fanno di Bardonecchia una delle località turistiche di montagna più facilmente accessibili dell’intero arco alpino.
(da “La Valsusa”, n. 2 del 10-1-2013)