30/03/06

L’ANGOLO DELLA CULTURA Civiltà nell’arte (2005

Ritrovare l’arte del passato per progettare il futuro 
«La Tur d’Amun» 
Quando a Bardonecchia c’erano una torre e un castello... 
Il vecchio coro della chiesa romanica 
Una tabacchiera... a Bardonecchia
***
L’ANGOLO DELLA CULTURA
Civiltà nell’arte
Ritrovare l’arte del passato 
per progettare il futuro
Questa è una storia che ha radici lontane. Riguarda una piccola chiesa sita in un paese del Canavese occidentale: Rocca di Corio. Chi racconta è una signora gentile, la professoressa Mauriziella Vittone, che ci vive in una accogliente casa sulla piazza principale.
«Era l’anno 1960. Mi ritrovavo già da tempo a frequentare con assiduità lo studio del pittore Lorenzo Alessandri, studio detto poeticamente “Il cielo”, una grande terrazzacontenitore completamente formata da vetrate e con balconata intorno, in Via dei Mercanti a Torino. Questo naturalmente insieme a mio marito, suo amico fraterno e anche parente, avendo Lorenzo sposato sua cugina Dina Foppa. Con loro avevamo già condiviso un tratto significativo del nostro percorso di vita seguendo strade che ci portavano ad attività legate ad arte e varia umanità. Andavamo sovente per chiese e cappellette in città e in campagna, sul modello delle celebri “Passeggiate” ottocentesche, con blocco da disegno o macchina fotografica.
“Il cielo” da Via dei Mercanti offriva una vista “a volo” su Torino, con i suoi tetti, le mansarde, le case austere, le belle chiese barocche e lasciava sospesi gli sguardi a ghirlanda tra la Mole Antonelliana e la Torre Littoria, tra la cupola del Guarini e quella di San Lorenzo dalla quale pencolava talvolta come una bandiera il pittore e restauratore Silvano Gilardi – poi detto Abacuc – lanciando alle nuvole ampi saluti o forse prendendo spunto per dipingere i suoi “volatari”. Da quel luogo fantastico si potevano solo immaginare le geometrie rassicuranti delle strade e le aperture improvvise sui giochi tra luce e ombra delle grandi piazze porticate o tutti quei punti della città carichi del fascino ambiguo della Torino magica evocata da Lorenzo Alessandri nei suoi quadri; vi si sentiva scorrere, sia pure in lontananza, il concreto vivere cittadino, segno rassicurante della vocazione di Torino al lavoro.
In studio si lavorava, si parlava molto, si rideva anche molto (chi ha detto che i torinesi sono poco propensi all’ironia?) si snocciolavano non-sense esilaranti su tutto e su tutti ma anche si facevano progetti e la porta era sempre aperta a tutti coloro che condividevano questo modo di stare insieme. Arrivavano artisti o aspiranti tali, modelle, critici alle prime armi, collezionisti non ancora miliardari, medici, professori seriosi e allievi timidi. È da questo crogiuolo di esperienze e di incontri che scaturiva “La Candela”, un periodico che riportava sulla carta la penna solforosa di Lorenzo e insieme al segno, gli umori di questa miscela di creatività e trasgressione, di intelligenza e di leggerezza goliardica. Il tutto si consolidava poi intorno ad Alessandri nel gruppo “Surfanta” che ebbe la sua sede espositiva alla “Bottegaccia” di Giaveno, Galleria d’arte e di antiquariato creata e gestita dal mio ex-marito Emilio Citrone e da me tra il 1962 e il 1968. In quegli anni è proprio attraverso la capacità di fare progetti che si dava voce a proposte concrete re lative alla salvaguardia di opere dimenticate e si mettevano in gioco le capacità di ognuno nel farsi carico di nuove responsabilità. In questo quadro di riferimento si può collocare l’interesse legato alla chiesa di S. Croce di Rocca Canavese. Il paese era, all’epoca, lo scenario delle nostre vacanze estive; il luogo nel quale ritornare a vivere durante l’estate a contatto con la buona terra di cui si apprezzavano i doni in pace e libertà dopo le nefandezze di una guerra non del tutto dimenticata.
“Il grido di dolore” di Alessandri – tra ironia retrò ed ingenuità – “Italiani, siamo dei barbari?”, apparso sulla “Candela” e ripreso dalla stampa cittadina partiva anche dalla semplice considerazione che se è vero che gli anni ’60 erano quelli della ricostruzione e del benessere (Torino era ancora tutto un cantiere per le celebrazioni dell’Unità d’Italia), perché non avere un occhio di riguardo anche per quel patrimonio d’arte che fa parte della nostra storia, anche se minore? Si attivava subito tutta una serie di interventi in un
susseguirsi encomiabile di scritti, di articoli di giornale dalle firme prestigiose (Marziano Bernardi, Davide Cravero, Gigi Michelotti, Angelo Dragone, Enrico Gianeri) e il grido si faceva eco fino ad arrivare ad ottenere attenzione e conoscenza delle realtà spesso dimenticate dei nostri paesi, ancora così pieni di attrattive per vacanze da ”buona salute” ma, nei loro aspetti storico-artistici, lasciati purtroppo al declino.
A Rocca sorgeva allora il “Comitato per una chiesa da salvare” presieduto dal compianto prof. Enrico Anglesio, affiancato da tutte le persone interessate a portare avanti il progetto con l’attenzione fattiva degli uffici di tutela nazionali e del Piemonte. Nel giro di alcuni anni si veniva delineando concretamente un risultato di rilievo. Là dove qualche amministratore pubblico avrebbe preferito demolire definitivamente la vecchia chiesa per far sorgere un bel parcheggio, si provvedeva invece a fare il pavimento, sistemare il tetto,
rifare gli infissi dotandoli di appositi vetri, rifare il portale identico al precedente in modo che “...ogni aggravamento della situazione degli affreschi è per ora scongiurato” (...da “La Candela” n. 30). Poi negli anni successivi, sciolto il comitato per i troppi impegni di lavoro sopravvenuti a carico delle persone coinvolte e per una indifferenza di ritorno degli amministratori locali, tutto ritornava nel limbo della dimenticanza.
È a questo punto che le imprevedibili vicende della vita mi portavano a trovare proprio a Rocca la mia nicchia ecologica in cui vivere e lavorare. Così, trascorsi ancora anni di oblio, in silente attesa di un momento magico che sembrava talvolta aleggiare tra le vecchie mura, riannodando le esperienze passate alle residue energie del presente. Sotto la spinta di persone lungimiranti – è d’obbligo citare l’ex Sindaco ing. Franco Bertetto, nonché le competenze di una amica storica dell’arte alla quale si deve gran parte della visibilità di Santa Croce e di Piero Molinar che ne è la memoria storica più importante, in quanto custode dei pochi documenti esistenti – insieme a tutti coloro che in qualche modo hanno seguito il lungo cammino di questa avventura, più di quarant’anni dopo, ecco che ci ritroviamo a riprendere l’attività di valorizzazione e recupero della antica cappella-oratorio della ”Rocca di Corio”. Si ricompone il Comitato “Amici di S. Croce” – che cerco di rappresentare non indegnamente – e riparte il lavoro lasciato in sospeso per tanti anni. Determinante il progetto di restauro portato avanti dall’ufficio tecnico del Comune di Rocca, dall’attuale Sindaco geom. Lajolo, approvato dalle competenti Soprintendenze nelle persone della dott.ssa Scalva e del dott. Bertolotto, finanziato in parte dalla Regione Piemonte e a cura del laboratorio di restauro Gian Carlo Rocca. Per quello che riguarda i non facili interventi di promozione, valorizzazione, conoscenza curati dagli “Amici di Santa Croce” queste operazioni si definiscono ora “volontariato culturale” e trovano talvolta ascolto senza dover lanciare sui giornali “grida di dolore” ma non per questo il cammino appare meno faticoso anche perché i maestri che con tanta passione hanno indicato la via non ci sono più a sostenerci. Resta salva negli intenti, insieme al rimpianto, la volontà di fermare lo sgretolarsi della memoria. Sarà forse questa l’ultima, definitiva occasione?».
Così conclude la professoressa Vittone il suo dire e in chi ascolta resta la nostalgia di un mondo irripetibile, evocato con la dolcezza di un caro ricordo.
Maria Luisa Tibone - Maurizia Vittone

L’ANGOLO DELLA CULTURA
Le mani di Dio
Dio solo può dare la fede;
tu, però, puoi dare la tua testimonianza.
Dio solo può dare la speranza;
tu, però, puoi infondere fiducia nei tuoi fratelli.
Dio solo può dare l’amore;
tu, però, puoi insegnare all’altro ad amare.
Dio solo può dare la pace;
tu, però, puoi seminare l’unione.
Dio solo può dare la forza;
tu, però puoi dare sostegno a uno scoraggiato.
Dio solo è la via;
tu, però, puoi indicarla agli altri.
Dio solo è la luce;
tu, però, puoi farla brillare agli occhi di tutti.
Dio solo è la vita;
tu, però, puoi far rinascere negli altri il desiderio di vivere.
Dio solo può fare ciò che appare impossibile;
tu, però, potrai fare il possibile.
Dio solo basta a se stesso;
egli, però, preferisce contare su di te.
Canto brasiliano

«La Tur d’Amun»
La Tur d’Amun verso il 1925. (foto Archivio)
Nelle antiche cartografie la valle di Bardonecchia, prima del Mille, veniva identificata con la piana di Oulx, là dove nella prevostura di San Lorenzo viveva uno dei più importanti centri religiosi delle Alpi occidentali. In un antico documento si testimonia che nel 773 fu Carlo Magno a fare donazione della valle di Bardonecchia col suo castello “Castrum Bardinum”, all’Abbazia di Novalesa, anche se il dominio rimase poi solo nominale.
Dopo l’invasione di Bardonecchia da parte degli Ungari e a partire dal 906 dei Saraceni qui insediatisi per quasi cent’anni, l’alta valle di Susa apparirà completamente priva di castelli, così come si può constatare dai documenti dei Guigonidi e della contessa Adelaide [PIERLUCA PATRIA, “San Restituto del Gran Sauze”, Ed. Omega]. Ma fra il XII e XIII secolo riappaiono notizie sull’incastellamento nella valle della Dora Riparia e di una
definitiva trasformazione degli impianti, che un tempo erano stati solo primitive strutture in parte di legno, in edifici di muratura a protezione del “dominus” e del “dominium”.
Uomini d’arme avevano preso a vigilare sulla sorte di Bardonecchia tramite il controllo del castello su cui  non vigeva nessun’altra egemonia, dovuta anche alla sua posizione appartata.
Si entra così, poco dopo il Mille, nella storia scritta dell’edificazione del Castello d’Amun a Bardonecchia.
Inizialmente i castelli di Bardonecchia come quello di Cesana furono voluti e costruiti dall’aristocrazia locale alla quale appartennero per primi i Signori “De Bardonisca”, qui insediatisi dopo la cacciata dei Saraceni nel 1000. Più tardi Bardonecchia diverrà un dominio “consortile” con altre famiglie, con le proprie leggi e giustizia, sino a quando il Delfino Guigo VII non si introdurrà nei privilegi.
Il signore di allora di Bardonecchia, François de Bardonisca, tradito dal Delfino, viene condannato a morte e in contumacia poi ucciso per annegamento nel 1333. Per la prima volta in quel frangente si parlò allora di incendio del paese e del castello.
Nel contempo due fratelli di un ramo della famiglia venderanno il castello di Bramafam al Delfino, non potendo per debiti condividere la taglia imposta sulla famiglia e sul paese per il riscatto di François condannato a morte. Esuli, divenuti soldati di ventura, moriranno a Poitiers contro gli inglesi.
I Delfini e, alla morte di Umberto II nel 1349, la Francia, verranno perciò ad introdursi nella storia di Bardonecchia e dei suoi abitanti. Se territorialmente e politicamente così si era mosso il tempo d’armi, nel frattempo dalla Francia l’eresia aveva valicato i monti invadendo nel silenzio e nel buio le case e la fede di un popolo. I “De Bardoneche” saranno allora costretti a vendere il castello e tutti i loro possedimenti, come attestano gli atti notarili, per le perdite subite e le devastazioni operate da parte delle forze protestanti che avevano incamerato e sottratto alle parti cattoliche le case, i terreni e i beni, incendiando nello stesso tempo più volte la chiesa divenuta forzatamente loro luogo di culto.
I nuovi proprietari, acquistati i diritti signorili sui territori di Bardonecchia, trasforme- ranno poi il castello e il suo complesso in sede abitativa di cui oggi sono state rimesse in luce le tracce in un sito archeologico. Anche la Tur d’Amun (che sino alla metà del XX secolo svettava ancora sulla valle nelle sua interezza per più di venti metri, completata ancora dal tetto di copertura) faceva sempre parte dei nuovi possedimenti dandoci così, attraverso gli atti notarili dell’epoca, la testimonianza della sua presenza e integrità anche in quel tempo. La torre perciò non era stata distrutta, come si era andato osservando nel corso del tempo sino ad oggi, dalle forze cattoliche del capitano Lacazette venuto in soccorso di Bardonecchia assediata dalle forze Ugonotte [GIACOMO VOLPINI, “Captaine Lacazette”, Promenade n. 2 in Val di Susa, Ed. Morra].
Partito nottetempo da Briançon nell’agosto del 1562, attraverso il Colle della Scala, risalito il Colle d’Amun, Lacazette aveva appiccato il fuoco in gran quantità alla torre per snidare gli armati Ugonotti che, dopo aver incendiato e occupato il borgo, vi si erano rinchiusi. Il fuoco ed il fumo li costrinse ad uscire, una parte fu colpita e una parte riuscì a fuggire. Ma la torre d’Amun rimase salda nel territorio mentre da quel giorno la pressione armata protestante iniziava a calare, anche se nel giugno del 1574 nuovamente si rinnoveranno gli incendi appiccati dai Valdesi a Oulx, a Bardonecchia, a Cesana e a Chiomonte.
Il capitano Lacazette in seguito, in una notte di ritrovo e di festa con una parte della sua famiglia nella propria casa a Oulx, verrà pugnalato mille volte per tradimento predisposto dal capitano Lesdiguières, capo degli Ugonotti. Era il 15 luglio del 1590.
Il Lesdiguières dunque, accanito uomo d’armi Ugonotto, che aveva potuto stabilizzare il suo dominio in Delfinato proprio tramite l’assassinio di Lacazette occupando il forte  di Exilles e avendo come sede Chiomonte di cui aveva dilapidato le finanze, dopo alcuni anni si convertirà diventando cattolico per interessi di carriera diplomatica presso la corte del Re di Francia, Enrico IV.
Morirà nel 1626, quattro anni dopo l’abiura. Ma per cent’anni nelle nostre valli di confine i templi riformati erano stati l’unica presenza religiosa permessa[PIERLUCA PATRIA, “San Restituto del Gran Sauze”, Ed. Omega], mentre le immagini, i tabernacoli, gli altari, le cappelle, le chiese erano stati distrutti e proibiti.
Giuliana Chlatter

Quando a Bardonecchia
c’erano una torre e un castello...
Della Torre d’Amont, del recupero suo e di quel sito archeologico, spesso è stato, scritto in passato su queste pagine. A tale riguardo mons. Bellando nel 1986 aveva pubblicato questa mia frase a commento d’una foto dei ruderi: «I ruderi della Torre d’Amont come si presentano al giorno d’oggi... Sarebbe opportuno qualche intervento conservativo degli stessi e dell’area circostante che è ritenuta di notevole interesse archeologico ».
Poi nel 1994 scrissi ancora: «A proposito dei ruderi dell’antica Torre, pur trattandosi di un torrione difensivo senza particolari pregi architettonici, ma perdurato fino al crollo del secondo dopoguerra, era pur sempre una vestigia medievale del passato. Non potrebbe essere ricostruito? Si spendono tanti soldi per iniziative di dubbia utilità, che non si vedrebbero mal spesi quelli volti a perpetuare un ricordo storico del passato, un monumento che per secoli ha fatto parte del paesaggio di Bardonecchia».
E finalmente si è arrivati al 19 luglio 2005, giorno in cui è stato ufficialmente inaugurato il “sito archeologico” costituito dalla restaurata ed in parte ricostruita Torre d’Amont, di parte del sottostante castello ed i rivellini difensivi.
Quel giorno “La Stampa” ne aveva pubblicato un ampio servizio, anche di notizie storiche; e pure altri qui hanno scritto al riguardo.
Diciamo solo ancora che la Torre è stata ricostruita (per ora?) per 8 metri, rispetto agli almeno 20 metri originari; mentre ulteriori fondazioni e forse un’altra torre i sondaggi avrebbero individuato a Nord delle vestigia ora messe in luce. È quindi auspicabile che ricerche, scavi ed interventi continuino; fondi permettendo.
E per quanto non espressamente detto rimandiamo alle immagini fotografiche.
T.Col. Giuseppe de Franceschi


Il vecchio coro della chiesa romanica
Alle pagine 185-186-187 di un registro del XVII secolo custodito nell’Archivio Parrocchiale, troviamo, scritto in francese arcaico, la testimonianza del pagamento effettuato tra la comunità parrocchiale di Bardonecchia e il falegname Aymar Lard per la costruzione degli stalli del Coro. Si tratta probabilmente degli stalli attualmente collocati nella Cappella invernale a ridosso della parete di fondo.
«Nel pomeriggio del giorno 30 marzo 1668 a Bardonecchia, avanti a me Giovanni Agnes, notaio reale e in presenza dei testimoni firmatari in calce, si è presentato il signor Aymar Lard fu Bartolomeo nativo di Voreppe presso Grenoble, ma residente a Chiomonte. Egli è il falegname, interpellato dal. Signor Matteo Agnes avvocato e procuratore di corte, nominato dai Consoli di Bardonecchia e dal Signor Pietro Pellerin procuratore della Parrocchia, qui presenti.
Questi stessi signori avevano concordato con il signor Aymar Lard già in data 7 maggio 1665, come da documento in mio possesso, la somma di lire 312 per la fabbricazione degli stalli del Coro della Parrocchia. Oltre a questo, anche la somma di lire 78 a titolo di salario delle 56 giornate lavorative sul posto, sue e dei due operai Giacomo Sibille e Francesco Remolif di Chiomonte.
I lavori eseguiti sono stati: il pavimento del Coro; la balaustra; due cassapanche di cui una in larice e l’altra in ciliegio, da utilizzare per il Parroco nelle Messe degli offerenti; una cattedra per la predicazione con la parte superiore in noce e di pregevole fattura; per riparare i banchi conservandone il loro stile.
Il lavoro è stato eseguito dal 14 novembre al 22 gennaio incluso. Durante questo periodo, essi dichiarano di aver ricevuto sempre i viveri assieme ad altre cose per il loro mantenimento. Dichiarano inoltre che il signor Matteo Agnes ha fornito tutto il legname:
larice, noce, ciliegio, ed anche le cerniere e la ferramenta necessaria. Si dichiarano pienamente soddisfatti sia delle 312 lire pattuite che del salario delle giornate lavorative ed anche contenti per il lavoro eseguito in Chiesa. Attestano d’aver ricevuto quanto loro dovuto. Il presente atto è stato redatto nella casa del signor Matteo Agnes in presenza del Parroco Simon Roude dottore in teologia, del signor Pietro Pellerin, console e anche procuratore della chiesa e del sindaco Luigi Nenoit.
Firmato da: Luigi Agnes - Simon Roude - Pietro Pellerin - Matteo Agnes».

Una tabacchiera... a Bardonecchia
Tra le varie, interessanti iniziative culturali organizzate nella “nostra” Bardonecchia durante il periodo natalizio, desidero ricordarne una particolarmente rilevante. Il 27 dicembre, al Palazzo delle Feste, è stato presentato il libro di Massimo Romano “La tabacchiera di Casanova”, pubblicato da pochi mesi, alla presenza dotta, simpatica e coinvolgente dell’Assessore alla cultura, dott. Roberto Canu. L’avvocato Alberto Mittone ha parlato con estrema perizia di questo libro davvero importante, tanto più importante perché si inserisce, quasi mosca bianca, in uno scenario letterario, quale quello attuale, in cui dominano incontrastati prodotti che non sono per nulla “vera” letteratura; eppure, vengono imposti sul mercato come se davvero lo fossero, in nome non certo della cultura, ma di chiarissime operazioni commerciali, che inevitabilmente sviliscono il meraviglioso mondo dei libri.
L’opera di Massimo Romano è, invece, vera letteratura: il lettore ne è affascinato fin dall’incipit, anzi, fin dal titolo. Che cos’è questa tabacchiera, per di più appartenuta a Casanova? È il filo conduttore di una storia che si dipana su di un palcoscenico imprevedibile, in cui gli attori sono scrittori dai nomi altisonanti, da Flaubert a Balzac, da Gogol’ a Tolstoj, da Gobineau a Casanova, da James a Melville e che hanno tutti un momento in comune: il soggiorno a Torino.
Così, andando a frugare tra le pagine, il lettore si trova coinvolto in storie individuali e collettive, è sospinto a carpire i segreti di azioni, pensieri, atteggiamenti dei grandi autori, è trascinato a vivere due tipi di esistenze: quella del “mondo di sopra” e quella del “mondo di sotto”, scoprendo poi che l’unica vera vita, per gli scrittori, è quella del “mondo di sotto” che è, in realtà, non il mondo dei morti, ma quello dei vivi.
Un libraio, un prestigiatore, una cartomante accompagnano il lettore in questo gioco letterario in cui Massimo Romano orchestra appassionanti ritratti, profonde riflessioni sulla lettura, erudite osservazioni sul fantastico mondo dei libri, tenere e preziose descrizioni di una Torino che costituisce lo scenario della vicenda e che viene fotografata in situazioni, momenti di vita, affreschi paesaggistici di estremo valore culturale e affettivo.
Sono lieta che questo libro abbia potuto essere presentato anche a Bardonecchia, in modo perfetto, grazie alla valenza culturale dei due interpreti di prestigio, oltre che agli interventi dello scrittore stesso, perché è un libro straordinario. Scritto con raffinata eleganza e profonda erudizione è, come per magia, un libro da cui ci si allontana a malincuore e che si ha piacere di rileggere per scoprire di più. Un testo dal fascino unico e irripetibile.
Fulvia Gonella Indemini
L’ANGOLO DELLA CULTURA