PENNELLATE
BARDONECCHIESI DI MONSIGNOR BONACCHI NEL DECENNALE
DELLA MORTE (2006-2016)1
Vocazione
sacerdotale “bardonecchiese”
Un bravo regista troverebbe – rovistando un po’– ottimo
materiale per un film biografico su mons. Bonacchi, intrecciando una umanità
ricca e sapida, qual era la sua, ad una fede granitica e luminosa. L’incipit
del film (o della biografia) potrebbe essere quello di un giovane ufficiale alpino
(tenente medico ...stava per laurearsi) che, ormai all’imbrunire, sale per la
centrale via Medail di Bardonecchia, con il suo pesante zaino, verso la chiesa
parrocchiale del Borgo Vecchio. Ma il suo fardello è l’inquietudine che si
porta dentro, che lo attanaglia e che si risolverà, sciogliendosi in una
percezione quasi mistica, come quella della sua vocazione. Bisogna lasciar
raccontare da lui stesso, come fa nei ricordi dal diario di Bardonecchia,
quando il 1º gennaio 1971 inaugura il primo anno di vita della casa “Chez Nous”
di Bardonecchia: «Non avrei mai pensato, più di un quarto di secolo fa,
quando mi trovavo in guerra su questi monti, che un giorno, sacerdote, avrei
riunito qui, in una famiglia, i miei ragazzi “gaudium et corona mea!”». E
dopo alcune osservazioni pedagogiche e pastorali aggiunge: «Chiedo al
Signore, che è stato tanto buono con me, di volermi concedere ancor questo:
come una lontana sera fece sentire a me chiara la voce che mi chiamava al
sacerdozio, mentre salivo, sotto un cielo stellato, la lunga strada bianca di
neve che porta alla chiesa parrocchiale di S. Ippolito, così faccia sentire ai
ragazzi più buoni e generosi che formeranno una famiglia in questa casa, quanto
è bello fare l’esperienza totale del suo Amore nel suo servizio».
Una vocazione sacerdotale manifestatasi nel cuore del sacerdote
pratese in via Medail e dopo più di venticinque anni, ancorata alla conca
bardonecchiese, trovò il modo di tornare nella nostra cittadina, per riversare sulle
anime di tanti giovani la sua spiccata paternità sacerdotale. E lo fece
risiedendo per lunghi mesi estivi e nelle vacanze scolastiche invernali da noi,
per più di 30 anni, producendo un fertile raccolto di vocazioni sacerdotali che
tutti poi, questi sacerdoti, chi più chi meno con Bardonecchia hanno avuto
qualcosa a che fare... insieme a molte solide e cristianamente formate vocazioni
al matrimonio. Non sembra vero, eppure proprio Bardonecchia è stata palestra di
vocazioni sacerdotali.
Nella stessa pagina di diario don Mario si lascia andare alle
confidenze: «Mons. Francesco Bellando, il Parroco di Bardonecchia, parlando
al primo gruppo di ragazzi che ho portati a salutarlo, ha detto che, tra loro,
un giorno ci saranno tre sacerdoti. Dio voglia che la profezia si avveri!». Dopo
molti anni in tanti hanno potuto confermare che ciò è veramente accaduto e che
la profezia si è più che raddoppiata, anche quantitativamente. Mentre don Mario
scriveva queste righe era già notte fonda e tutti i ragazzi presenti dormivano
in quella parte della ex Casa Scuola che don Mario aveva acquisito da “Madame”,
la sig.ra Céline Massara e il professor Carlo Massara che conobbero, stimarono
ed ospitarono il giovane studente di medicina pratese. Intanto don Mario
chiudeva la pagina contento del clima di famiglia che si era realizzato già fin
da quei giorni, in cui tutti erano felici, nella grazia di Dio e nello scenario
“meraviglioso delle nevi cadute in abbondanza in questi giorni”.
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Fonti:
Mons. Mario Bonacchi, All’ombra delle tue ali, Edizioni
Libreria Cattolica, Prato 2006;
Mons. Mario Bonacchi, Paternità spirituale, Edizioni
Libreria Cattolica, 2007.
Il miracolo della Madonna di Rochemolles
Visita di mons. Bellando. |
La chiesa di Rochemolles rifugio indimenticato
Bisogna ricordare ancora che la mamma di don Masset, che don
Mario aveva conosciuto, li accompagnò in chiesa parrocchiale e lì l’alpino
Bonacchi e i tre commilitoni, appena sfuggiti alla prigionia tedesca, passarono
la notte in mezzo a molti incubi nel coretto. Ma di giorno, appena svegli,
visto il tentativo di rastrellamento da parte dei tedeschi, riuscirono a
nascondersi in un anfratto dietro l’altar maggiore, fra il dossale dell’altare
e l’abside, in uno stretto spazio ingombro di vecchi arredi entrando in una
specie di pertugio e riaccostando la statua di S. Pietro che avevano spostato
per entrarvi. Rimasero tutta la notte rannicchiati e spaventati ad ogni minimo rumore
di essere cercati dai tedeschi per il loro complotto con i partigiani.
Finalmente i tedeschi se ne andarono e don Mario e compagni furono avvisati da
un paesano di uscire tranquilli. Don Mario ha scritto nel dettagliato resoconto
di quella esperienza che «tante volte, ritornando a pregare in quella
chiesa, ho pensato che, se fossi stato un personaggio di rilievo, avrei potuto
mettervi un’epigrafe con su scritto – In die malorum abscondi me in abdito
tabernacoli sui». È un versetto del Salmo 26,5: “Poiché Egli mi nasconderà
nella sua tenda nel giorno della sventura. Mi occulterà nel segreto, come in
una rocca inaccessibile”. Un anno don Bonacchi presiedette la festa patronale
di S. Pietro e in quell’occasione regalò alla chiesa il corredo personale dei
paramenti liturgici come segno di riconoscenza verso quella chiesa che lo aveva
protetto nella parte più intima del suo tabernacolo nel tempo del terrore.
Mamma Adriana a Bardonecchia
Un particolare che non conoscevo in verità, ma che ho scoperto
negli scritti di don Bonacchi, è che il legame con Bardonecchia coinvolge anche
la sua povera mamma, Adriana Nocentini, come lui stesso scrive a ricordo del
periodo natalizio 1974-1975, confessando di non riuscire a trattenere le
lacrime rileggendo le ultime parole che la sua cara mamma pronunciò prima di
lasciare per sempre Bardonecchia: «... già piansi tanto quando la vidi
scrivere su questo stesso tavolo del refettorio su cui scrivo anch’io in questo
momento: già sapevo che non sarebbe mai più tornata su questi monti». Don
Mario era incerto fino agli ultimi di giugno se portarla con sé o no, ma non
volle lasciarla a Prato, e facendosi coraggio, dopo aver preso con sé l’olio
santo per essere pronto a qualunque evenienza, fu contento della decisione.
Osserva: «L’aria pura, il cielo limpido di Bardonecchia, ma soprattutto le
attenzioni e l’affetto di cui fu circondata, produssero un vero miracolo. La
grave emiplegia che l’aveva colpita il 23 gennaio, regredì quasi completamente
al punto che, con nostra grande gioia, la vedemmo ricominciare i suoi
passettini. Mai in vita sua la vidi così felice. Era la prima volta che faceva
un’esperienza comunitaria, in una bella famiglia di giovani. I nostri ragazzi
le hanno fatto provare una gioia che non aveva mai gustato». Sembra di
leggere qualcosa dei fioretti salesiani, del rapporto tra Mamma Margherita e
Don Bosco e fra loro i ragazzi, i giovani. Che bella pagina di vita familiare cristiana
e comunitaria, e tutto questo a Bardonecchia. La pagina si conclude con dolore,
però, ma non senza speranza: «Il 12 dicembre è morta santamente. Solo la
fede può colmare il vuoto che mi ha lasciato». Così, come possiamo ben
comprendere oltre al già forte legame pastorale con Bardonecchia si accresce il
legame affettivo per i ricordi familiari.
Vacanze bardonecchiesi: educare i giovani
Don Mario riconosceva che la parte più bella e gratificante del
suo ministero si era svolta in mezzo ai giovani: ventuno anni di scuola
all’Istituto Buzzi di Prato, la scuola in Seminario, assistente diocesano dei
giovani di Azione Cattolica, poi Correttore della Misericordia e responsabile
alla Biblioteca Roncioniana, Parroco della Cattedrale per qualche anno, poi
Canonico Teologo ed Esorcista Diocesano. Insomma i giovani sono stati la parte
eletta del suo Sacerdozio.
Sentendo il desiderio di portare i suoi giovani a godere il
limpido cielo delle Alpi ed il candore delle nevi. Grazie all’amicizia
risalente ai tempi di guerra con i già citati professori Carlo e Céline Massara
riuscì a realizzare la casa che tanto desiderava con una bella Cappella, un
ampio e luminoso refettorio, con cucina e dispensa, i servizi con doccia, la
saletta dei colloqui, le camerette, persino il gioco delle bocce ed una piccola
biblioteca. Si sono avvicendate più generazioni di ragazzi pratesi, conosciuti
a Bardonecchia, anche nei negozi e dalla gente come “i ragazzi di don Mario”,
che facevano di solito i turni di due settimane di vacanze, con molte gite e
sempre con Messa quotidiana, Lodi e Vespri, esame di coscienza e Compieta.
Qualcuno diceva: “Si fa vita da frati”. La giornata era ritmata
con la campanella, quasi un convento. Don Mario raccontava che in oltre
trentatré anni di soggiorni a Bardonecchia aveva imparato a conoscere le
direzioni dei venti, il movimento delle nubi, l’andamento del barometro, perché
era sempre problematico tenere in casa una ventina di ragazzi quando faceva
brutto tempo. Il centro della casa era la Cappella, che don Mario chiamava la
nostra “Porziuncola” sempre riconoscente alla famiglia Gibello che l’aveva
realizzata in memoria della signora Emilia che don Bonacchi aveva assistito
negli ultimi giorni.
Le vacanze invernali avevano uno scenario particolare per la
tanta neve, tanto che per andare dal cancellino sulla strada alla porta
d’ingresso della casa si passava attraverso una trincea scavata nella neve e i
ragazzi andavano mattina e sera sui prati con gli slittini per godere l’ebbrezza
delle veloci discese. E poi la sera dell’ultimo dell’anno venivano tutti in Parrocchia
a dare una mano a monsignor Bellando per cantare il Te Deum di ringraziamento.
Un simpatico aneddoto ci presenta un don Mario un po’ diverso da
quello cui eravamo abituati. Un inverno arrivarono don Mario e un
accompagnatore a Bardonecchia dopo la mezzanotte a causa del ritardo dei treni
e dovevano preparare l’arrivo della comitiva. Trovarono tanta neve e dovettero
faticare e lavorare per poter arrivare alla porta e aprirla. Aprirono l’acqua nell’impianto
di riscaldamento che subito si attivò, ma dopo pochi istanti andò in blocco, andarono
a letto e poco dopo don Mario sentì uno strano rumore che proveniva dalle
tubature dell’acqua e si accorse che si era rotto un flessibile dello
scaldabagno del piano superiore con l’acqua che scorreva giù per le scale
arrivando alla porta d’ingresso. Non volle svegliare l’accompagnatore – Paolo –
che dormiva profondamente e così in pigiama e ciabatte stette a togliere acqua
con straccio e secchiello fino alle due del mattino. Ecco un don Bonacchi del
tutto inedito pur di far sì che all’arrivo dei ragazzi tutto fosse a posto. Ed
il suo commento è spassoso per il realismo e vale un trattato di pastorale: «La
pastorale giovanile comportava anche queste avventure». Una frase celebre e
quasi proverbiale don Mario ripeteva ad amici e conoscenti pratesi e fiorentini:
«Vado a Bardonecchia a fare la cura A.R.A.», con ciò intendeva dire ad
apprezzare l’Aria, il Radicchio selvatico – i girasoli – e l’Acqua. E così con
sano umorismo dava sintetici e apprezzabili riferimenti sul suo essersi fatto
bardonecchiese d’adozione. Era molto simpatico, talvolta, sentirlo ripetere
qualche espressione in buon piemontese, che nella sua bocca toscana suonava
singolare.
Nel Diario del Concilio del Cardinale Felici
Un libro è stato pubblicato di recente dalla Libreria Editrice
Vaticana a cura dell’Arcivescovo Mons. Agostino Marchetto sul Cardinale Pericle
Felici, noto al mondo come il Protodiacono che annunciò dalla Loggia della
Basilica di S. Pietro le elezioni di Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, che
pubblica i suoi Diari in quanto Segretario del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Un’opera di pregevole rilievo storico, molto apprezzata e letta in tutto
l’universo ecclesiastico.
Ciò che colpisce è trovarvi citato don Mario Bonacchi esplicitamente
almeno due volte, altre in modo implicito. Il Cardinale conobbe don Mario al
Seminario Romano quando ne era il Padre Spirituale e si tennero sempre in
contatto, anzi venne a Prato almeno due volte e visitò don Mario. Una bella
fotografia li ritrae a Prato, insieme al Vescovo Diocesano Fiordelli nel 1978. Nel
decimo anniversario della morte di mons. Bonacchi i suoi figli spirituali hanno
avuto la bontà di invitarmi a presiedere la celebrazione della Messa nel Seminario
di Prato. Poco tempo prima, con mio sommo rincrescimento, ho dovuto disdire
l’impegno a causa della concomitante celebrazione del 60º di Ordinazione di don
Paolo Di Pascale a Bardonecchia. Avevo già però preparato queste note, ora
riordinate per la pubblicazione, che concludevo come qui con le citazioni del
libro appena menzionato e che ora riporto quasi a riparare il “torto” fatto a
don Mario, mio malgrado.
Nelle 587 pagine del Diario Conciliare di Mons. Felici, il
lunedì 27 dicembre si legge:
«Sono
a cena presso le Suore Marianiste (Via Pallai, 4 - a Roma) con i giovani
dell’Azione Cattolica di Prato, guidati da don Mario; mi fanno tanta buona
impressione. Dopo la cena tengo una conversazione sul Concilio e rispondo ad
alcune loro domande. La compagnia di quei giovani mi ha richiamato i bei tempi
passati»(2).
All’entrata di “Chez Nous”, tra i giovani: il primo guardando a destra, che si appoggia al muro, è il nipote Stefano Faggi, oggi sacerdote.
All’entrata di “Chez Nous”, tra i giovani: il primo guardando a destra, che si appoggia al muro, è il nipote Stefano Faggi, oggi sacerdote.
Più avanti invece il Cardinale fa il breve resoconto della sua
visita a Prato avvenuta il 5 e 6 febbraio 1966 dove giunge da Roma verso le 19
del sabato sera accolto dal Vescovo, da don Bonacchi e don D’Amia con alcuni
giovani. Dopo cena, nel salone del Vescovado parlò del Concilio davanti ad
un’attenta folla di gente ed il giorno seguente celebra e tiene l’omelia in Seminario
e alle 10,30 celebra il pontificale in onore di S. Caterina de’Ricci per poi
visitare la Villa al Palco e le Spigolatrici che la governano e tornare a Roma
nel tardo pomeriggio. Don Mario lo accompagnava e godeva della sua paterna
amicizia e fiducia. Ne sono testimone perché ho avuto l’occasione di fare al
Cardinale da aiuto cerimoniere nel febbraio 1982, un mese prima della morte,
nella chiesa di S.Apollinare in Roma, di cui era titolare come Cardinale
Diacono, e al solo parlare di don Bonacchi il Cardinale si faceva ancor più
affabile e cordiale. Quest’illustre porporato, considerato anche l’artefice
della Revisione del Codice di Diritto Canonico, aveva una grande stima di don
Mario e l’avrebbe visto e forse voluto in qualche posto di responsabilità nella
Chiesa. Considerava però che il bene fatto e che stava ancora facendo in
particolare nel mondo giovanile non potesse aver pari in nessun altro per
quanto onorifico incarico.
Padre di una corona di sacerdoti fino al nipote don Stefano
Faggi
La paternità spirituale di don Mario che molti di noi hanno
sperimentato (sono parecchi i sacerdoti che devono a lui la loro vocazione o lo
riconoscono come padre) ha avuto ancora un ultimo sbocco, post mortem,
nell’Ordinazione sacerdotale, a Prato, del nipote dottor Stefano Faggi, nel
2015, anche lui medico, figlio di medici: la mamma, Giuseppina, sorella di don Mario,
era medico chirurgo, il padre, cognato di don Mario, un apprezzato pediatra.
2
Vincenzo Carbone, Il diario conciliare
di Monsignor Pericle Felici, Libreria Editrice Vaticana 2015, p. 503.
Don Stefano ha svolto la professione di medico prima a Ferrara poi
a Ravenna, quindi a Careggi ed infine a Prato. La sua vocazione maturava in lui
da anni, proprio grazie a don Mario e riconosce (don Mario ha sempre abitato
con loro fino alla morte) di aver vissuto in una famiglia di “santi”. Anche in
questo Bardonecchia ha un ruolo particolare.
La sera del giovedì 27 luglio 1989 don Mario era appena
rientrato dalla chiesa di S. Ippolito a Bardonecchia dove teneva ritiri
spirituali per il popolo, in casa “Chez Nous” di via Genova, quando fu avvisato
di chiamare urgentemente la famiglia a Prato. Non avendo il telefono in casa,
don Mario andò quando era ormai quasi buio, con il cuore in gola, presso la più
vicina cabina telefonica in fondo a via Callet, all’incrocio con via Medail,
per telefonare ai suoi e apprendere che il nipote medico da una ventina di
giorni era in pericolo di vita per un embolo che gli aveva occluso l’arteria
polmonare. Non avevano avvisato don Mario per non affliggerlo, ma lui si rese
conto perfettamente del dramma che si profilava. Decisero che sarebbe rientrato
a Prato da dove sarebbe venuto don Daniele Scaccini a prenderlo in macchina. La
notte non chiuse occhio ma volle mantenere lo stesso l’impegno dell’ultima
meditazione in Parrocchia. Mons. Bellando, che già aveva saputo la triste
notizia, si meravigliò che mons. Bonacchi avesse tenuto fede all’impegno.
Quando don Bonacchi disse che doveva partire presto si sentì
rispondere, come racconta lui stesso: «dal Parroco mons. Bellando, con una
prontezza e una sicurezza che mi stupirono, mi disse subito che io non sarei
affatto partito, perché, aggiunse, non ce ne sarebbe stato bisogno, dal momento
che non c’era nessun pericolo e tutto sarebbe andato bene. Io gli feci
osservare che ormai i miei familiari e i miei amici avevano già tutto disposto
per il mio sollecito rientro. In quel momento non mi resi conto che il Signore
mi mandava un messaggio di conforto e di speranza con le parole amiche di quel
buon sacerdote»3. Infatti, fu chiesto a don Mario di restare a
Bardonecchia, in attesa dell’intervento, e fu un mese di agonia, tra speranze, tante
e continue preghiere, lacrime di don Mario e degli amici e dei giovani e
finalmente, alla fine tutto si risolse “miracolosamente” bene e don Mario, che
non amava i viaggi né i pellegrinaggi, andò a Paray le Monial con don Serafino
e Gian Carlo Castagno per ringraziare il Sacro Cuore e vi tornò tre volte, una
proprio con Stefano, in ringraziamento. Le parole di mons. Bellando furono
profetiche, ancora una volta.
Ai sacerdoti, soprattutto ai suoi, don Mario chiedeva impegno,
studio, sacrificio e coerenza e desiderava anche che testimoniassero con il
portamento esteriore e l’abito talare la loro appartenenza a Cristo. Già solo
per questo merita non solo di essere ricordato, ma seguito e non solo da quei
figli spirituali che ha generato. A Bardonecchia mons. Bonacchi trova di sicuro
ancora oggi il suo posto onorevole, nel cuore di tante persone che ancora gli
vogliono bene.
Monsignor Claudio Iovine
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3
Mons. Mario Bonacchi, Paternità
spirituale, Edizioni Libreria Cattolica, 2007.
VIA CRUCIS 2016
Ho avuto il piacere di
essere invitato ad unirmi al Gruppo Alpini di Bardonecchia per partecipare alla
Via Crucis del Venerdì Santo che si snoda dalla Parrocchia, lungo Via Medail, fino
alla chiesetta di Maria Ausiliatrice, ed eventualmente aiutare per il trasporto
della statua del Cristo deposto dalla Croce.
Lasciato il piazzale della Parrocchia la processione si è avviata, con la statua, portata a spalle da quattro alpini. (foto A. Bosco)
Lasciato il piazzale della Parrocchia la processione si è avviata, con la statua, portata a spalle da quattro alpini. (foto A. Bosco)
Lasciato il piazzale
della Parrocchia la processione si è avviata, con la statua, portata a spalle
da quattro alpini. La “camminata” degli alpini è particolare; per andare al
passo non è necessario guardare i piedi, bensì l’oscillazione delle penne. Anche
durante i nostri raduni, dopo i primi passi un po’ alla belle e meglio, le
penne iniziano ad oscillare all’unisono. Per portare la statua, bisogna
iniziare subito al passo, e il vedere, nella semioscurità, quelle penne oscillare
ritmicamente, a marcare il passo cadenzato, mi ha fatto pensare a quelle foto e
a quei filmati delle guerre, in cui si vedono barelle cariche di poveri corpi
trasportati a spalle da poveri soldati, appena di poco più sani dei
trasportati. Quindi non portavamo più una statua, bensì una barella con un
povero Caduto e quel Caduto rappresenta tutti i nostri dolori, le nostre cadute,
tutte le sconfitte e le speranze non realizzate. Su quella barella ho sentito
di portare tutto il dispiacere di una recente perdita, la nostalgia dei parenti
e degli amici che non ci sono più e tutte le insicurezze del tempo presente. Ma
poi quel Caduto lo abbiamo deposto in chiesa e lo abbiamo lasciato, sapendo che
il Sacrario lo avrebbe ospitato per poco, a differenza di tutti gli altri
questo Caduto risorge, ed allora tutto il dolore che avevamo caricato sulla Sua
barella viene alleggerito dalla consapevolezza che anche il nostro tempo nel Sacrario
non è per sempre e che anche noi ci rialzeremo dalle nostre barelle, per
riabbracciare tutte le persone amate ed amiche.
Un villeggiante di
Bardonecchia - M.G. -
DISPOSIZIONI PER
LE SEPOLTURE
Vengono trasmesse le disposizioni date dalla Congregazione per
la Dottrina della Fede, circa la sepoltura dei fedeli e la conservazione delle
ceneri in caso di cremazione.
1. Per risuscitare con Cristo, bisogna morire con Cristo,
bisogna «andare in esilio da questo corpo e abitare presso il Signore» (2Cor
5,8). Con l’istruzione “Piam et constantem” del 5 luglio 1963, l’allora
Sant’Uffizio ha stabilito che «sia fedelmente mantenuta la consuetudine di
seppellire i corpi dei fedeli defunti», aggiungendo però che la cremazione
non è «di per sé contraria alla religione cristiana» e che non siano più negati
i Sacramenti e le esequie a coloro che abbiano chiesto di farsi cremare, a
condizione che tale scelta non sia voluta «come negazione dei dogmi cristiani,
o con animo settario, o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa».
(...) Nel frattempo la prassi della cremazione si è notevolmente diffusa e nel
contempo si sono diffuse anche nuove idee in contrasto con tale fede della
Chiesa. Pertanto la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto
opportuno la pubblicazione di una nuova Istruzione, allo scopo di ribadire le
ragioni dottrinale per la preferenza della sepoltura dei corpi e di emanare
norme per quanto riguarda la conservazione delle ceneri nel caso della cremazione.
2. La risurrezione di Gesù è la verità culminante della fede
cristiana, predicata come parte essenziale del Mistero Pasquale fin dalle
origini del cristianesimo: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto,
cioè come Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed
è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e
quindi ai Dodici » (1Cor 15,3-5). ( ... ) Grazie a Cristo la morte cristiana ha
un suo significato positivo. La liturgia della Chiesa prega: «Ai tuoi fedeli,
Signore, la vita non è tolta ma trasformata...». Con la morte, l’anima viene
separata dal corpo, ma nella risurrezione Dio tornerà a dare la vita
incorruttibile al nostro corpo trasformato, riunendolo alla nostra anima.
3. Seguendo l’antichissima tradizione cristiana, la Chiesa
raccomanda insistentemente che i corpi dei defunti vengano seppelliti nel
cimitero o in altri luoghi sacri. (...) Seppellendo i corpi dei defunti, la
Chiesa conferma la fede nella risurrezione della carne. Non può permettere,
quindi, atteggiamenti e riti che coinvolgono concezioni errate della morte,
ritenuta sia come annullamento definitivo della persona, sia come il momento
della sua fusione con la Madre natura o con l’universo, sia come una tappa nel
processo della re-incarnazione, sia come la liberazione definitiva della
“prigione” del corpo. Inoltre la sepoltura nei cimiteri o in altri luoghi sacri
risponde adeguatamente alla pietà e al rispetto dovuti ai corpi dei fedeli
defunti, che mediante il Battesimo sono diventati tempio dello Spirito Santo.
Mediante la sepoltura dei corpi nei cimiteri, nelle chiese o nelle aree ad esse
adibite, la tradizione cristiana ha custodito la comunione tra i vivi e i
defunti e si è opposta alla tendenza a occultare o privatizzare l’evento della
morte e il significato che esso ha per i cristiani.
4. Laddove varie ragioni portino a scegliere la cremazione,
scelta che non deve essere contraria alla volontà esplicita o presunta del
fedele defunto, la Chiesa non scorge ragioni dottrinali per impedire tale
prassi, poiché la cremazione del corpo non tocca l’anima e non impedisce all’onnipotenza
divina di risuscitare il corpo e quindi non contiene l’oggettiva negazione della
dottrina cristiana sull’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi.
La Chiesa continua a preferire la sepoltura dei corpi poiché con
essa si mostra una maggiore stima verso i defunti,
tuttavia la cremazione non è vietata, «a meno che questa non sia stata scelta
per ragioni contrarie alla dottrina cristiana». In assenza di motivazioni contrarie
alla dottrina cristiana, la Chiesa, dopo la celebrazione delle esequie,
accompagna la scelta della cremazione con apposite preghiere liturgiche.
5. Qualora per motivazioni legittime venga fatta la scelta della
cremazione, le ceneri del defunto devono essere conservate di regola in un
luogo sacro, cioè nel cimitero o, se è il caso, in una chiesa o in un’area
appositamente dedicata a tale scopo dalla competente autorità ecclesiastica.
(...) La conservazione delle ceneri in un luogo sacro può contribuire a ridurre
il rischio di sottrarre i defunti alla preghiera e al ricordo dei parenti e
della comunità cristiana. In tal modo, inoltre, si evita la possibilità di
dimenticanze e mancanze di rispetto che possono avvenire soprattutto una volta
passata la prima generazione, nonché
pratiche sconvenienti o superstiziose.
6. Per i motivi sopra indicati, la conservazione delle ceneri
nell’abitazione domestica non è consentita.
7. Per evitare ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o
nichilista, non sia permessa la dispersione delle ceneri nell’aria, in terra
o in acqua o in altro modo, oppure la conversione delle ceneri in ricordi
commemorativi, in pezzi di gioielleria o in altri oggetti tenendo presente
che per tali modi di procedere non possono essere addotte ragioni igieniche, sociali
o economiche che possono motivare la scelta della cremazione.
8. Nel caso che il defunto avesse notoriamente disposto la
cremazione e la dispersione in natura delle proprie ceneri per ragioni
contrarie alla fede cristiana, SI DEVONO NEGARE LE ESEQUIE, a norma del
diritto.
Il Sommo Pontefice Francesco ha approvato la presente
Istruzione, e ne ha ordinato la pubblicazione. Roma, 15 agosto 2016
Gerhard Card. Muller, Prefetto
_ Luìs F. Ladaria, S.I., Segretario
_________________________________________________________________________________
«Non esiste nessuna scoperta scientifica che possa essere usata
al fine di mettere in dubbio o di negare l’esistenza di Dio. Ci sono cose che
la scienza (ancora) non può spiegare... Quale può essere la spiegazione? ...
Dio!».
(prof.Antonio Zichichi)
EMILIO GIACCONE,
UN VALSUSINO CHE
AIUTÒ I GIOVANI A CRESCERE
Nato l’8 luglio del 1902 a Vaie (TO), da Silvino e Agostina
Girardi, una famiglia di agricoltori.
Il padre fu richiamato alle armi durante la guerra del 1915-18;
toccò a lui sostituirlo nei lavori agricoli, poiché maggiore dei due fratelli.
Tornato il padre, nel maggio del 1919 entra alle Officine Moncenisio di Condove
come falegname e vi lavora fino al maggio del 1921.
Il servizio militare lo svolse a Susa tra la fine del 1922 e
l’inizio del 1924 nel corpo degli Alpini e fu congedato col grado di sergente
maggiore. Dopo la ferma, riprende l’attività di falegname nella casa natale.
Abbinata a questi eventi di vita tradizionale, si svolge
l’attività di credente. Nel 1922 indice un convegno di tutti i Circoli diA.C.
giovanile della Bassa Valle di Susa, in occasione dell’inaugurazione della
bandiera bianca del Circolo Cattolico Pierino Del Piano di Vayes, già attivo da
alcuni anni, di cui è presidente e fondatore. È iscritto all’associazione dal
1920, e fa parte del Direttivo diocesano.
Sappiamo come fosse un buon organizzatore, soprattutto dotato di
una forte personalità e spiccata intelligenza, Si nota come la sua tenacia e la
fiducia nell’aiuto di Cristo non si arrendono, non rinuncia a sperare e a far
sperare, non cede alla tentazione di fermarsi davanti agli ostacoli del
momento, perché mosso da un’instancabile voglia di costruire e condividere con gli
altri il senso della vita e la disponibilità alla volontà di Dio.
Data l’epoca carica d’incertezza politica con tensioni e paure,
da quanto risulta, anche lui era piuttosto vigile poiché temeva qualche
scelleratezza da parte di facinorosi contro la sua persona, a cagione della
testimonianza e delle idee che professava e trasmetteva. Durante il servizio militare
frequenta il Circolo Giovanile “Mario Chiri” di Susa, ove incontra il Padre
Pietro Briozzo, rettore dei francescani. Da questi dialoghi nasce la sua
chiamata a farsi frate. Di conseguenza a questa scelta, nacquero e fiorirono
amicizie destinate a lasciare il segno incancellabile nel futuro. Un progetto
di vita al quale, però, rinunciò.
A Torino incontra Zaccaria Negroni, un amico che in seguito
alcuni definiscono “quasi il suo gemello”, che studia al Politecnico della
città con Pier Giorgio Frassati, entrambi impegnati nel Circolo universitario
di Torino della F.U.C.I., “Il Cesare Balbo”, in quello dedicato a Guido Negri
(il Capitano Santo) dell’Azione Cattolica e nella Conferenza di “San Vincenzo”
e frequentano la chiesa di Santa Maria di Piazza dei Padri Sacramentini.
Militavano tutti nella Gioventù Cattolica, e si proponevano di recare
nell’organizzazione giovanile un soffio di profonda spiritualità, vissuta
nell’intimità con Gesù alimentata dalla preghiera e dall’Eucaristia, nel
silenzio e nel nascondimento “con Cristo in Dio”. Nello spirito di fraterna
amicizia, si sostenevano a vicenda per realizzare i loro ideali di apostolato.
In quest’ambiente sociale, culturale e politico di quel tempo, si forma un
gruppo di giovani santi, pienamente radicati in Gesù: Pier Giorgio Frassati,
Emilio Giaccone, Clemente Ferraris, Luigi Gedda, Filiberto Guala e Zaccaria Negroni;
una virtù vissuta nella quotidianità dell’ambiente. Con quest’ultimo, Emilio
cominciò a tracciare i connotati di un’associazione di laici.
Il Negroni, dopo la laurea in Ingegneria Elettrotecnica, torna a
casa a Marino (23 km. da Roma) e si dedica completamente allo sviluppo dei
Circoli di A.C. sotto la guida dell’Abate Guglielmo Grassi, allora Parroco
diMarino e poi Vescovo; per ambedue, dichiarati Venerabili, è in corso la Causa
di Beatificazione.
Incontro con Papa Pio XII; alla sua sinistra Emilio Giaccone e il consigliere ecclesiastico mons. Bovone. |
Dopo quell’incontro, sul finire del 1925, nasce l’associazione
religiosa e laicale dei “Discepoli di Gesù”. Costoro furono i precursori degli
Istituti Secolari anticipando i tempi, successivamente maturati con il Concilio
Vaticano II, dato che, all’epoca, la vita religiosa era generalmente concepita
solo al riparo di monasteri e fuori della vita sociale. Un’Associazione di
Laici basata sullo spirito del Terz’Ordine Francescano: castità, povertà e
obbedienza, che s’ispira al Vangelo, in particolare al capitolo decimo di San
Luca e di cui una delle regole basilari era: «Provvederanno al proprio
sostentamento materiale col lavoro sia come professionisti che artigiani, o
semplici manuali. Potranno prestare la loro opera sia all’interno che fuori dell’Istituto,
anche in pubblici impieghi e aziende private ...».
Gli inizi della nuova comunità furono duri. I tre giovani si
trovarono alle prese con grosse difficoltà materiali, con pregiudizi e
incomprensioni di fronte alle quali chiunque senza la loro formazione
spirituale si sarebbe arreso, e non avevano mezzi, una sede, una casa. Dopo
essersi dedicati ai lavori più umili, venne l’ispirazione di aprire una piccola
tipografia nei locali posti sotto la basilica a costo di duri sacrifici e
intenso lavoro, che costituì una modesta fonte di guadagno, ma non per le loro
frugalissime esigenze, quanto basta per dare il primo soffio vitale alla nuova
Congregazione. Intanto Emilio, che operava come impressore nella stamperia, in
quel tempo lavoro molto faticoso, finì i suoi studi con la laurea in
matematica.
L’opera svolta in questa stamperia nel 1931, in seguito
all’estensione dell’azione dittatoriale, fu sospettata d’ingerenza politica
educativa e sindacale. Era fortemente sospettata perché vi si stampavano varie
pubblicazioni dell’A.C., e soggetta a continue ispezioni. L’attività clandestina
non si limitò a sostenere la libertà delle idee, ma accorse in aiuto ai più
deboli: aiutare i giovani renitenti al reclutamento, gli ex prigionieri
alleati, consentire a intere famiglie di ebrei e a vari esponenti della
Resistenza di fuggire alla cattura da parte della polizia nazifascista.
Giaccone cominciò a insegnare nella scuola come professore di
matematica prima nel Seminario di Campobasso fino all’anno scolastico 1927-28
e, dal successivo 1928-29, in quello di Rieti. Qui si trovò coinvolto al fianco
del Vescovo Massimo Rinaldi, oggi Venerabile, negli avvenimenti che culminarono
con lo scioglimento della “Società della Gioventù Cattolica Italiana” del 29
maggio del 1931.
Nel frattempo, fece amicizie importanti a Roma come il
Presidente Generale di A.C. Angelo Raffaele Jervolino e Luigi Gedda. Costoro,
su invito dell’Assistente Ecclesiastico S.E. Mons. Domenico Tardini, a soli
ventinove anni, gli affidarono la tesoreria della Gioventù, nel Consiglio
Nazionale dell’A.C. appena costituita al 2 settembre 1931, e poi, dal 1947, di
tutta l’Azione Cattolica Italiana per cui si trasferì nella Capitale, a Casa
Assistenti. Qui si trovò, di nuovo, a fianco di Negroni, al quale era stato
affidato, dal 1929, l’incarico di costituire in ogni associazione .C. gli
“Aspiranti”.
Anche in questo caso si trovarono uniti a soddisfare la loro passione:
“Aiutare i Giovani” a crescere. Crearono per loro il giornalino “l’Aspirante”,
fondarono “il Vittorioso” e stabilirono “la Regola dell’Aspirante” che ogni
ragazzo doveva vivere quotidianamente. Divenne amministratore dell’Editrice
“AVE” (sigla in onore della Madonna), fondata da loro due nel 1928, e dei vari
periodici dell’A.C., del Centro Cattolico Cinematografico dell’Ente dello Spettacolo;
amministratore unico del giornale cattolico di Roma “Il Quotidiano”, della
Società Messaggerie Cattoliche “SEMCI”.
Professione e vestizione Suore Alcantarine - Roma Istituto S. Giuseppe, 1960. |
Dopo tante esperienze, era ormai maturo per più vasti e
impegnativi compiti, ma non volle mai entrare in politica, malgrado le sollecitazioni.
Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, fu chiamato dall’allora Ministro
Giovanni Gronchi alla carica di Commissario Governativo dell’Ente per l’Assistenza
agli Orfani dei Lavoratori Infortunati (EAOLI), ed in seguito gli fu affidato
l’Ente Nazionale per la Protezione Morale del Fanciullo (ENPMF). Accettò
l’incarico a titolo completamente gratuito in considerazione delle finalità dei
due Enti. Nel 1948 il Ministro Amintore Fanfani ne promosse la trasformazione
in un ente con competenze ben più vaste: “L’ENAOLI” (Ente Nazionale per
l’Assistenza degli Orfani dei Lavoratori Italiani), che in breve si affermò
come l’organizzazione pilota di concezioni ed attività di avanguardia nel mondo
vastissimo dell’assistenza all’infanzia e alla gioventù. Emilio Giaccone ne fu
nominato Presidente.
Questa sua carica si protrasse oltre i venticinque anni. Il lungo periodo in cui egli ha pilotato questa importante istituzione è stato quanto mai ricco d’indicazioni, di esperienze, d’iniziative destinate ad incidere profondamente sui criteri ispiratori e sulle formule concrete, superando le istituzioni tradizionali che mostra- Professione e vestizione Suore Alcantarine - Roma Istituto S. Giuseppe, 1960. vano la loro inadeguatezza, non solo di mezzi, ma prima di tutto d’idee, di formule, di strumenti, di personale. Si dedicò a risollevare queste istituzioni ricorrendo alle migliori energie e sicure competenze, provvedendo alla formazione di qualificati quadri di operatori ed educatori.Ancora una volta aveva l’occasione di aiutare ragazzi e bambini in difficoltà e donare tutte le sue risorse materiali, spirituali e affettive.
Momento di preghiera con le Enaoline all’Istituto Salesiano Sacro Cuore a Trino Vercellese - novembre 1968.
Questa sua carica si protrasse oltre i venticinque anni. Il lungo periodo in cui egli ha pilotato questa importante istituzione è stato quanto mai ricco d’indicazioni, di esperienze, d’iniziative destinate ad incidere profondamente sui criteri ispiratori e sulle formule concrete, superando le istituzioni tradizionali che mostra- Professione e vestizione Suore Alcantarine - Roma Istituto S. Giuseppe, 1960. vano la loro inadeguatezza, non solo di mezzi, ma prima di tutto d’idee, di formule, di strumenti, di personale. Si dedicò a risollevare queste istituzioni ricorrendo alle migliori energie e sicure competenze, provvedendo alla formazione di qualificati quadri di operatori ed educatori.Ancora una volta aveva l’occasione di aiutare ragazzi e bambini in difficoltà e donare tutte le sue risorse materiali, spirituali e affettive.
Inaugurazione nuova macchina da stampa al Buon fanciullo - Primavalle - Roma. |
Lui che per servire la Chiesa, come laico consacrato, aveva
rinunciato a formarsi una famiglia, si ritrovò migliaia di figli adottivi che affettuosamente
lo chiamavano: Papà Giaccone. Negli anni ’60 del 1900 vi erano oltre 450
mila minori sostenuti dall’Ente e circa 120 mila le famiglie di appartenenza;
venticinquemila ragazzi e giovani erano direttamente assistiti nei collegi, gli
altri vivevano in famiglia con il supporto del servizio sociale professionale e
il sostegno economico dell’ENAOLI. Nell’ambito di questa funzione “inventò” negli
anni ’60 i “Giochi di primavera” – la cui prima edizione si svolse nel 1963 –,
che poi divennero i “Giochi della Gioventù”.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri promosse un incontro straordinario
di quanti si occupavano dei giovani e dei loro bisogni. Fu così bandita, nel 1951,
la “Conferenza nazionale sui problemi dell’assistenza pubblica all’infanzia
e all’adolescenza”; si fece perno proprio sulla persona di Emilio Giaccone,
che ebbe l’incarico “ufficiale” dell’organizzazione della conferenza per la sua
posizione e competenza alla promozione morale e sociale della gioventù.
Attraverso le conclusioni si poterono affermare concetti quasi
sconosciuti per certe strutture dell’amministrazione assistenziale. È ancora
difficile valutare gli effetti della conferenza per quello che riuscì a
smuovere nel grande e complesso mondo dell’assistenza minorile. Con tali
istituzioni il prof. Giaccone si era personalmente votato ad un ideale e ad un
preciso programma di apostolato cattolico finalizzato al miglioramento delle
attività e delle istituzioni assistenziali educative, come le “Scuole di
Servizio Sociale” e la “Scuola per Religiose Educatrici” organizzata dalla
FIRAS.
Accettò nel 1967 la carica onorifica e la presidenza della
“Fondazione Livio Tempesta per il premio della Bontà”, posta sotto l’alto
patronato del Presidente della Repubblica, poi “Centro per l’Apostolato della
Bontà nella Scuola” (CABS).
In vista del termine del suo mandato nell’ENAOLI, avvenuto nel
gennaio del 1972, assunse la Presidenza del “Centro Nazionale Economi di
Comunità” (CNEC), un’organizzazione che realizza importanti servizi di
consulenza e promozione circa le necessità dei cittadini e della società:
collegi, ospedali, scuole, pensionati, colonie estive, studentati, ecc. Si può
dunque affermare che se i problemi dell’assistenza dell’infanzia e dei servizi
sociali in genere sono stati, a partire da quegli anni, sentiti ed affrontati
con nuovo impegno e nuova sensibilità, e se per la loro soluzione si sono
individuate formule più funzionali e più rispondenti alle esigenze di oggi e
alle prospettive per il domani, molto si deve a quanto è stato sentito e
realizzato da Emilio Giaccone.
Estate 1971 a Cesana Torinese con le Suore Francescane
Missionarie di Susa, fondate da Mons. Rosaz.
Quando lasciò l’ENAOLI, dopo quasi trent’anni di presidenza in
Amministrazioni pubbliche, si era serenamente ritrovato al punto di partenza,
senza un soldo di liquidazione e senza un minimo di pensione preoccupandosi
sempre degli altri, mai di sé. Era solito intervenire usando i suoi pur modesti
mezzi personali per soccorrere tanti che a lui si rivolgevano, e che non
avrebbe potuto sovvenire con i fondi degli organismi di cui era a capo. La
retribuzione, tolte le spese per lo stretto necessario al vivere quotidiano,
era donata ai poveri, mantenere nello studio i ragazzi meno abbienti. Affinché
potesse ovviare alle gravi difficoltà finanziarie, che sicuramente avrebbe incontrato
nel corso degli anni dopo il pensionamento dall’Ente, il suo successore, il
dott. Tavazza, lo nominò consulente in alcune commissioni così da poter
percepire un gettone di presenza e ovviare, in parte, ai disagi causati dalla
mancanza di mezzi economici.
Durante le ferie estive nel suo paese natale lasciò la vita
terrena: era il 1º agosto del 1972.
Nella lettera di Luciano Tavazza, indirizzata ai lavoratori
dell’Ente in memoria di Emilio Giaccone, sono scolpiti al vivo gli aspetti
della sua originale coerenza. Ne riportiamo i tratti salienti di alcune note
biografiche. «Mi sembra che il nostro Presidente, abbia soprattutto
testimoniato: Che si può essere onesti sino alla povertà, pur rimanendo
per oltre un quarto di secolo in alte responsabilità amministrative, pubbliche
e private. Che si può rifiutare la strumentalizzazione da qualsiasi
parte venga».
L’onorevole Giulio Andreotti in un discorso inerente alla
commemorazione dell’amico Zaccaria Negroni, così ricorda: «... quando ho
avuto modo, dopo un certo numero di anni, di conoscere le persone, come
Zaccaria Negroni, come Emilio Giaccone, come altri che in quel momento
lavoravano nelle diverse parti di settore della Gioventù Italiana di Azione
Cattolica, ho potuto vedere che ricchezza spirituale, interiore fosse in loro,
e muovesse quella che a noi sembrava soltanto un’azione esteriore,
un’attivazione ...».
Carlo Carretto dall’eremo di Beni-Abbés (Saoura), saputo della
morte di Emilio, scrive: «Carissimo Zaccaria, ho ricevuto qui il tuo invito.
Peccato. Sarei venuto tanto volentieri. Ricordo ogni giorno nella preghiera
l’indimenticabile Emilio. Ha raccolto l’amore profuso con tanta tenacia in
tutta la vita. Era un Santo. Non è mai venuto meno alla sua fedeltà a Dio. Ora è
Lui che aiuterà quelle opere e quegli ideali che l’hanno impegnato quaggiù».
Un esempio della piena fiducia nella Provvidenza è ricordato da
un suo collaboratore, il direttore del Collegio Roosevelt di Palermo.
L’istituto era posto a poche decine di metri dal mare e ospitava 250 ragazzi.
Ora gli assistiti, durante la settimana frequentavano la scuola ed erano quindi
impegnati nello studio e, soprattutto, seguiti dal personale. Le difficoltà, o
meglio i timori, si presentavano nei giorni festivi quando il personale era in
riposo lavorativo e il compito di sorveglianza era svolto dal direttore e dal
suo vice dell’istituto. Data la posizione nei pressi del mare, i ragazzi,
approfittando delle ore di libertà, si tuffavano in mare creando una situazione
difficile da sostenere per i poveri responsabili, per cui le festività erano
vissute con patema d’animo. In una giornata di queste, nel giugno 1963, si
presentò Papà Giaccone a fare loro visita e a intrattenersi con i ragazzi. Fu
così l’occasione nel fargli costatare la situazione asserendo che, nel qual
caso fosse successo qualche incidente, si sarebbe incorsi in una denuncia alla
magistratura e guai con la giustizia. Sereno e per nulla turbato della
situazione, anzi stupito di una simile preoccupazione dei collaboratori, gli
rispose che non dovevano angustiarsi poiché aveva affidato gli orfani a San
Giuseppe e quindi era lui a proteggerli. Tale fiducia
era riposta, come menziona sovente, nelle sue preghiere alla
“Lega Celeste” composta, oltre a San Giuseppe, dalla Madonna, da molti altri
Santi e dai genitori degli orfani defunti. Al termine di questo racconto
domandai se ricordasse vi fossero stati incidenti o infortuni seri ai ragazzi.
Dopo una breve riflessione disse che, in realtà, tolta qualche sbucciatura alla
pelle, agli assistiti non era mai successo nulla di grave, anche se la loro
frenesia giovanile li portava a volte a comportarsi in condizioni di pericolo.
Non concepiva il lavoro degli operatori, come del resto il suo,
se non come una missione, tant’è che costoro si lamentarono per l’impegno
costante e prolungato nei collegi, con un solo giorno di riposo settimanale: in
sostanza si trovavano in servizio giorno e notte; ma non solo, soprattutto si
sentivano responsabili dell’incolumità dei ragazzi. L’occasione di prospettargli
il problema avvenne nel Capodanno del ’64, durante lo scambio degli auguri con
i direttori dell’Ente.
Uno di costoro, a nome di tutti, espresse le forti
preoccupazioni, in particolar modo sull’incolumità degli alunni. Il Professore
condivise le apprensioni e incoraggiò i direttori dei collegi confessando che
aveva già provveduto «... ad affidare a San Giuseppe la protezione degli
orfani ». I presenti restarono sconcertati, ma anche edificati, per la
semplicità d’animo; ma chi lo conosceva bene, non si meravigliò per questa sua
sorta d’ingenuità, o meglio di fede riposta, e nessuno se ne sorprese,
lasciando i responsabili ammutoliti. Quest’atteggiamento lo si può percepire nell’esaminare
le sue meditazioni: come S. Giuseppe era padre putativo verso Gesù, lui lo era
verso gli orfani e, di lì, la piena fiducia patrocinata con la richiesta di
aiuto e sostegno.
La richiesta per l’avvio della Causa alla Beatificazione, voluta
dall’A.C. Diocesana, e incoraggiata dal Vescovo Mons. Alfonso Badini
Confalonieri, è iniziata con la consegna il 20 dicembre 2013 dell’atto
costitutivo quale “Attore promotore della causa, l’A.C. della Diocesi di Susa”
e con l’invio del Supplex libellus Postulatoris del 15 gennaio 2015 al
Vescovo da parte del Postulatore can. Grietti don Giorgio della Diocesi di
Pinerolo. È stata costituita la Commissione Storica e da qualche tempo si
stanno raccogliendo le testimonianze e la molteplice documentazione su tutto il
territorio nazionale.
Adriano Tonda
BARDONECCHIA NEL CASSETTO
Al Monserrat il 2 luglio 1948. Da sinistra: Luigina Gerard tenuta in braccio da Quintino Favario - Gabriella Folcat - Gino Guiffrey - Francesco Bompard con la fisarmonica - Rosina Cantone - Elio Francou - Cesare Gerard - Sergio Francou - Giuseppe Gerard con Livio. (Collezione: Livio Gerard)
IL COLLE DELLA
SCALA DI ANGELO DEJOMA.
IL RICORDO DELLA
FIGLIA A 50 ANNI
DALL’INAUGURAZIONE
Sono passati 50
anni dall’inaugurazione della strada del Colle della Scala, ai lavori
partecipò, insieme ad altri, il geometra Dejoma. Nel racconto della figlia di
quest’ultimo c’è un pezzo di storia di Bardonecchia, eccola:
Non so se sia mai
capitato a qualcuno di voi di percorrere una strada e domandarsi chi l’avesse
tracciata. Credo che alla maggior parte delle persone ciò non accada, ma non a
me, sicuramente perché mio padre faceva anche quello di lavoro. Proprio una
strada che molti Valsusini percorrono durante la stagione estiva, il 22 ottobre
di quest’anno ha compiuto cinquant’anni dalla data d’inaugurazione, avvenuta
appunto il 22 ottobre 1966: a tracciarla è stato mio padre, il geometra Angelo
Dejoma.
L’opera è stata
fortemente voluta dal Cav. Amprimo, il quale decise un giorno della primavera del
1964 di rivolgersi a mia nonna materna, conosciuta da tutti in Bardonecchia
come “madama” Tarroboiro, affinché potesse metterlo in contatto con suo genero,
mio padre appunto, perché voleva parlargli del progetto che aveva in mente.
Quando s’incontrarono, mio padre accettò subito di poter prestare la sua
professionalità gratuitamente per realizzare la strada e parlò con il geometra
Guerrini che, insieme al fratello, era a capo di un’importante impresa edile
torinese in cui mio padre lavorava, perché potessero mettere a disposizione i
macchinari e gli uomini necessari per la realizzazione della stessa. In
quell’anno partirono così i lavori, anche se il tempo a disposizione non fu
molto a causa di un inverno precoce e molto nevoso.
I lavori progredirono
moltissimo nel 1965 e nel 1966 si riuscì a terminare l’opera per fine ottobre per
l’inaugurazione, anche se poi la vera percorribilità fu resa possibile solo nel
1967.
Spesso e volentieri mio
padre raccontava degli aneddoti sulla realizzazione dell’opera che presentò non
poche difficoltà soprattutto per rispettare la pendenza prestabilita. Chi ha
avuto la fortuna di conoscerlo sa quanto gli piacesse il suo lavoro per cui,
con la sua solita scusa che ha sempre adottato, cioè di proporre a sua moglie
ed ai suoi figli di fare una passeggiata o una gita, caricava mia madre, mia
nonna ed i miei fratelli (io non ero ancora nata) in auto per fare una
scampagnata in Valle Stretta. Una volta arrivati a destinazione, li lasciava
per raggiungere il cantiere e procedere alla realizzazione dello stesso.
Da sin.: Costa, Munari, Dejoma, Messina, Guerrini, Amprimo, Oddone, Bevilacqua, Oddone (figlio).
Tutti i fine settimana e le vacanze estive furono dedicati al Colle della Scala. Ciò che raccontava più spesso di quel periodo divertiva molto noi figli. Narrava, ad esempio, che quando faceva vedere al sig. Giobellina dove posizionare la dinamite per far saltare la roccia e proseguire con la costruzione della strada, l’artificiere, conoscendo la poca dimestichezza di mio padre con la montagna (mio padre proveniva da Riomaggiore, una delle meravigliose Cinque Terre), aspettava sì che fosse in sicurezza, ma che non fosse ancora del tutto sceso, per far saltare la miccia e divertirsi un mondo nel vederlo attaccato alle rocce ed assolutamente non in grado di scendere da solo, per cui più di una volta si è reso necessario chiamare l’intervento delle guide alpine per poterlo riaccompagnare a valle.
Da sin.: Angelo Dejoma, il Cav. Amprimo e Alberto Guerrini. |
All’inaugurazione, la
cosa buffa è che sia mio padre sia Guerrini furono invitati dalle autorità
francesi e non da quelle italiane ed una delle situazioni che più mi irritava
era quando, ragazzina, passeggiando per la Valle Stretta con lui, ci capitava a
volte di incontrare persone del posto che, salutandoci, lo apostrofavano come
“quello che aveva rovinato la montagna”. Ogni volta la sua reazione era la
stessa: si faceva una risata e li salutava cordialmente e vedendo il mio viso
imbronciato mi ripeteva che non poteva prendersela per una cosa non vera. Ma
questo era mio padre, un uomo che nella sua vita ha sempre evitato i
riflettori, lavorando a testa bassa, con impegno, onestà e professionalità, non
risparmiandosi mai e soprattutto nel rispetto degli altri, aiutando sempre chi
ne avesse bisogno senza mai pretendere nulla. Sono questi i valori con cui ha
cresciuto i suoi tre figli e che cerco di trasmettere anche a mia figlia. Non
sempre sono apprezzati ed è proprio per questo motivo che, a distanza di
cinquant’anni, vorrei che almeno per una volta gli si rendesse merito e si parlasse
di lui come merita. Purtroppo lui non c’è più, ci ha lasciati dodici anni fa,
ma son sicura che dal piccolo cimitero di Bardonecchia, rivolgendo lo sguardo
al Colle della Scala, penserà: “... non era proprio il caso...”.
Sabrina, una
figlia devota
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L’uomo è
irragionevole, illogico, egocentrico.
NON IMPORTA, AMALO!
Se fai il bene ti
attribuiscono secondi fini egoistici.
NON IMPORTA, FA’ IL
BENE!
Se realizzi i tuoi
obbiettivi trovi falsi amici e veri nemici.
NON IMPORTA,
REALIZZALI!
Il bene che fai verrà
domani dimenticato.
NON IMPORTA, FA’ IL
BENE!
L’onestà e la
sincerità ti rendono vulnerabile.
NON IMPORTA, SII
FRANCO E ONESTO!
Quello che per anni
hai costruito può essere distrutto in un attimo.
NON IMPORTA,
COSTRUISCI!
Se aiuti la gente, se
ne risentirà.
NON IMPORTA,
AIUTALA!
Da’ al mondo il
meglio di te e ti prenderanno a calci.
NON IMPORTA, DA’ IL
MEGLIO DI TE!
(da una scritta sul muro di Shishu Bhavan, la Casa dei bambini
di Calcutta)
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