05/11/13

ANGOLO della CULTURA (2012)

argomenti
I 300 anni di Utrecht
Ignis Sacer
NOSTRA SIGNORA DELLE GRAZIE - Il registro del tesoriere 
Quel grandioso CONGRESSO EUCARISTICO A BARDONECCHIA
Ricordando RICCARDO CHICCO
LA BARCA D’ORO DEI RE
IL PELLEGRINAGGIO NELLA SACRA SCRITTURA

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I 300 ANNI DI UTRECHT
La regione delle Alpi occidentali pur essendo, dal punto di vista geografico, un territorio piuttosto  omogeneo, da una prospettiva politico e militare invece è stata un’area attraversata da una generale insicurezza dovuta alla litigiosità dell’aristocrazia locale ed europea che fra i secoli XVII e XVIII ha «discusso militarmente» le proprie questioni dinastiche disputandosi i displuviali alpini, rafforzato le difese naturali offerte dalle aspre giogaie delle valli alpine oppure costruito fortezze ciclopiche come Exilles o Fenestrelle.
Stemma delfinale, forte di Exilles.
In questo contesto il Trattato di Utrecht, del 1713, fu la fine di molte di quelle dispute permettendo allo spregiudicato Stato Sabaudo di inglobare le fortezze di Exilles e Fenestrelle «le due chiavi dell’Europa», come le definì nel 1708 l’inviato olandese a Torino, portando i propri confini sul displuviale delle valli di Susa e Chisone e permettendo ai Savoia di conquistare un ruolo determinante sullo scacchiere strategico europeo.
Ma andiamo con ordine.
Il 31 ottobre del 1700 Carlo II di Spagna “el hechizado”, lo stregato, moriva in un’atmosfera allucinante fatta di esorcismi e riti di ogni genere sul corpo del re morente nella convinzione che le infermità del sovrano e le sciagure del Paese dipendessero dalla malìa che aveva colpito il povero Carlo II. La vera sorpresa sarà però il testamento del re spagnolo, che indicando come suo legittimo successore Filippo d’Angiò , il futuro Filippo V, e nipote del re di Francia Luigi XIV, innescherà una polveriera destinata a far saltare l’Europa. Il pericolo che la Francia, attraverso il docile Filippo V, potesse mettere le mani sui ricchi domini coloniali spagnoli compromettendo lo sviluppo del commercio inglese, pertanto il moneyed interest spinse Londra a mettersi a capo di una coalizione antifrancese.
A fianco dell’Inghilterra si affiancarono l’Olanda, la Prussia e l’imperatore Leopoldo I contro l’inusitata alleanza tra Francia e Spagna, Portogallo e il duca Vittorio Amedeo II di Savoia. La macchina bellica francese costruita dal marchese di Louvois sembrava poter travolgere la “Grande Alleanza” anglo-austriaca, ma a partire dal 1703 gli avvenimenti presero una piega non prevista e il Portogallo passò nella “Grande  Alleanza” permettendo alla Gran Bretagna di conquistare Gibilterra e analogamente fece lo scaltro duca Amedeo II che temendo di poter essere schiacciato fra Francia e Spagna fece un rapido cambio di campo passando anche lui nelle fila dell’alleanza occupando Casale Monferrato: l’Italia stava per divenire uno dei principali scacchieri della guerra.
Nell’estate del 1706 Luigi XIV ripagava la defezione del duca Amedeo II occupando la maggior parte del Piemonte per puntare poi su Torino. La situazione era durissima e la politica spregiudicata del Savoia giocata sulla posizione strategica dello Stato sabaudo, di vera e propria chiave di accesso alla Francia, ora poteva decretare la fine del piccolo Stato transalpino. Vittorio Amedeo II conscio che Torino e le valli alpine stavano per diventare il «fuoco della tensione europea»(1) fece appello alla tanto mitizzata vocazione piemontese al militarismo e a una buona dose di spregiudicatezza sbaragliando insieme al principe Eugenio, a capo delle truppe imperiali, nella battaglia di Torino, il 7 settembre 1706, le truppe francesi. Gli uomini di Luigi XIV persa la capitale subalpina cercarono di difendere le Valli alpine portando gli scontri nell’alta Valle di Susa: da Exilles a Bardonecchia.
Vauban, architetto militare del Re di Francia, si precipitò ad elevare una serie di trinceramenti e ridotte
che avrebbero dovuto portare ad un livello accettabile la difendibilità del forte di Exilles(2). Il 4 luglio 1708 il maresciallo di Francia, duca de Villard, ordinò la coscrizione di leva in tutto l’escarton d’Oulx(3) e utilizzando manovalanza locale, presa da Savoulx, Beaulard, Bardonecchia, Millaures, Melezet e Rochemolles (4),
si costruì quindi una linea difensiva che dalle alture di Chiomonte e della Ramats saliva sino alla Cappella
Bianca oltre a due ridotte che sorgevano presso la Cima del Vallone e le grange Cravasse.
Per i francesi l’azione in Piemonte doveva essere meramente di - fensiva essendo il grosso delle forze
impegnate su altri fronti, il che ov - viamente favoriva le forze austro-sabaude. Il piano di Vittorio Amedeo  revedeva uno pseudo attacco su Barraux in Savoia per costringere il generale francese Villard a ripiegare su Grenoble e Lione scoprendo l’alta val Susa che era il reale obiettivo sabaudo.
Nel 1708 il generale Rehebinder attaccò il colle della Rho per scendere poi su Bardonecchia e da lì percorrere una via insidiosa dalla Val Fredda sino al massiccio del Galambra (3.057 m.) per poi occupare le Grange della Valle e San Colombano, cosa che fecero senza colpo ferire. Il 10 di agosto le artiglierie sabaude iniziarono a battere il forte di Exilles e nonostante, gli occupanti avessero avuto l’ordine di resistere a oltranza, la mattina del 13 agosto cinquecento uomini con i loro ufficiali si arresero e il comandante Regal ne prese possesso.
Pur rovesciando le artiglierie i problemi del forte di Exilles, evidenziati dal maresciallo Vauban, rimanevano inalterati e ancora una volta le popolazioni di Oulx, Cesana e Bardonecchia venivano chiamate per costruire delle opere campali in grado di coprirsi reciprocamente, insieme a delle opere permanenti come una ridotta a Serre Garde e altra sul versante destro della valle in località Courbiere e Crevasse per controllare le mulattiere provenienti dall’Assietta.
Oltre alle fortificazioni nel 1711 venne messo a punto un complesso sistema di comunicazioni a base di fanali che permetteva di comunicare immediatamente eventuali attacchi nemici.
Pur cessando le operazioni belliche le popolazioni dell’alta valle continuarono a patire sia per le continue chiamate per costruire opere difensive sia perché le nuove frontiere tagliavano quasi di netto generazioni, commerci e scambi con le terre d’oltralpe indebolendo ulteriormente la già fragile congiuntura economica. Infatti molte sono le suppliche al duca Vittorio Amedeo II per l’esenzione totale o parziale da decime o per le derrate necessarie al sostentamento di militari e animali accampati sul territorio.
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1 Cfr. C. STORRS, War, diplomacy and the rise of Savoy, 1690-1720, Cambridge University Press, 1999.
2 Note erano le perplessità di Vauban circa le carenze della piazza di Exilles: «... tutti i difetti delle piazze del re messi insieme non hanno nulla che si avvicini a quello che troviamo in questa», P. BERNARD, Vauban, Paris 1991, pp. 240-241.
3 Peracca, L’Alta valle di Susa e le vicende storiche dal 1180 al 1700, Torino, 1910, p. 116.
4 Cfr. La difesa nascosta del Piemonte Sabaudo, a cura di E. GAROLIO e F. ZANNONI, Revello 2011, p. 40 e PERACCA, L’Alta valle di Susa, cit., p. 113
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Diverse scaramucce fra francesi e alleati si svolsero a partire dal 1711 senza di fatto cambiare lo stato delle cose e finalmente con grande sollievo delle popolazioni locali si giunse alla pace di Utrecht nel 1713, che però in modo irreversibile sancì la fine di un’epoca e la nascita di un mondo nuovo.
Infatti la pace di Utrecht nascerà sotto il dogma del “balance of power” anglosassone, il quale facendo bilanciare sul continente Francia e Austria e tenendo per sè il controllo dei mari, l’Asiento e una serie di capisaldi strategici, farà dell’Inghilterra il vincitore della colossale partita europea. Inoltre la Gran Bretagna si inseriva bene anche nel continente favorendo la nascita di corridoi strategici come l’ingrandimento degli Hoenzollern, dei Principati di Colonia e Baviera nella mittel-Europa e nella pianura Padana dei Savoia che si annettevano il Monferrato (già appartente ai Gonzaga e il regno di Sicilia con relativa corona (5).
Per i Savoia la pace di Utrecht prevedeva la restituzione da parte della Francia di Nizza e Savoia, l’attribuzione del regno di Sicilia, inoltre sulla base del principio delle cosiddette eaux pendantes, ovvero di portare i confini fino al displuviale alpino, il neoregno incamerava anche le alte valli di Susa; Chisone e Varaita cedendo alla Francia la valle di Barcellonette. In questo modo le vallée cédées (6) sia pur con labili confini, infatti solo nel 1761e 1764 i confini verranno definiti in modo preciso e definitivo, entravano a far parte del nuovo Regno di Sardegna.
Testo originale del Trattato di Utrecht
In realtà nell’agosto del 1708 nel momento in cui il Duca di Savoia occupava la fortezza di Exilles per pacificare gli animi proclamava, fra l’8 e il 12 settembre, il rispetto degli usi locali per le valli di Oulx e Pragelato. Il 2 gennaio 1709 Vittorio Amedeo II riceveva dalla comunità di Bardonecchia il giuramento di fedeltà e in cambio i bardonecchiesi si aspettavano il riconoscimento dei cosiddetti «privilegi brianzonesi» (7).
In effetti il Trattato di Utrecht verrà concluso solo l’11 aprile del 1713 e ratificato il 6 maggio dello stesso anno. L’alta valle verrà annessa alla Provincia di Susa, creata dallo stesso Vittorio Amedeo II nel 1622(8). Questo passaggio fu per l’escarton dell’alta valle di Susa un momento estremamente triste: infatti il Re di Sardegna bloccò i tradizionali accessi del Monginevro dirottando i commerci verso il Moncenisio che collegava la Savoia e il Piemonte; ovviamente questo significò troncare scambi commerciali, culturali, matrimoni e legami familiari che da secoli univano le terre del Gran Escarton, mentre la nuova unione con la bassa valle era quanto mai innaturale nonostante le apparenti logiche e naturali frontiere orografiche delle “eaux pendantes”, in quanto il confine di Gravere segnava ben più della divisione fra alta e bassa valle, ma piuttosto divideva mondi diversi sul piano linguistico, culturale, ed economico.
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5 La Sicilia sarà sostituita nel 1720 dalla Sardegna sempre con il titolo regio.
6 Così le definivano i francesi con evidentemente anche un desiderio di rivincita.
7 C. MAURICE, “Aux confins du Brianconnaise d’autrefois”, in “Segusium” N° 11-12, 1976, p. 14.
8 Le nuove Provincie furono dodici e rispondevano ad una precisa volontà di ristrutturare il territorio sia sul piano civile, sia su quello militare. Cfr. T. FORNO, Susa una provincia durata due secoli, in “Segusium”, N° 45, ottobre 2006, pp. 107-122. 
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Di questo stato di cose se ne rese conto immediatamente Antoine Jaquet, sotto-prefetto della Provincia di Susa, che  ella relazione dal titolo “Memoire sur la statisique de l’arrondissement de Suze”, indirizzata al generale Jourdan del Consiglio di Stato, dirà: «... esiste una marcata differenza fra gli abitanti della parte superiore e quelli della parte bassa della Provincia. ... gli abitanti delle montagne hanno dei modi dolci, dell’affabilità, dell’istruzione...; all’esterno, anche se molto poveri, in entrambi i sessi vi è una estrema pulizia, quelli della pianura hanno una tinta di carattere molto meno felice: più ignoranti, e di conseguenza più creduloni e più superstiziosi...» (9). L’intendente di Susa sottolinea ancora come il Collegio di Oulx fosse un vivaio di insegnanti per il “midi de la France” grazie «alla loro doppia nazionalità franco-sarda» (10) e alla conoscenza della lingua francese, mentre nel resto del Piemonte «regnava l’ignoranza più profonda» (11). In questo contesto di grandi differenze fra alta e bassa valle, gli abitanti dell’escarton d’Oulx si riunirono già sin dal 26 maggio del 1713, e quindi pochi giorni dopo ratifica del Trattato di Utrecht, con il preciso intento di redigere e inviare a Torino una supplica per mantenere gli antichi privilegi concessi dal Delfino con particolare riferimento a: sgravi fiscali di vario genere, libertà di assemblea e di eleggere sindaci, massier (12), nominare i propri maestri ed educatori, la possibilità di gestire liberamente canali di irrigazione, fontane, forni, tagli dei boschi, poter commerciare con relativa facilità nel brianzonese i vini di Chiomonte ed Exilles, il mantenimento delle libertà del clero gallicano (13), al di là della inevitabile soppressione della Prevostura di Oulx, e soprattutto la possibilità di parlare e redigere atti amministrativi in francese per evitare interpretazioni fallaci e fuorvianti (14). In realtà, nonostante nel Trattato si prevedesse il riconoscimento degli antichi usi, i privilegi degli escarton concessi dal Delfino del 1343 furono disattesi e quindi si moltiplicarono le richieste rivolte al Vittorio Amedeo II per ottemperare a quanto promesso.
Il 7 dicembre l’Assemblea degli Escarton incarica Joseph Barbier, medico a Bardonecchia, di perorare incessantemente la causa delle valli di Oulx e di Pragelato presso il conte Mellaréde e presso l’intendente generale delle finanze di Torino.
Purtroppo le varie sollecitazioni non ebbero i risultati sperati e quindi l’assemblea dell’escarton decise il 29 luglio 1714 di inviare un loro rappresentante a Parigi per acquistare un vassoio d’argento e un calamaio da tavolo, anch’esso in argento, da donare al sovrintendente di Susa in modo da attirare la sua benevolenza (15). Nel 1719 Ippolito Des Ambrois di Rochemolles, membro influente all’interno nelle deliberazioni degli escarton di Oulx e Pragelato verrà inviato l’11 marzo a Torino con il medico Juget di Chiomonte per vedere a che punto erano le pratiche per la confermazioni dei diritti delfinali come promesso sin dal giuramento 12 settembre 1708.
Nel 1734 troviamo un’analoga supplica ad opera del Comune di Bardonecchia (16).
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9 A. JAQUET, Memoire sur la statistique de l’arrondissement de Suze, in “Segusium” C. MAURICE, “Aux confins du Brianconnaise d’autrefois”, N° 11-12, 1976, p. 115.
10 Ibidem, p. 122.
11 Ibidem.
12 Il Mansia era una sorta di rappresentante delle borgate al quale in nome del pubblico interesse erano garantiti i pieni poteri per la gestione dei beni pubblico del privato.
13 La Prevostura di Oulx sarà soppressa nel 1749.
14 C. MAURICE, Aux confins du ..., op. cit., p. 15.
15 Le Registre des délibération des Assemblées Générales de l’escarton d’Oulx tenu depuis 1658 jusqu’en 1746. Archivio Famiglia Odiard Des Ambrois.
16 Archivio storico di Bardonecchia, coll. 3/20.
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In pratica nonostante le suppliche, le molteplici richieste da parte dell’escarton di rispettare quanto promesso, i vari tentativi di captatio benevolentie con doni di prodotti tipici come formaggi e cacciagione od oggetti preziosi, Vittorio Amedeo II e la Corte si dimostrarono insensibili e indifferenti alle istanze provenienti dal basso e per di più da dei montanari. Non dimentichiamo che siamo in piena epoca illuminista dove il famoso assioma di Giuseppe II Imperatore d’Austria, «tutto per il popolo, niente dal popolo», era certamente uno dei modelli operativi più in auge. Quindi Vittorio Amedeo II, nonostante un articolo del trattato di Utrecht precisasse che nei territori ceduti dovessero essere rispettate le franchigie e le tradizioni locali, fu sempre molto restio nel concedere quanto promesso perché dopo il 1713 iniziò una vera e propria politica di riorganizzazione fiscale culminata poi nell’editto di “Perequazione Generale” del 1731, che da una parte semplificava l’organizzazione del prelievo e ne riduceva il gettito a tutto vantaggio delle imposte indirette che, ovviamente, nelle “valli cedute” viste le agevolazioni avrebbero dato un gettito minore e quindi questo sarebbe andato a detrimento dell’economia dello Stato sabaudo.
Analogamente il re mal sopportava la libertà di istruzione nelle valli in quanto i vari interventi operati da Vittorio Amedeo II nella pubblica istruzione erano prevalentemente finalizzati a formare una élite amministrativa adeguata ai bisogni dello Stato con scarsa cura alle comunità locali e alle scuole inferiori. Inoltre Vittorio Amedeo II «... per la prima volta introdusse il principio di una sorveglianza statale sui percorsi di formazione... » e «... sulla classe degli insegnanti... suscettibili di licenziamento in tronco qualora non avessero corrisposto alle sue aspettative»(17); è quindi evidente che concedere alle “alte valli” la possibilità di scegliere e gestire autonomamente corsi e insegnanti era quanto mai inopportuno.
Con la stessa ottica Vittorio Amedeo II si rivolgerà alle municipalità per ottenerne l’assoluta subordinazione al potere centrale, emanando nel 1733 un editto nel quale i consiglieri comunali si ridurranno a sette, i quali a turno avrebbero occupato la carica di sindaco e per rafforzare il controllo introdurrà la figura del “segretario comunale” che si configurerà come un rappresentante dello Stato presso le comunità. Anche in questo caso appare evidente che la nomina in modo autonomo di un sindaco, con pieni poteri, da parte degli escarton cozzava con l’autocrazia del Re.
Con l’abdicazione di Vittorio Amedeo II a favore del più comprensivo Carlo Emanuele III le cose iniziarono a prendere un nuovo corso grazie anche all’azione incessante di Pietro Bernard Latourette, appartenente a una potente famiglia di notabili castellani di Oulx e Cesana e segretario dal 1715 dell’escarton d’Oulx , il quale intuendo la nuova temperie politica riuscì a far inviare un delegato nella valle di Barcellonette per vedere e ottenere copia del documento con cui il Re di Francia aveva confermato traditions et franchises alle valli cedute.
Le lunghe e delicate trattative questa volta ebbero successo e Carlo Emanuele III rispettò gli impegni di Utrecht e con le “Reali patenti” del 28 giugno 1737, dietro pagamento dei tributi dovuti al Delfino, e confermò il rispetto di franchige e tradizioni locali(18).
Il rinnovo dei privilegi brianzonesi creava in qualche modo una sorta di enclave autonoma nel regno sardo-piemontese anche se si erano venute a frantumare quelle straordinarie sinergie che davano plus valore al Grand escarton. I due escarton francesi e i tre italiani continuaro a riunirsi come sempre ma separatamente e le loro decisioni sul piano economico e culturale furono sempre meno efficaci proprio per la nefasta separazione da Briançon, il centro pulsante del Grand escarton.
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17 A. BARBERO, Storia del Piemonte, Torino, 2008, p. 323.
18 Copia del documento è conservata presso l’Archivio storico di Bardonecchia coll. 3/22.
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L’ultima riunione dell’escarton d’Oulx avvenne nel 1791 e come sempre si discusse di scambi, di boschi, di canali irrigui... ma tutto rimase inapplicato! (19) Le aspirazioni alla riunione delle “valli cedute” con Briançon e Queyras sembrarono improvvisamente trovare una risposta nel 1796, sotto la spinta della Rivoluzione francese, con la nascita dell’effimera Repubblica Piemontese, ma la furia iconoclasta ed egualitarista giacobina cancellò ogni distinzione al di qua e al di là delle Alpi. 
Dopo Marengo il Piemonte veniva finalmente annesso alla Francia senza però tornare alla realtà amministrativa degli escarton, infatti i territori delle valli cedute finiranno nei cosiddetti “dipartimenti alpini” e precisamente negli arondissements di Susa, Pinerolo e Saluzzo: tutti rigorosamente al di qua delle Alpi! (19)  
Il Congresso di Vienna chiuse l’esperienza napoleonica e con la “restaurazione” sancì, almeno nella forma, il ritorno all’ancient regime, ma senza che venissero riconosciuti i privilegi delfinali e anche l’ultimo appello delle “valli cedute” rivolto a Carlo Felice sarà destinto a rimanere inascoltato. Da questo momento in poi le “valli cedute” seguirono la storia del Piemonte e dell’Italia anche se vi furono due interessanti propaggini: la prima nel 1859 alla fine della II guerra d’indipendenza quando con cessione alla Francia di Nizza e Savoia anche gli escarton sperarono inutilmente di poter tornare francesi. La seconda nel 1946 alla fine della II guerra mondiale con le pretese territoriali francesi oltre lo spartiacque, che determineranno la cessione alla Francia della Valle Stretta e dello Chaberton, della Val Roya, Briga e Tenda. In questo clima nacquero movimenti a sostegno delle pretese francesi come il GAD, Groupe Anciens Dauphinois, che ai «fratelli delle terre dell’antico Delfinato» prometteva in cambio di un’adesione incondizionata all’annessione una drastica riduzione delle tasse e la restituzione dell’80% dei danni di guerra (20).
Alla stipula del Trattato di Utrecht, per quanto concerne la politica italiana, i Savoia ne furono i vincitori, con il beneplacito dei Tories inglesi, conquistando il titolo regio e le alte valli di Susa, Chisone e Varaita sino allo spartiacque alpino, evitando così pericolose teste di ponte da una parte e dall’altra, ma soprattutto  dando il via a quelli che saranno i futuri confini fra Italia e Francia.
Sullo scacchiere europeo il periodo post-bellico lasciò dietro di sè un profondo rigurgito di desideri insoddisfatti e di revanscismo come ampiamente dimostreranno le guerre per la successione austriaca e polacca. Sul piano della storia locale Utrecht fu per le “valli cedute” la fine di un mondo e di un esperimento unico e transnazionale di democrazia e libertà economica ed individuale. Lo smembramento dell’unità degli escarton sottoporrà le diverse aree a forti influenze eccentriche delle varie culture egemoni, che indeboliranno senza però cancellare del tutto tradizioni, identità culturali e linguistiche che in qualche modo sono sopravvissute sino ad oggi.
Le Amministrazioni di Bardonecchia, Chiomonte, Fenestrelle e Briançon ricorderanno i 300 anni del Trattato di Utrecht con quattro convegni itineranti a partire da Fenestrelle il 29 giugno 2013, a Bardonecchia il 6 luglio presso la sala riunioni del Forte Bramafam.
In ultimo, volendo fare un cenno di filosofia della politica, potremmo dire che il Trattato del 1713 fu la fine del modello politico della «monarchia per diritto divino del Re Sole» e la nascita di una supremazia dell’Inghilterra liberale, del liberalismo di Locke la cui dottrina tanta parte ha avuto nella cosiddetta liberal-democrazia, che sarà basata non solo sulla volontà della maggioranza ma anche sul rispetto delle minoranze e dei “microcosmi politici” di cui la République des Escarton è stata per circa quattrocento anni uno stupendo esempio.
Roberto Borgis
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19 G. V. AVONDO-M. COMELLO, Frontiere contese tra Italia e Francia.1947: le valli perdute del Piemonte, Torino, 2012, p. 99.
20 Ibidem, p. 116.
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IGNIS SACER
“Il fuoco della miseria”. Il fuoco della miseria veniva acceso durante i periodi di calamità, per purificazione del territorio, degli uomini e degli animali. In nessuna comunità si è conservato integro il patrimonio simbolico delle usanze di “richiesta di aiuto” a Dio nei tempi di peste e di calamità.
Gli spunti rimasti, importanti e rari come questi di Melezet, enunciano la disperazione dell’uomo nell’impossibilità di capire come sfuggire il male, e il perché. Come affrontare la perdita della vita “ricevuta” da Dio vita dispersa dal “male” invisibile e inquietante, presente in ogni dove.
La raffigurazione della “ruota” di fuoco incisa su di un lato della fontana prospiciente la chiesa di Melezet è perciò una rara testimonianza storica, vissuta dall’uomo in questo territorio tra il XIV e XVI secolo. La memoria appunto di una “sacra rappresentazione” per vincere il male che mieteva tante vite.
Tra le molte credenze, si pensava che la moria fosse dovuta alla presenza di un demone, di un vampiro che di sera andasse aggirandosi nei pressi della fontana, apportandovi il contagio. Tale contagio avrebbe potuto essere tenuto sotto controllo in “ogni dove” interponendo una barriera di fuoco. I contadini accendevano allora tutti gli anni dei fuochi nelle strade dei villaggi.
Fu in quel tempo che presero a dar fuoco a delle ruote in legno attraverso le quali facevano passare il bestiame per proteggerlo dalla moria.
Le ceneri del fuoco venivano poi sparse sui campi per beneficarli o sul proprio focolare per il bene familiare. Il fuoco veniva acceso tramite una ruota di carro o di un arcolaio che, coperti di stoppa, prendevano fuoco.
Nella storia della ruota, la sua primitiva intuizione e scoperta viene generalmente attribuita ad un ciclo culturale pastorale, esistente già nel IV secolo a.C. Costruita all’inizio in forma prima di legno massiccio, la ruota verrà in seguito costruita con una sola “corona periferica” in legno, collegata al “mozzo” centrale da un certo numero di raggi.
La fontana di Melezet firmata da
“Ioannes Aroude de Melezeto”. [foto G. Schlatter]
In questo caso, appunto nella ruota a cerchio della fontana di Melezet, i raggi possono essere sostituiti da una croce forse per rendere maggiormente la sacralità.
Col passare del tempo l’invenzione della ruota, oltre ad essere vissuta come utilità, verrà in seguito vissuta nella sua sacralità in relazione alla sacralità della sfera del Sole, come forma e come energia produttiva.
La ruota oltre a promuovere energia, verrà poi a presiedere ad uno sviluppo sacrale di “unione sacrale”. Promuovendo di conseguenza uno sviluppo primitivo della forma della famiglia.
Famiglie appunto appartenenti ad una “cultura pastorale” come in questa valle a Melezet.
In Francia si tengono ancor oggi ceneri del ceppo natalizio, per guarire le infiammazioni ghiandolari. “Il male del fuoco”, veniva così chiamata l’infiammazione delle ghiandole inguinali e ascellari. Solo più tardi si verrà a sapere che tale male era provocato dalla “segala cornuta” di cui si nutrivano i montanari in tempi di carestia.
Segala e orzo venivano seminati ad alta quota, là dove il frumento poteva non più crescere ed essere quindi coltivato. Avveniva purtroppo che in questi periodi, specie nei tempi di siccità, la segala veniva appestata da un insetto che provocava, a chi se ne nutriva, un’acuta infiammazione alle ghiandole dalle quali partivano poi lacerazioni sparse in tutto il corpo, sino a perdere l’uso degli arti.
Il “fuoco sacro” a cui il popolo si rivolgeva per combattere il male della pelle era anche detto il “fuoco di Sant’Antonio” a cui la chiesa di Melezet era stata dedicata.
Le piaghe venivano allora ricoperte di grasso, come il Santo Abate aveva insegnato, non per lenire il dolore ma per impedire il passaggio dei raggi solari che avrebbero aumentato l’infiammazione alle ghiandole. Per questa ragione Sant’Antonio, vissuto nel IV secolo d.C., protettore degli ammalati della pelle di cui anch’egli aveva sofferto, veniva sempre rappresentato accompagnato da un maiale il cui grasso era appunto simbolo del potere lenitivo e protettivo che il Santo distribuiva agli ammalati. Sant’Antonio vestiva sempre di nero per indicare appunto la necessità dell’ombra. Sulla spalla portava il segno del “Tau” simbolo di una stampella su cui l’ammalato potesse reggersi.
Il “Tau” inoltre era la raffigurazione dell’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, simbolo quindi della “fine” del destino.
Verso l’anno Mille, dalla Francia, presero poi a venire dei Canonici frati detti “Antoniani”, per la cura di tali ammalati; generalmente di origine nobile, vestivano anch’essi di nero portando sulla spalla la croce “Tau” di colore azzurra. Nel territorio di Bardonecchia sono state rinvenute due sculture in pietra rappresentanti il segno del Tau, oggi posti nel muro di cinta del territorio parrocchiale. Testimonianza appunto del tempo del “male del fuoco” anche qui vissuto e sofferto.
Gli ospizi, costruiti per ricoverare gli ammalati colpiti da tale morbo, venivano dunque edificati “al Nord” dove monaci e ammalati convivevano. In Val di Susa, costruito verso il Mille fu infatti l’ospizio di S. Antonio di “Ranverso”, il cui etimo significa appunto “in senso contrario” al sole.
“Il fuoco sacro” a cui ci si rivolgeva per combattere i mali della pelle, era dunque acceso e venerato dal popolo in senso “taumaturgico”, rappresentato sotto forma di ruota infuocata come appunto troviamo raffigurata in quel “tempo di peste” a lato della fontana di Melezet. La sua forza persuasiva risiedeva nella sua capacità di governare la “sfera” del male, nella fiducia di una convivenza più sopportabile  accompagnandosi al sacro.
Agli occhi dell’uomo di quel tempo, il “rito del fuoco” era l’unico possibile “rapporto” col “mistero” del male. Più tardi tale cultura verrà poi vista come un procedimento più di esorcismo che di credo. Quindi ne verrà a cadere l’usanza, specie nei momenti di recupero della salute in cui prevalse il “credo”, senza voler segnare i limiti tra la magia e la religione.
Culti che esprimono i bisogni, i desideri di una “collettività”, non del singolo individuo ma un’espressione sociale. Veniva così stabilita una “sfera” sacra la quale, per così dire “rappresentava” l’anima della società. 
Un centro, la fontana intorno a cui si svolgevano i rapporti sociali e anche le potenze superiori determinanti la collettività. Una “sorgente” di forze alle quali ci si poteva rivolgere solo in forma collettiva.
Ecco dunque il valore della rara testimonianza oggi ancora presente alla fontana di Melezet, nella memoria di un tempo così tragicamente vissuto. Una lastra di pietra.
Non dispersa, ma tolta nel tempo e custodita in segreto. Poi ripresa e ricollocata alla fontana, come oggi si può osservare sul fianco, sostenuta da una barra di ferro, testimonianza “presente” e non perduta del vissuto di un popolo.
Giuliana Schlatter

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Alcune notizie sulla Cappella di
NOSTRA SIGNORA DELLE GRAZIE

Il registro del tesoriere della Cappella dedicata a Nostra Signora delle Grazie ci permette di rammentare alcune notizie sulla Cappella di “cime d’la viere” in quanto, oltre alla registrazione delle offerte e delle spese, riferisce di alcuni fatti che riguardano l’edificio.(*)
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(*) Entrambe curate da Guido Ambrois sono già pubblicate su questo blog le trascrizioni complete: 
 -  Documentazione pervenutaci sulla Confraternita di Nostra Signora del Suffragio (1767-1785).

Queste ad altre trascrizioni d'Archivio sono reperibili alla voce Archivio Parrocchiale

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La chiesa di Sant’Ippolito accolse 8.000 pellegrini e tre Vescovi
Quel grandioso 
CONGRESSO EUCARISTICO A BARDONECCHIA
Presieduto da Mons. Umberto Rossi con l’assistenza di Mons. Calabrese e Mons. Grumel Il 26 luglio 1925 (ormai quasi novant’anni fa) è una data destinata ad essere scolpita nella storia di Bardonecchia. Quest’ultimo «lembo di terra italiana, in cui, come in amplissimo anfiteatro convergono le quattro valli secondarie di Rochemolles, del Fréjus, della Rhô e di Valle Stretta» venne scelto, nell’Anno Santo 1925, quale sede per lo svolgimento del VI Congresso Eucaristico Diocesano (i precedenti Congressi ebbero luogo
a Susa, Borgone, Sant’Ambrogio, Oulx e Bussoleno).
Promulgato da Pio XI(1) con la Bolla Infinita Dei misericordia, l’Anno Santo 1925(2) (ventitreesimo Giubileo nella storia della Chiesa) fu concepito come un’occasione di ripresa della spiritualità cristiana. Il Pontefice proponeva tre grandi obiettivi: riportare la pace nel mondo, stabilire un’unità tra i cristiani separati e trovare una soluzione definitiva per la Terra Santa contesa tra eredi ed ebrei. A Susa è Vescovo da quattro anni Mons. Umberto Rossi. Originario di Casorzo Monferrato (Diocesi di Casale e provincia di Alessandria), Mons. Rossi fu consacrato Vescovo nella Cattedrale di Casale il 14 agosto 1921 da Mons. Albino Pella, Vescovo di quella città. Consacranti ausiliari furono Mons. Giuseppe Calabrese, Vescovo di Aosta e Bardonecchiese d’adozione, e Mons. Giuseppe Castelli, Vescovo di Cuneo, predecessore di Mons. Rossi a Susa(3).
In pochi anni di Episcopato, Mons. Umberto Rossi(4) ha già introdotto la causa di Beatificazione del suo Santo predecessore Mons. Edoardo Giuseppe Rosaz, il «padre dei poveri», morto in concetto di santità nel 1903(5); ha richiamato i chierici segusini da Chieri e Torino, ristabilendo localmente tutti i corsi prescritti; ha avviato i restauri della Cattedrale di Susa; ha fatto costruire (1922) una nuova Cappella-rifugio sul Rocciamelone, all’altezza di 3.535 metri(6).
Ed eccoci giunti al 1925, anno del Congresso Eucaristico a Bardonecchia. Il paese dell’Alta Valle della Dora Riparia è già, come oggi, suddiviso in Borgo “Nuovo” e “Vecchio”. La parte più recente, sede di alberghi, caffè e negozi, è sorta con le costruzioni edificate contemporaneamente e successivamente all’apertura della ferrovia: una strada rettilinea (attuale via Medail), fiancheggiata da moderni ed eleganti villini e lunga più di un chilometro, sale e conduce al borgo superiore.
Lassù, al punto estremo della strada, si scorge il bianco campanile «verso cui sempre s’orienta il sospiro nostalgico d’ognuno». La chiesa parrocchiale di Bardonecchia, che ospitò il Congresso nel ’25, è di costruzione relativamente recente e non vanta più di un secolo dalla sua erezione(7)
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1 Lo stesso Papa indirà nel 1933 un Giubileo per celebrare il mitico centenario della Crocifissione di Cristo.
2 Tra i molti santi proclamati nel ’25, vi furono le canonizzazioni di Teresa di Gesù Bambino, Giovanni Maria Vianney e Marie Bernadette Soubirous.
3 Il solenne ingresso del Vescovo Umberto Rossi avvenne il 6 novembre 1921. Resterà a Susa undici anni, sino al 2 luglio 1932, anno in cui fu promosso da Pio XI alla sede di Asti.
4 Eletto Vescovo di Susa a 42 anni, la persona maestosa, i capelli biondi che contornavano il viso grave ed ascetico, i forti occhi azzurri, la voce calda e timbrata, Mons. Rossi era un condottiero di uomini.
5 Sarà Giovanni Paolo II, il 14 luglio 1991, ad ascrivere il Vescovo Rosaz nell’albo dei Beati.
6 Nel 1925, anno del Congresso Eucaristico a Bardonecchia, indisse e guidò personalmente un  pellegrinaggio diocesano che si spinse fino alla vetta della santa montagna, su cui troneggia Maria, la Castellana d’Italia.
7 Fu innalzata sulle basi dell’antica dal Parroco don Giovanni Vachet nel 1828 e consacrata da Mons. Chirio nel 1832. Dell’antico tempio non rimane che una torre campanaria, che fiancheggia la chiesa attuale dal lato di Via Grattoni (all’epoca Via di Francia).
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«L’ampia parrocchiale di S. Ippolito ...
messa a festa nei ricchi damaschi
dalla ditta torinese Obert».
[foto coll. P. Di Pa
scale]

Anche nella chiesa di Sant’Ippolito sono presenti opere del la celebre scuola di scalpellini e scultori sorta nella vicina Melezet verso il 1500, quali la conca battesimale e l’ancona in legno dell’altar maggiore. Altro insigne monumento, ancor più antico dei precedenti, è il magnifico coro in legno di noce scolpito, già di appartenenza dell’Abbazia di Novalesa: gli stalli sono sormontati da sculture colorate dalle due tinte usate anticamente nelle miniature, la turchina e la rossa, e raffiguranti i profeti. Tutta l’abside ed il  presbiterio furono decorati, all’inizio del Novecento, per cura del Parroco don Francesco Gallasso, dalla ditta Boasso; ed il pittore Luigi Morgari ornò il soffitto di un suo affresco, che si svolge su di una trentina di figure rappresentanti uno dei miracoli del taumaturgo Santo di Padova (8).
Ma veniamo alla cronaca del 26 luglio 1925. Il Congresso è preceduto, sabato 25 luglio, dal triduo predicato dal Vescovo di Aosta, Mons. Giuseppe Calabrese, tanto caro ai bardonecchiesi, e da Mons. Evasio Colli(9), Parroco di Occimiano Monferrato e amico fraterno del Vescovo Rossi.
«La cittadina del VI Congresso – scrive il settimanale La Valsusa del 1º agosto 1925 – presenta un aspetto ben pittoresco. Ad ogni finestra, ad ogni balcone vi sono drappi, bandiere, variopinti lampioncini alla veneziana ed elettriche ghirlande. L’ampia parrocchiale di Sant’Ippolito, severa e slanciata nelle sue linee  classiche, messa a festa nei ricchi damaschi della ditta torinese Obert è sfavillante nell’artistico progetto di illuminazione della navata e dell’abside in mezzo a cui radioso spicca il candido altare».

«Dalla Francia e dalla bassa Valle giungevano a Bardonecchia migliaia di pellegrini, con decine di bandiere sventolanti». [foto coll. P. Di Pascale] 


Alla solenne e pacifica «Assemblea degli Adoratori dell’Eucaristia» prendono parte tre Vescovi: ai citati presuli italiani, Mons. Umberto Rossi e Mons. Giuseppe Calabrese,  si affianca Mons. Auguste Grumel, Vescovo di Saint Jean de Maurienne, in rappresentanza della Chiesa francese.
Fittissimo il programma. Sabato 25 luglio, ore 19,40: ricevimento di Mons. Rossi alla stazione ferroviaria; ore 21: concerto in piazza della chiesa; ore 22,30: inizio della Veglia presieduta dal Vescovo diocesano, cui segue l’Ora di adorazione predicata da Mons. Colli. A mezzanotte Mons. Calabrese celebra la Santa Messa e la Comunione generale «apparve interminabile: molti giovani e molti uomini venuti anche di lontano».
La chiesa resta aperta tutta la notte. Alla S. Messa delle 1,30, celebrata dal Parroco di Bardonecchia e Vicario Foraneo, don Francesco Gallasso, «tutti i banchi apparvero pieni di sole cuffie bianche: erano le brave donne del paese».
«Le Sante Messe – annota La Valsusa – s’alternavano ininterrotte per tutta la notte e la mattinata ancora. E mentre le Comunioni si moltiplicavano, i treni di Francia e della bassa valle recavano a Bardonecchia festante migliaia di pellegrini, decine di bandiere sventolanti. All’arrivo di uno dei due treni francesi la banda del Mario Chiri e quella di Modane intonano la Marcia Reale e la Marsigliese».



«La grandiosa processione per le vie di Bardonecchia conclusasi con la solenne Benedizione Eucaristica in Piazza Statuto nel Borgo Nuovo». [foto collezione P. Di Pascale]

Alle 8 Mons. Grumel celebra per il primo nucleo di pellegrini francesi: sono circa 800. Un’ora dopo hanno inizio le quattro «Adunanze di studio»: Palazzo delle scuole per gli Uomini cattolici, oratore Amedeo Martinacci, sotto la presidenza di Mons. Rossi; Palazzo Municipale per le Donne, oratrice Anna Maria Valletti, presidente Mons. Calabrese; Casa Agnès (Piazza della Chiesa) per la Sezione G.C.I. (Gioventù Cattolica Italiana) e francese, oratore Renato Vuillermin (10), presidente Mons. Grumel; Salone Kursaal per la Sezione G.F.C.I. (Gioventù Femminile), oratrice Celina Rousset, presidente Mons. Colli. Alle 10,30 ha luogo il grandioso rito pontificale, presieduto da Mons. Umberto Rossi con l’assistenza degli altri Vescovi. I cantori della Federazione Valsusina,diretti dal teologo Gastone, eseguono la Missa XVIII di Haller. Nel pomeriggio, dopo ben tre Ore d’adorazione (oratori: il Vescovo francese Grumel ed i canonici Michele Blandino e G. Borello), la grandiosa Processione per le vie di Bardonecchia(11) conclusasi dalla solenne Benedizione Eucaristica, impartita dal Vescovo Umberto Rossi, in Piazza Statuto nel Borgo Nuovo(12).
Il settimanale La Valsusa del 1º agosto 13 successivo uscirà con questo titolo: «Gesù Cristo ha trionfato alle porte d’Italia col VI Congresso Eucaristico di Bardonecchia. Un’altra data d’oro: la più bella! Nel declivio più pittoresco delle Alpi due Popoli hanno intrecciato l’Osanna al Cristo amoroso. 8.000 Congressisti - 60 bandiere - Valsusa come nei suoi giorni più belli».
Stefano Masino
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8 Si tratta del miracolo eucaristico della mula digiuna che piega le ginocchia dinnanzi all’Ostia Divina e rifiuta di saziarsi ad un lauto pasto di avena offertogli dall’incredulo padrone
9 Ordinato sacerdote nel 1905, Mons. Evasio Colli viene eletto Vescovo di Acireale nel 1927 e, cinque anni dopo, promosso alla sede di Parma.
10 L’avvocato trattò il tema: «La Santa Messa»
11 Partita da Piazza Vittorio Veneto (Piazza della Chiesa), la lunga processione percorre Via alla Stazione, Piazza Statuto, Via Medail, Stazione, Chemin Royal du Chateau e ritorno alla chiesa parrocchiale. In testa vi sono gli accoliti e una piccola coorte di santi simbolici (S. Giovannino, S. Pancrazio, S. Ippolito, S. Tarcisio, Teresa del Bambino Gesù); seguono: Scuole municipali, oratorio festivo di Oulx, asilo di Bardonecchia, donne velate e la banda musicale di Modane, Circoli (tra questi il Sant’Agnese di Bardonecchia e l’Edoardo Rosaz di Susa), Donne cattoliche della Valle e donne in costume di Bardonecchia, banda Mario Chiri, cantori, Croce del clero, parroci in mozzetta, tre Vescovi, SS. Sacramento sotto il baldacchino. I carabinieri in alta uniforme scortano l’Ostia divina di Gesù. Chiudono la processione il Consiglio comunale di  Bardonecchia e quelli di Melezet, Millaures e Rochemolles, comitati, militari, ex combattenti, rappresentanze varie cittadine e circondariali.
12 La spettacolare processione eucaristica ha un un’unica sosta, in Piazza Statuto, davanti all’altare da campo di colore rosso eretto nei pressi dell’Hotel Someiller. Quando Mons. Auguste Grumel depone Gesù sull’improvvisato trono, tutti si prostrano. Poi squilla una tromba e il Vescovo di Susa, Mons. Umberto Rossi benedice la folla commossa. La Benedizione finale verrà impartita in Piazza Vittorio Veneto, al ritorno della processione.
13 Desidero ringraziare le persone che mi hanno agevolato nella ricerca delle fonti per redigere il presente  articolo: Direzione e Redazione dell’antico settimanale “La Valsusa”; nonché l’amico di Sant’Ippolito, Gianmario Marras.
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Ricordando RICCARDO CHICCO (1910-1973) 
villeggiante a Bardonecchia
Per alcuni anni – tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso – il pittore Riccardo Chicco soggiornò a Bardonecchia. Nel suo ricordo presentiamo due mostre recenti che indagano il suo vivace sguardo sul mondo.
L’articolo completo già edito sul blog: Ricordando RICCARDO CHICCO
Maria Luisa Tibone
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LA BARCA D’ORO DEI RE
Conferenza di Maria Luisa Tibone tenuta al Palazzo delle Feste di Bardonecchia il 1º gennaio 2013
Già edito sul blog: LA BARCA D’ORO DEI RE
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IL PELLEGRINAGGIO NELLA SACRA SCRITTURA
Il pellegrinaggio cristiano è un fenomeno di grande attualità ed in continua crescita: ogni anno milioni di persone si recano nei luoghi santi per cercare la presenza di Dio nelle meraviglie della Sua creazione, per scoprire le epifanie del Suo mistero e contemplare la bellezza del suo amore immenso, che si manifesta nel cuore di ogni uomo, “tempio di Dio”, creato a Sua immagine e e somiglianza.
La parola pellegrinaggio deriva dall’espressione “per agros agere”, andare per i campi, uscire dalla città, dai luoghi consueti, per mettersi in cammino verso luoghi sconosciuti per vivere una profonda esperienza interiore.
In una società dei consumi, dove tutto corre in una forma vertiginosa, è indispensabile avere il coraggio di fermarsi, per pensare e riflettere sui valori essenziali della vita; ne consegue che il pellegrinaggio è un’occasione privilegiata per l’uomo e per il cristiano, per “sostare lungo il cammino” per valorizzare l’incontro con la natura, la storia, l’arte, la religiosità di un itinerario, ma soprattutto con se stessi e con Dio, per un’educazione all’ascolto, al dialogo, alla condivisione, all’amore e alla pace.
Cattedrale di Fidenza (PR): corteo di pellegrini. [foto Archivio]
Fin dai tempi più antichi, il pellegrinaggio costituisce un’esperienza comune a molti popoli, è parte integrante di tutte le religioni che lo prescrivono come norma e ne dettano le modalità. Per spiegarne l’origine, bisogna andare indietro nel tempo, quando gli uomini, trovandosi di fronte a fenomeni naturali per loro inspiegabili o a spettacoli di incomparabile bellezza, provarono una sensazione forte, nuova e avvertirono la presenza divina. A destare questo sentimento fu il vedere un bosco impenetrabile o una sorgente che scaturiva copiosa da una roccia o una spaccatura del terreno da cui uscivano vapori sulfurei: il provare nostalgia per questi luoghi, emblemi della presenza divina e il viaggio per ritornarvi, per riprovare quella sensazione e per chiedere protezione alla divinità che lì si era manifestata, fece nascere il pellegrinaggio. Questo fenomeno è presente, pur secondo modalità diverse, in tutte le civiltà: per esempio, i Greci, già prima dell’età classica, usavano compiere dei pellegrinaggi verso dei santuari in cui veneravano gli dei a loro cari: molti si recavano a Delfi, dove, accanto ad una fenditura del terreno, sedeva la Pitia, una donna che, inebriata dai vapori sulfurei, dava responsi in nome del dio Apollo; molti secoli prima che Maometto predicasse l’Islamismo, di cui una delle prescrizioni fondamentali è il pellegrinaggio alla Mecca, le tribù che abitavano la Penisola Arabica, percorrevano lunghe distanze nelle zone desertiche per andare a venerare “la pietra nera”, un meteorite di grandi dimensioni.
Presso gli Ebrei, che godevano della rivelazione divina, il pellegrinaggio rivestì sempre una grand importanza, per ché si rifaceva all’esempio di Abramo, l’arameo er rante e all’Esodo dall’Egitto, episodi fondanti delle vicende del popolo e testimoni della predilezione di Dio. È no to, e da tutti accettato, che il viaggiare, l’andare “tra le genti straniere”, ha da sempre costituito una curiosità sapiente, un mezzo per conoscere se stessi e per discernere il bene dal male; questo fa lo scriba sapiente descritto dal Siracide, che
«... viaggia tra genti straniere, investigando il bene e il male in mezzo agli uomini» (Sir 39,5); egli interpreta così il bisogno universale di conoscere il senso e il destino proprio di ogni vivente, di percepire e penetrare il fondamento della convivenza umana e delle culture ad essa correlate.
Il viaggiare è una tendenza arcana e arcaica che è intrinseca all’uomo e lo definisce come un essere “viator”, uomo che vive sulla via.
C’è una differenza sostanziale tra il viaggiare ed il pellegrinare: il primo viene compiuto per fini utilitaristici, il secondo si distingue nella motivazione, nella modalità e nella meta che è sempre collegata ad un luogo di alta valenza religiosa. A questo proposito giova ricordare le parole del Papa Giovanni Paolo II che, nel  discorso n. 5, definì il pellegrinaggio «... esperienza fondamentale e fondatrice della condizione del credente, homo viator, uomo in cammino verso la fonte di ogni bene e verso il suo compimento».
Per questa condizione umana, la via diventa essa stessa metafora della vita, guida al compimento del proprio destino ultimo; si delinea così la figura dell’homo peregrinans, colui che per antonomasia cammina verso una meta alta, santa, estranea alla quotidianità spazio-temporale.
Non si addice al cristiano l’attitudine a fermarsi in un quietismo fatalista, perché gli è propria la propensione a camminare avanti, oltre la quotidianità per tendere all’altrove.
Compiere un pellegrinaggio significa allontanarsi dal mondo abituale di vita per non correre il rischio di un radicamento che condanna alla dimenticanza di Dio. È necessario uscire dalla città, sentita come “luogo definito e definitivo”, per cercare “i beni promessi” non ottenuti «ma solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri o pellegrini sulla terra» (Eb 11,13). Così fece Abramo (Gen 15,1-21) che lasciò Canaan e la casa di suo padre, per ubbidire alla chiamata del Signore che gli aveva promesso una discendenza numerosa ed una terra in cui stabilirsi. Dopo lunghe peregrinazioni, abitò come “straniero e pellegrino” la terra di Canaan, come se quella non fosse la sua sede definitiva, sempre pronto a rispondere alle chiamate del Signore, in attesa di una patria più vera, «la città ben fondata, della quale è stato architetto e costruttore Dio stesso» (Eb 11,10). Durante il suo cammino, più volte Dio gli si manifestò ed egli volle segnalare queste epifanie costruendo altari a Sichem, a Betel, a Mamre, a Bersabea, luoghi che divennero poi, per il suo popolo, meta di pellegrinaggi. Il lungo periodo trascorso nel deserto, tra l’Esodo, la prodigiosa uscita dall’Egitto ed il ritorno nella Terra dei Padri, deve essere considerato come un lungo pellegrinaggio, durante il quale Israele diventa il popolo testimone del Dio unico, dei suoi espliciti interventi nella storia per la salvezza e depositario della Legge data da Dio e Mosè, sul Monte Sinai.
Dopo il periodo della confederazione tribale, si costituisce la monarchia e Gerusalemme è la capitale del regno; qui Salomone costruisce il Tempio, che diviene il centro unitario del culto del Dio dell’Alleanza, il luogo dove il popolo serve il suo Signore; questa è la meta cui convergono i pellegrini che vengono dalla Giudea, dalla Galilea e dai diversi luoghi della Diaspora, in occasione delle festività più importanti, la Pasqua, la Pentecoste e le Capanne. Queste feste sono indicate con il termine ebraico hag, che ha il significato di danzare, girare in tondo perché, dopo le offerte e i sacrifici, si svolgevano le processioni e le danze che caratterizzavano la parte finale dei pellegrinaggi.
Lungo la tradizione storica si è formata una specie di manuale del pellegrino; vi si trovano i canti dei pellegrini, i cosiddetti salmi ascensionali, che vanno dal 120 al 134, con i quali gli Israeliti pregano mentre “salgono” a Gerusalemme; il loro contenuto ha la caratteristica di una catechesi che induce ad una riflessione sulle realtà fondamentali della religione ebraica, per tradurle in pratica di vita.
Gesù, «nato sotto la legge» (Gal 4,4), si inserisce nella tradizione del popolo d’Israele con spontaneità e fedeltà: «I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua» (Lc 2,41) ed è in una di queste occasioni che ha luogo l’epifania sapienziale di Gesù dodicenne.
Sul “Cammino di Santiago”. [foto Archivio]
I Vangeli ci narrano che Gesù, accompagnato dai suoi discepoli, va più volte a Gerusalemme come pellegrino per la festa di Pasqua e sul numero di questi pellegrinaggi si basa il computo della durata della sua vita pubblica. Egli venera il tempio, ma si presenta come il nuovo tempio; pratica le tradizioni come un pio israelita, ma condanna il formalismo religioso (Mt 12,3-7); riconosce nel tempio “la casa di Dio”, il luogo della preghiera e della riconciliazione e ne scaccia i mercanti (Mt 21,12-14); ne prevede la rovina (Mc 13,1-2) e piange il suo futuro. Con Gesù la funzione sacrale e quella di rappresentanza politico-nazionalista, sono sostituite dal suo stesso corpo (Gv 2,21; 1,14); è Giovanni che riporta la frase misteriosa del tempio  distrutto e santificato in tre giorni (Gv 2,19), «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,21).
L’Evangelista Luca rappresenta l’azione salvifica di Gesù come la meta intenzionale di un pellegrinaggio a Gerusalemme (Lc 9,51) durante il quale insegna e compie miracoli; anche il Vangelo di Giovanni, la peregrinazione di Gesù si colloca nel compimento della sua missione redentrice ed è messa in evidenza la stessa figura di Gesù pellegrino: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre» (Gv 16,28); l’immagine è duplice: una rivela la sua identità, l’altra la sua esistenza terrena; l’una lo rapporta al Padre, l’altra lo rappresenta nella sua forma umana, in tutto simile all’uomo, fuorché nel peccato. L’ultimo suo pellegrinaggio a Gerusalemme si conclude con la sua azione salvifica nella consapevolezza di esaudire la volontà del Padre: «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e che da Dio ritornava, si alzò da tavola...» (Gv 13,3-4). Gesù è dunque l’esemplare, il modello del pellegrino fedele, che attua la volontà del Padre, che accetta ogni prova, anche quella più ignominiosa della croce. Nella Lettera agli Ebrei (Eb 13,13-14) S. Paolo ricorda che «Gesù, per  antificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi  all’accampamento e andiamo verso Gesù, portando il suo obbrobrio perché non abbiamo quaggiù una meta stabile ma cerchiamo quella futura». Come un pellegrino, Gesù risorto si accompagna ai discepoli di Emmaus, li conforta e ravviva la loro fede, richiamando i passi delle Scritture che si riferivano a lui. Nel segno del pellegrinaggio, durante la festa di Pentecoste, quando a Gerusalemme si trovava una moltitudine di Ebrei osservanti venuti da paesi lontani, i discepoli, «... pieni di Spirito Santo, cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,4); ha così inizio la prima predicazione evangelica e si inaugura l’espansione missionaria della Chiesa.
Seguendo il criterio interpretativo della storia della salvezza, proprio della teologia biblica, possiamo precisare che il pellegrinaggio assume una rilevanza essenziale come esperienza spirituale della “salvezza donata”, adeguandosi alla “condizione itinerante del popolo di Dio”, dalla figura esemplare di Abramo, «arameo errante» (Dt 26,5), al Figlio dell’Uomo che, mentre cammina verso Gerusalemme, passando per i villaggi, compie la sua esistenza missionaria. La Chiesa è pellegrina nel mondo, in totale obbedienza al suo fondatore Gesù Cristo, pellegrino per sua scelta, in uno stato di continua itineranza verso il cielo, considerato come ritorno in patria, come afferma la Costituzione dogmatica Lumen gentium che afferma la caratterizzazione escatologica della Chiesa peregrinante in unione con la Chiesa celeste (CV2, Lumen gentium, 48-50).
Graziella Bava

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