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Giolitti, da Bardonecchia a Tripoli
Alcune notizie sulla Confraternita dei Penitenti
Il Pellegrinaggio (parte 2°)
Verso il Sommeiller
Si dice che invecchiando si pensa al passato
BREVE STORIA
DELLE GESTA D’OLTREMARE
Anche quell’anno, il 1911, Giolitti avrebbe voluto un’estate
come tutte le altre, con i mesi di luglio e agosto trascorsi a Bardonecchia
insieme alla signora Rosa a casa dell’avvocato Suspize.
Le lunghe passeggiate, le conversazioni con gli amici, gli
impegni di governo sbrigati nell’ufficio allestito nei locali sopra il Caffè
Medail, lontano però dal convulso e pettegolo mondo romano, che mal si adattava
ad un uomo austero come Giolitti.
Nonostante gli sforzi, l’estate del 1911 fu invece davvero calda
sia dal punto di vista atmosferico, sia dal punto di vista politico, con uno
scacchiere internazionale incandescente, soprattutto nell’area balcanica come
avrebbero poi dimostrato i fatti dopo il tragico eccidio di Sarajevo. Il 28
luglio del 1911 il marchese Antonino di San Giuliano, Ministro degli Esteri,
inviava a Giolitti, in vacanza a Bardonecchia, un pro-memoria riservato nel
quale valutava la possibilità che l’Italia fosse nel giro di pochi mesi
costretta ad intervenire militarmente in Libia con ovviamente importanti
ripercussioni sul piano internazionale(1).
È chiaro che, nonostante i tentativi di rassicurare la moglie
Rosa, i pensieri di Giolitti erano tutt’altro che tranquilli per quello che si
paventava, per le scelte impegnative che si profilavano e perché sulla politica
coloniale Giolitti aveva fatto da tempo importanti riflessioni e operazioni che
ora dovevano trovare giusto compimento.
Significativo è il fatto che Giolitti, tornato al potere nel
1906, ufficializzò prontamente il marchese siciliano Antonino di San Giuliano
quale ambasciatore a Londra con lo scopo di perorare gli interessi italiani in
Libia e in Africa Orientale. Era importante che la Gran Bretagna permettesse
una “penetrazione pacifica” del Banco di Roma, ovvero costringere la “Sublime Porta”
ad «accettare che la Tripolitania e la Cirenaica fossero territori
esclusivamente riservati alle iniziative economiche dell’Italia» (2). Analogamente
chiese a San Giuliano di valutare dal suo osservatorio londinese la grave crisi
provocata dall’Austria-Ungheria con la decisione di annettersi la Bosnia e
l’Erzegovina. Nel marzo del 1911 Giolitti ufficializzò la posizione
dell’esperto marchese siciliano come Ministro degli Esteri, conscio che la
situazione libica necessitasse una soluzione in tempi brevi. Con l’apertura
della crisi marocchina il 1º luglio 1911 e l’ampliamento dell’impero coloniale
francese in Africa, era sempre più evidente che la questione libica dovesse
trovare una soluzione.
Il 9 agosto il solito San Giuliano dalla località di Vallombrosa
scrive a Giolitti, che si trova a Bardonecchia, una missiva “riservatissima”
nella quale dice: «Illustrissimo amico, mi giunge voce che il “Banco di Roma”
tratti e sia per conchiudere la cessione dei suoi affari in Tripolitania ad una
società di banchieri austro-tedeschi ... dispongo che si cerchi di accertare
quanto ci sia di vero in questa notizia, affinché, se fondata, si provveda ad
evitare che questo avvenga ...» (3).
1 G.
Giolitti, Al governo, in parlamento,
nel carteggio, vol. III, tomo II il Carteggio, pp. 207-209.
2
Ibid., p. 50.
3 G.
Giolitti, Al governo, in parlamento,
..., op.cit., vol. III, tomo II il Carteggio, p. 208.
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E ancora: «Reputo mio dovere farti conoscere che il Pacelli 4 ha
fatto questa minaccia ma non credo che la tradurrà in atto finché serberà la
speranza che l’Italia occupi la Tripolitania ...» (5).
Si vede quindi un Giolitti molto più interessato ai risvolti
della politica coloniale di quanto si pensi, unitamente all’ipotesi che una
penetrazione pacifica della Libia fosse oramai tramontata e occorresse
un’azione militare forte per difendere gli interessi economici italiani e
tacitare l’opinione pubblica. Non dimentichiamo che al di là di una certa
retorica storiografica, concentrata intorno al mood: “Libia scatolone di
sabbia”, Tripolitania e Cirenaica fossero ambite da molte potenze straniere e
l’idea che si ripetesse uno scippo come quello della “questione tunisina” del
1881 era per l’Italia inaccettabile.
Ai primi di settembre Giolitti viene ripreso alle terme di
Fiuggi insieme al fido ministro siciliano e sempre da Fiuggi l’ammiraglio Corsi
sollecita un’azione militare fra ottobre e novembre per evitare le mareggiate
invernali.
L’urgenza della situazione necessitava di incontri vis a vis anche,
per quanto possibile, sviando l’attenzione dei giornalisti, e quindi da
Anticoli (ameno borgo nei pressi di Roma nella valle dell’Aniene) si trasferì
in Piemonte, lasciando credere di voler raggiungere la moglie ancora in vacanza
a Bardonecchia, in realtà il 17 raggiunse il Re Vittorio Emanuele III a
Racconigi e con lui decise l’ultimatum all’impero ottomano, inviato poi
il 26 settembre, e alla risposta evasiva della “Sublime Porta”, il 29 fece
consegnare la dichiarazione di guerra alla Turchia.
Una certa leggenda popolare, riportata anche su qualche guida
turistica, vorrebbe che tale dichiarazione fosse firmata proprio a Bardonecchia
nell’ufficio di Giolitti sopra il Caffè Medail, tale ipotesi – invero molto
suggestiva – non è, per i documenti da me consultati, attendibile, in quanto il
26 Giolitti scrive che non potrà presenziare il Consiglio Provinciale di Cuneo
del 2 ottobre perché trattenuto a Roma da “majora premebant” e in
seguito il 2 ottobre scriverà alla moglie dicendole che era imminente un suo
viaggio da Roma verso Racconigi per un nuovo incontro con Vittorio Emanuele III
6. È quindi probabile che in quei giorni di fine settembre la moglie dello
statista fosse ancora a Bardonecchia e questo, così come le voci false che lo
stesso Giolitti faceva volutamente circolare, potrebbero aver generato l’idea
che il documento fosse stato firmato proprio a Bardonecchia.
In breve le truppe italiane si attestarono a Homs, Derna,
Bengasi, Tobruk e il 3 novembre Giolitti scriveva alla moglie che tutto
«procedeva come previsto», infatti il 4 novembre la “Gazzetta Ufficiale” pubblicava
il decreto con il quale si proclamava la sovranità italiana sulla sponda africana.
Al di là di quanto sancito dalla “Gazzetta Ufficiale” e dai discorsi a sostegno
dell’impresa fatti da Giovanni Pascoli con “La grande Proletaria s’è mossa...”
o con le prezzolate “Canzoni d’oltremare” di D’Annunzio, la questione con la Turchia
era tutt’altro che risolta, anzi la fine sostanziale del conflitto si
presentava lunga sia sul piano militare, sia su quello diplomatico.
Nella primavera del 1912 il solito di San Giuliano riuscì a
superare la resistenza austriaca a creare una “zona di lavoro” italiana nel
Dodecaneso in modo da far pressione sulla Turchia minacciandola di portare le
navi italiane sul Bosforo e creare, al contempo, una zona di influenza italiana
in Asia Minore. Il percorso si presentava lungo e accidentato e quindi Giolitti
non esitò a servirsi di personaggi molto addentro alle “questioni d’Oriente”
come Giuseppe Volpi, legato a Costantinopoli da molteplici attività finanziare.
4
Ernesto Pacelli, Amministratore del Banco di Roma, zio del futuro Papa Pio XII,
fautore del pesante intervento economico in Libia del Banco di Roma. Cfr. Carlo
Marroni, 1911, la “guerra” del Banco
di Roma, in: Il Sole 24 Ore,
del 25-8-2011.
5 G.
Giolitti, Al governo, in parlamento,
..., op.cit., p. 207.
6
A.A. Mola, Giolitti. Lo statista della
nuova Italia, Milano 2003, pp. 332-333.
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La villeggiatura bardonecchiese dell’estate del 1912 fu quanto
mai importante, ben più di quella del 1911, e Giolitti rinunciò anche ad alcune
sue tradizionali presenze a Cavour, non tanto per godersi il “fresco” dell’alta
Val di Susa, quanto per la relativa facilità con la quale da Bardonecchia poteva
raggiungere la Svizzera e Losanna per le trattative di pace con la Turchia.
A di San Giuliano scriverà: «Bardonecchia, 8 agosto 1912. Ho
deciso di non andare a Cuneo per il consiglio provinciale restando qui dove
sono in comunicazione più diretta con Roma e dove occorrendo i nostri
negoziatori potrebbero venire da me in poche ore» (7). Bardonecchia divenne
quindi luogo privilegiato per incontri importanti e centro di smistamento della
corrispondenza diplomatica che ruotava intorno al primo ministro piemontese (8).
Fitte furono le missive, spesso cifrate, in quei mesi estivi fra Giolitti, il
Ministro degli Esteri italiano e i molti negoziatori, da Bertolini a Nogara, da
Fusinato a Volpi, e Bardonecchia divenne il vero crocevia fra i destini delle
terre d’oltremare e l’impero ottomano di Costantinopoli.
Finalmente a Ouchy (quartiere di Losanna) il 18 ottobre 1912,
anche per il precipitare degli eventi nei Balcani con la mobilitazione di
Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria per la liberazione dei territori
balcanici dagli Ottomani, venne firmata la pace italo-turca nella quale si
riconosceva all’Italia l’amministrazione militare e civile su Tripolitania e
Cirenaica, mentre si concedeva alla Turchia quella religiosa. Inoltre si
disponeva il ritiro delle truppe italiane dalle isole del Dodecaneso, cosa che
per varie ragioni non venne mai fatta sino al 1943.
La storia delle terre d’oltremare è però legata a Bardonecchia
per il canto goliardico “Giovinezza”, composto dal musicista bardonecchiese
Giuseppe Blanc (9), che lo stesso Blanc una volta tornato a Bardonecchia come
tenente istruttore degli “alpini skiatori” insegnerà ai suoi allievi, i quali
poi la porteranno in Libia e in Somalia (divenuta italiana nel 1908) facendone
una colonna sonora della campagna coloniale. La cosa interessante è che una
seconda marcia, composta sempre da Blanc, resisterà sino al 2000 come inno
nazionale somalo nonostante la nazione del “Corno d’Africa” si fosse emancipata
dal dominio italiano nel 1960.
La definitiva archiviazione della marcia di Blanc simbolicamente
ci riconsegna ancora una volta l’imperfetta verità della Storia e dei miti
sociali e di fondazione ad essa connessi e con amarezza si recide
imperdonabilmente quel cordone ombelicale che legava il sogno del posto al sole
e quelle montagne, là dove tutto aveva avuto inizio.
Roberto Borgis
7 G.
Giolitti, Al governo, in parlamento,
..., op.cit., p. 235.
8
Cfr. G. Giolitti, Memorie della mia
vita, in www.liberliber.it
9 Le
parole di “Giovinezza” verranno composte dal poeta crepuscolare Nino Oxilia.
ALCUNE
NOTIZIE SULLA CONFRATERNITA
DEI
PENITENTI BIANCHI DI BARDONECCHIA
I“livre de raison” della Confraternita del Santissimo
Sacramento, detta dei Penitenti bianchi, conservati nell’archivio storico della
Parrocchia, riportano minuziosamente i proventi e le spese sostenute dai vari
procuratori che ne effettuavano il rendiconto con cadenza generalmente annuale.
Gli incassi provenivano sia dalle elemosine, in moneta od in granaglie, che erano
poi vendute, sia da somme destinate per testamento in suffragio della propria
anima. In altri casi venivano donati, sempre per testamento, appezzamenti di
terreni. I terreni venivano poi affittati, preferibilmente ai parenti del
defunto che a volte li riscattavano versando il corrispondente valore.
Si riportano alcuni di questi lasciti, scelti a caso tra i
numerosi che vi compaiono:
«Luigi Francou fu Alberto (lega ai Penitenti) venti
scudi pari a 60 lire con l’obbligo di dire in perpetuo il primo lunedì di
gennaio il mattutino dei morti e cantare la messa da requiem ed, alla fine, le litanie
dei trapassati ed i misteri con le orazioni funebri, ed il rimanente della detta
somma sarà utilizzata per il servizio delle messe ed altre cose necessarie per
la cappella ...».
«Caterina Francou, vedova di Giovanni Agnes, lega ... ai
Penitenti sei javedons di terreno in Ravel, od il loro valore, conf inanti con
mastro Simone Guiffrey a levante, Giovanni, suo fratello, sopra, Ippolito Pron
a ponente, eredi di Francesco Orcel Giraud sotto».
«Ippolito Gastaud fu Ippolito (lega ai Penitenti) 4
lire (tornesi) con l ’incarico di dire l ’uffizio e la messa funebre
alla cappella di San Rocco, ed ai Penitenti un sestiere di terreno ai Villard,
od il suo valore, ...».
«Io sottoscritto, notaio reale delfinale ereditario, legittimato
per editto di Sua Maestà, certifico a tutti gli interessati che il primo aprile
milleseicentosessanta ho ricevuto un contratto di affitto intercorso tra Marco
Guy, in qualità di procuratore dei Penitenti di Bardonecchia ai fratelli
Guglielmo e Spirito Aymon, del luogo, di tre carterees ed otto tese di terreno
situato ai condemines ... per il periodo di sedici anni prossimi venturi con
l’aff itto, per il corrente anno di quattro sestieri di segale e, per i
restanti, quattro sestieri, di due in due anni, pagabili alla festa di
Sant’Andrea ... B des Ambrois, notaio».
«Io sottoscritto Giovanni Ponchier ... ho aff ittato dal sig.
Antonio des Ambrois, procuratore della venerabile Confraternita dei Penitenti
di Bardonecchia, i seguenti appezzamenti: cinque javedonnees diciassette tese
di prato a pre' de sap, dietro il Chaffau, più tre quarterees, due javedonnees
di prato e terreno alle casses della Moutte e due javedonnees di prato ai
lourdes della Moutte ... per il periodo di sei anni ... promettendo di tenerli
come un buon padre di famiglia e promettendo di pagare tutti gli anni la somma
di cinquantotto soldi alla festa di Sant’Andrea di ogni anno a pena di tutte le
spese, danni ed interessi. A Bardonecchia, il due febbraio
milleseicentosettantadue. Giovanni Ponchier».
Per quanto riguarda le spese, sono annotati gli esborsi per la
celebrazione di Messe, per i “coristi” che hanno partecipato alle Messe
cantate, per l’acquisto di candele, di lumini per la Settimana Santa, per
l’effettuazione di pellegrinaggi al Charmaix, per la manutenzione della chiesa.
Nel Bollettino Parrocchiale dell’anno scorso è stata data
notizia di un notevole esborso per la fusione nel 1702 di una campana
utilizzata dalla Confraternita.
Nell’anno precedente si era provveduto a dotare la Confraternita
di un gonfalone e di alcune Croci.
Il procuratore Alessandro Garcin riferisce: «Ho fatto fare la
gran Croce a fondo verde e dorato, le due Croci ed il Crocifisso dei defunti,
il gran stendardo a fondo blu con stelle d’oro, i quattro bordoni rossi e blu,
il tutto anche dorato e lavorato in loco da mastro Claudio Bourrechin di St
Andrè in Savoia. Il tutto è stato benedetto da monsignor Simone Roude, priore
di Mentoules. Ho pagato per il tutto
settantacinque lire che ho ricevuto in parte, dai nominati di seguito, il
giorno della benedizione: il 10 dicembre 1701». «Il velo bianco e la sua
guarnizione, che serve alla gran Croce, è stato donato dal sig. Arduin mercante
a Briançon».
Segue l’elenco degli offerenti:
Monsignor Simone Roude, priore di Mentoules ha donato sei lire
dieci soldi 6 lt 10 s
Antonio Mauthoux fu Alessandro ha donato sei lire 6
lt 10 s
Claudio Pellerin ha donato una lira dieci soldi 1
lt 10 s
Mastro Gabriele Blanchard ha donato una lira 1
lt 10 s
totale 15 lt 10 s
Francesco Garcin ha donato quattro lire dieci soldi 4
lt 10 s
Giacomo Chanoux, detto “la torre”, ha donato tre lire 3
lt 10 s
Caterina Andrè, moglie del Chanoux, ha donato una lira 1
lt 10 s
Don Pietro Rey, del borgo di Cesana, ed i Confratelli della
Confraternita
stabilita in quel luogo hanno donato dodici lire 12
lt 10 s
Il signor de Saueuse, capitano di cavalleria, ha donato tre lire
undici soldi 3 lt 11
s
Il signor suo luogotenente ha donato una lira quindici soldi 1 lt 15 s
Il signor Ans, brigadiere della brigata di Chiomonte, ha donato
quindici soldi 15 s
Un tale, che non ha voluto essere nominato, ha donato nove lire 9 lt 10 s
Gabriele Spirito Orcel, quindici giorni prima della sua morte,
ha donato una lira nove
soldi 1
lt 9 s
totale 37 lt 10 s
Per pagare completamente quanto dovuto sono occorsi tre anni; il
procuratore infatti annota che «Le ventitré lire che erano dovute sono state
pagate mediante il grano (offerto) nella Settimana Santa e le offerte
versate nella cassetta delle elemosine dall’ultimo rendiconto (1701) sino
ad oggi, undici maggio millesettecentoquattro».
Una piccola curiosità, nell’elenco delle persone che hanno
contribuito con un’offerta figurano dei militari: un capitano di cavalleria, il
suo luogotenente ed un brigadiere, il che dimostra la presenza di truppe a
Bardonecchia. Il conflitto franco-piemontese della seconda metà del Seicento
aveva visto lo stanziamento, prevalentemente invernale, nella nostra conca di
parte delle truppe del Catinat con imposizioni di gravose forniture militari a
carico della popolazione.
La pace stipulata nel 1696 non aveva cambiato di molto la
situazione in quanto le truppe francesi rimasero acquartierate nell’alta Valle
di Susa. Si prevedeva infatti il riaccendersi del conflitto che portò, pochi
anni dopo, prima all’assedio di Torino e quindi (1708) all’occupazione dell’alta
Valle di Susa da parte delle armate di Vittorio Amedeo II e successivamente
alla cessione al Piemonte degli Escartons “aux eaux pendantes vers l’Italie”.
Nel libro non ci sono altri riferimenti per quanto riguarda le
croci, tuttavia si può ipotizzare, anche se non vi sono prove a conferma, che
visto il particolare impegno dei confratelli durante la Settimana Santa, una di
queste, forse la “gran Croce”, sia la Croce quaresimale, recante i
simboli della Passione, tutt’ora in uso nella nostra chiesa parrocchiale
durante la Quaresima.
Guido Ambrois
Note: - Le
lire citate nel testo sono “lire tornesi”, valuta usata all’epoca nel
Delfinato.
Note: - Le
misure di superficie agraria utilizzate nella conca a Bardonecchia (che a quel
tempo comprendeva anche Beaulard) erano: il sesteree era formato da due
eminees, a loro volta suddivise in due quarterees, che erano formate da quattro
javellonees.
A Bardonecchia,
Melezet, Les Arnauds, Millaures, Rochemolles, il sesteree equivaleva a 420 tese
quadrate, mentre a Beaulard equivaleva a 420 tese. Le tese a Bardonecchia erano
pari a 5,170485 metri quadri mentre aMelezet, Millaures e Rochemolles erano
equivalenti a 3,798745 metri quadrati.
IL
PELLEGRINAGGIO 2ª parte
Le
strutture ospitaliere, le Confraternite e gli Ordini cavallereschi
Il pellegrino che si metteva in viaggio, di solito, non portava
molto denaro con sé, perciò si doveva appoggiare a delle strutture che lo
accogliessero gratuitamente. Nei miti greci e nei poemi omerici, vediamo che il
concedere l’ospitalità, a chi supplice, si presentava alla porta di casa, era
una consuetudine, il negarla empietà; nella Sacra Scrittura, vi sono numerosi
esempi di accoglienza data ai viandanti: Abramo riceve e ristora tre
sconosciuti, di cui poi uno gli rivela di essere Dio, accompagnato da due
angeli; per i Cristiani, accogliere i viandanti e i pellegrini, è una delle
opere di misericordia corporale, ricordando che, colui che arriva stanco,
esausto, con i piedi piagati, potrebbe essere un angelo mandato da Dio o Cristo
stesso.
Dal IV secolo, in Palestina, per l’accoglienza dei pellegrini,
furono fondati degli xenodokia, alcuni dei quali, malgrado le vicissitudini e
le invasioni cui furono sottoposti quei territori, rimasero operanti per alcuni
secoli. Carlo Magno, a Gerusalemme, ne fece costruire uno, che destava la
meraviglia dei pellegrini che giungevano dall’Occidente.
A Roma, per iniziativa dei Pontefici, per ospitare i pellegrini,
sorsero xenodochia, scholae, hospitales e balnea, situati presso le maggiori
basiliche e lungo le direttrici viarie. Dal sec. VII, per volere dei sovrani
cristiani delle regioni dell’Europa del Nord, furono fondate delle scholae nazionali, strutture di accoglienza per
ospitare i pellegrini che, provenendo da quelle zone, compivano il viaggio ad limina
sancti Petri . Si trovavano nelle adiacenze della basilica vaticana ed erano
costituite da una casa, da una struttura recettiva, da una chiesa e da un
cimitero; costruite in gran parte in legno, spesso erano soggette ad
incendi.Erano sovvenzionate dalle rendite e dai donativi elargiti dai
rispettivi regnanti o da pellegrini ricchi. Le quattro più importanti erano le
scholae: Frisonum, Langabardorum, Germanorum e Anglorum o Saxonum(1) e furono
attive per alcuni secoli.
I Benedettini, seguendo la loro Regola, la cui norma 53 recita:
“Hospes tamquam Christus”, già dalla seconda metà del sec. VI accoglievano i
pellegrini in transito; in quei tempi, quando si fondava un’abbazia, la si
dotava di beni, di cui un terzo era destinato all’assistenza dei pellegrini.
Nell’Alto Medioevo, quando i pellegrini erano pochi, erano
ospitati nelle foresterie dei monasteri; più tardi, nelle vicinanze delle
abbazie, ma lungo il percorso, furono costruite per loro piccole case, di legno
o di pietra.
Dal secolo XI, nella Chiesa, si verificò un intenso rinnovamento
spirituale che coincise con cambiamenti profondi della società medievale;
questo, inoltre, fu un periodo di relativa pace, che favorì lo spostamento
delle persone, per cui il pellegrinaggio divenne sempre più diffuso; lungo le
vie, per iniziativa di regnanti(2), di Vescovi, di canonici, di Confraternite,
di gruppi di nobili o di borghesi sorsero centinaia di strutture ospitaliere(3).
Chi li fondava, li dotava di terreni e di rendite necessari alla loro
sussistenza; a capo c’era un ospitaliere o spedalingo,
che aveva il compito di presiedere al funzionamento e all’amministrazione del
patrimonio; erano costituiti da grandi stanzoni, dotati di pagliericci a due o
tre posti o di semplice paglia, i servizi erano minimi; qui il pellegrino era
accolto, curato, assistito spiritualmente e istruito sul cammino; negli statuti
di alcuni spedali, situati in zone montuose ed impervie, è menzionato il
compito di guida e di assistenza ai viandanti ed ai pellegrini, fino al
superamento del valico.
1
Per il sito in cui si trovava la schola Anglorum, nel “Liber Pontificalis” (LP. II, pp. 53-54) fu usato per la prima
volta il termine bourgus, da
cui derivò la parola “borgo”; come le altre, era costruita soprattutto in legno
e bruciò interamente sia nell’anno 817, che nell’anno 852; secondo una
tradizione leggendaria le fiamme si spensero per il miracolo operato da Papa
Leone IV che, affacciandosi da una loggia, impartì la benedizione; di questo
fatto rimane il ricordo nell’affresco “L’incendio di Borgo” della scuola di Raffaello,
nelle Stanze Vaticane; il Pontefice, poi, donò legna e materiali per la sua
ricostruzione.
Nell’anno
1066, con la battaglia di Hastings, i Normanni, che non erano cristiani,
conquistarono la Britannia, per cui i pellegrini provenienti da quelle zone
furono meno numerosi, le donazioni diminuirono e la schola decadde; ma in tempi
moderni, sul suo sito, nei pressi della Città del Vaticano, fu fondato
l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, che ne continua la tradizione.
2
Sul Camino per Compostela, i
sovrani spagnoli fondarono degli Hospitali detti Hospitales del Rey, strutture che, per le grandi dimensioni,
dovevano testimoniare il prestigio dei regnanti. Nikulas di Munkathvera nel suo
diario di viaggio (a. 1154 ca.) annotò che il re di Danimarca, Erik Svensson,
aveva fondato uno spedale a sud di Piacenza e un altro a Lucca, dove erano
accolti unicamente i pellegrini nordici, che potevano bere vino gratuitamente e
a sazietà.
99
Quando un pellegrino giungeva ad uno spedale, gli venivano dati
del pane, del vino, una zuppa e una fetta di lardo; quelli che vi giungevano in
cattive condizioni di salute, a causa delle fatiche del viaggio e delle scarse
norme igieniche, ricevevano le cure proprie della medicina del tempo; i
moribondi facevano testamento dinnanzi allo spedalingo, che fungeva da
notaio, e lasciavano in eredità allo spedale la metà del loro patrimonio.
Fig. 1 - Pistoia: Ospedale del Ceppo, fregio robbiano policromo di terracotta invetriata, realizzato intorno al 1530 da Santi Buglioni. |
A Pistoia, nel fregio della facciata dello spedale del Ceppo(4),
che raffigura le sette opere della Misericordia
corporale, vi è una formella [f ig. 1] che rappresenta la quarta, ossia
l’accoglienza data ai viandanti ed ai pellegrini; a sinistra si vedono quattro
personaggi con vestiti e cappelli strani: uno sul capo porta il “petaso” ornato
dalle conchiglie jacobee(5); nella parte centrale è illustrata “la lavanda dei
piedi” (6), fatta dallo spedalingo ad un pellegrino: questi, che ha il capo
circondato da un’aureola, rappresenta S. Giovanni Battista, mentre l’altro, che
osserva la scena, è Cristo.
Ecco, è la realizzazione del versetto del Vangelo di Matteo (Mt
10,40), che recita:
«Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie
colui che mi ha mandato» e del punto 53 della Regola benedettina, che ricorda
che il pellegrino deve essere considerato come Cristo.
Nell’anno 1099, quando i Crociati entrarono in Gerusalemme, vi
trovarono una struttura di accoglienza tollerata dai Musulmani; era stata
fondata verso la metà di quel secolo da alcuni mercanti amalfitani e intitolata
a S.Giovanni Battista, patrono della loro città; la loro finalità era la “cura
peregrinorum” (7); presero la Regola dei Benedettini e si chiamarono
“Ospitalieri di S.Giovanni” o più comunemente “Giovanniti”.
3
Domus hospitalis, da cui in seguito, hospitale, spedale, ospedale, ospizio.
4 Lo
spedale del Ceppo fu fondato alla fine del sec. XIII dalla “Compagnia di Santa
Maria”; fu chiamato del “Ceppo” perché accanto all’entrata vi era un tronco
vuoto di legno, in cui venivano lasciate le offerte; divenuto ospedale nel
’500, rimase operante fino all’anno 2013; fu sede di un’importante scuola di
medicina.
5 Le
conchiglie testimoniavano che il pellegrino era stato a Santiago di Compostela.
6 La
“lavanda dei piedi”, a ricordo di quella fatta da Gesù agliApostoli, prima
dell’Ultima Cena, era una pratica usuale e faceva parte dell’accoglienza ai
pellegrini; attualmente viene ancora praticata negli spedali retti
dall’Arciconfraternita di S. Jacopo di Perugia.
7 Vi
erano accolti anche i Musulmani.
Ben presto ebbero molti spedali su tutte le vie; nel 1113
ricevettero l’approvazione di Papa Pasquale II e nel 1120 divennero un Ordine militare
cavalleresco molto potente e agguerrito che doveva proteggere i pellegrini
diretti a Gerusalemme e difendere i territori dei Crociati dagli attacchi dei
Turchi Selgiucidi; quando nel 1291, le milizie cristiane persero la città di
Acri, i Giovanniti si spostarono a Cipro, poi a Rodi; si trasformarono in un Ordine
militare marinaresco e la loro finalità si orientò a combattere sul mare i
pirati berberi e turchi e che seminavano distruzione e morte tra le popolazioni
costiere; dopo la perdita dell’isola di Rodi, nel 1530, ottennero
dall’imperatore Carlo V le isole dell’arcipelago maltese, presero il nome di
Cavalieri di Malta e si impegnarono nel contrastare i pirati.
A Gerusalemme, nel 1119, per iniziativa di un gruppo di
cavalieri francesi, il cui capo era Ugo de Payns, sorse il primo Ordine
religioso militare cavalleresco, cui solo i nobili erano ammessi; i loro motti
erano “Tuitio Fidei” e “Christi Militia”, divenuto poi “Militia
Templi”, perché la sede loro assegnata era vicino al luogo dove un tempo
sorgeva il Tempio di Salomone; la loro Regola, che si ispirava allo spirito
della riforma cistercense, fu approvata nel 1228; mettevano le loro armi a
servizio della Chiesa, difendendo dai predoni i pellegrini in cammino tra i porti
della costa e la Città Santa e opponendosi ai Selgiucidi che insidiavano le
conquiste dei Crociati.Combattevano strenuamente e molti dei loro Maestri
morirono in battaglia.Quando i Musulmani riconquistarono la Palestina, si
trasferirono a Cipro, poi molti di loro passarono in Europa, dove, sulle vie di
pellegrinaggio gestivano numerosi spedali intitolati al loro Ordine; avevano
così tanti fondi e ricchezze, soprattutto in Francia, da diventare prestatori
di denaro a privati e a regnanti(8). Sollecitavano la ripresa delle Crociate e
un gruppo di loro passò in Spagna a combattere i Mori. Nell’anno 1307, i
Templari furono accusati dal re di Francia, Filippo IV, di eresia e di pratiche
infami; molti di loro furono arrestati, i capi sottoposti a terribili torture e
processati. Nel 1312, il Papa Clemente V, su pressione del re, sciolse l’Ordine;
il Maestro Jacques de Molay ed il precettore di Normandia furono arsi sul rogo.
In Francia i loro possedimenti passarono in parte alla Corona e in parte agli
Ospitalieri di S. Giovanni; in Spagna i loro beni furono dati all’Ordine dei
Cavalieri di Calatrava.
A Gerusalemme, all’epoca della terza Crociata, per iniziativa di
alcuni Tedeschi, forse mercanti, sorse l’Ordine Teutonico; era di tipo
monastico-militare-ospitaliero e assisteva i pellegrini provenienti dalla
Germania; dopo la caduta di S. Giovanni d’Acri, avvenuta nel 1291, si
spostarono in Europa Orientale, dapprima in Transilvania, dove combatterono per
il regno d’Ungheria, poi sulle coste Baltiche; qui conquistarono vasti
territori e convertirono alla religione cristiana quelle popolazioni che erano
pagane.
In Spagna, nel 1158, l’abate cistercense S. Raimondo de Filero,
per difendere dagli attacchi dei Mori la città di Calatrava, diede vita ad un
Ordine monastico militare, diretto da un Gran Maestro; prese il nome da quella
città ed era costituito da due classi, una di religiosi e l’altra di militari.
Nel 1164 l’Ordine fu approvato dal Papa Alessandro III e in seguito, l’aspetto assistenziale
fu rivolto alle popolazioni vessate dai Mori ed all’accoglienza dei pellegrini.
Verso la metà del secolo XI, a Lucca, un gruppo di canonici o
forse di nobili, diede vita ad una Confraternita, che aveva lo scopo di
soccorrere i pellegrini che, percorrendo la Via Francigena, dovevano
attraversare, verso l’Arno, il Bosco delle Cerbaie, una zona paludosa, dalla
fitta vegetazione, dove era facile perdersi e divenire preda dei briganti. Qui
fu fondato lo spedale “Ad Teu Pascio” intitolato ai Santi Jacopo, Egidio
e Pellegrino.
8 Il
re Filippo IV era loro debitore di un’ingente somma di denaro. Le loro Commende
e Precettorie erano presenti in tutta l’Europa Occidentale; in Francia avevano
così tanti possedimenti da costituire uno stato dentro lo stato; nel periodo in
cui in Europa si stavano affermando gli stati nazionali, la loro potenza ne
ostacolava l’attuazione.
Furono abbattuti molti alberi della foresta e, perché i
viandanti si orientassero nel cammino e si dirigessero verso la “Magione”, sul
terrazzo della torre ardeva sempre un fuoco; inoltre, all’imbrunire, veniva
suonata una campana, la “Smarrita” (9). Dalla Confraternita si passò poi ad un
Ordine cavalleresco, quello dei Frati Ospitalieri di S. Jacopo di Altopascio,
il cui statuto, che ricalcava quello dei Giovanniti, venne approvato dal Papa
Gregorio IX nel 1139. Le sue finalità erano l’assistenza ai pellegrini, la
manutenzione delle strade, la costruzione di ponti e di navigli.
I Frati indossavano un mantello nero, su cui spiccava una croce
con la punta acuminata che riprendeva i loro strumenti di lavoro, il martello
ed il punteruolo, ma nello stesso tempo raffigurava una gruccia, il sostegno
offerto ai pellegrini. Per le cure e l’assistenza prodigate agli infermi, lo
spedale di Altopascio e quelli dell’Ordine, sorti successivamente lungo le vie,
divennero un modello ed un esempio per tutti gli altri. I loro spedali,
chiamati “obedentiae”, spesso fondati su richiesta di sovrani, si
diffusero in tutti i regni d’Europa; a Parigi, la chiesa di
Saint-Jacques-du-Haut-Pas e la Torre ricordano l’antica loro casa ospitaliera,
operante fino al 1567. Nel 1588 l’Ordine fu soppresso ed i beni che si
trovavano in Toscana passarono all’Ordine di S. Stefano di Pisa.
Verso la metà del sec.XI un nobile del Delfinato, Gaston de
Valloire, come ringraziamento per la guarigione del figlio affetto dal “fuoco
di Sant’Antonio”, ottenuta per l’intercessione del Santo, diede vita, con
alcuni nobili locali, ad una Confraternita laicale. Si chiamarono Frati Ospitalieri
di Sant’Antonio e si proponevano di assistere i malati e i pellegrini (10), là
particolarmente numerosi, perché venivano a venerare le reliquie di
Sant’Antonio Abate, che si trovavano a La Motte St. Didier, l’attuale
St.Antoine l’Abbaye. Per questo, presso Vienne, nel Delfinato, furono costruiti
uno spedale e una chiesa; nel 1095 lo statuto fu approvato da Papa Urbano II; la
loro divisa era una tonaca nera con una croce azzurra di soli tre bracci, come
una T, che rievocava la croce di Cristo e la tau biblica (11); vivevano di
elemosine e di lasciti e si facevano annunciare dal suono di una campanella,
legata al loro bastone. Si specializzarono nel curare i malati affetti dal
“fuoco di Sant’Antonio”; con questo termine, nel Medioevo, venivano indicati sia
l’herpes zoster (12) che l’ergotismo (13), due malattie frequenti nel passato,
soprattutto tra i poveri, a causa della scarsa igiene e della cattiva
alimentazione. Le cure consistevano nella somministrazione di una dieta
sostanziosa che favoriva una guarigione più rapida e nel massaggiare le piaghe
con un unguento fatto con grasso di maiale mischiato ad erbe officinali.
Nel 1095 i frati ottennero il permesso di allevare, all’interno
dei centri abitati, i maiali, che costituivano il loro sostentamento e quello
dei malati; questi animali erano nutriti a spese della comunità ed erano
riconoscibili dagli altri perché portavano una campanella al collo.
9
L’hospitale “Ad Teu Pascio” è nominato per la prima volta in un documento del
1084, ma è precedente di alcuni decenni; nel 1154 vi passò Nikulas di
Munkathvera, abate islandese, che lo chiamò l’ospizio di Matilde, la contessa
di Canossa. Il re di Francia Filippo II, che vi fu accolto nel 1191 di ritorno
dalla terza Crociata, lo chiama semplicemente “le Hopital”, lo spedale per
antonomasia.
10
L’assistenza spirituale ai pellegrini e ai malati era affidata ai monaci della
vicina Abbazia Benedettina di Montmajeur, presso Arles.
11
Il Tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico, compare anche in altri luoghi di
pellegrinaggio, come a Compostela; è simbolo
dei taumaturghi e nel libro di Ezechiele (9, 4), di salvezza; in Egitto è segno
di resurrezione.
12
“Fuoco di Sant’Antonio” era il nome dato all’“herpes zoster”, una malattia dovuta ad un virus molto simile a quello
della varicella e che interessa le terminazioni nervose del tronco, causando
forti dolori; inoltre la cute presenta numerose piccole vesciche che provocano
una sensazione di bruciore, di fuoco e che, se infettate, si trasformano in
piaghe. Il nome di ”fuoco di Sant’Antonio” gli era dato per l’associazione, già
molto antica, del santo abate al fuoco.
13
L’ergotismo è una malattia
dovuta ad un’intossicazione causata da “Claviceps
purpurea”, un fungo che intacca le graminacee e che in Francia era
chiamato comunemente “ergot”;
il consumo di pane fatto con farina contaminata dal fungo provoca un
avvelenamento che si manifesta con dolori lancinanti, piaghe e cancrene
dolorose, allucinazioni e convulsioni per cui, non conoscendone le cause, nel
Medioevo veniva associato al demonio e chiamato “fuoco sacro” o “male degli
ardenti”;
l’ergotismo spesso portava alla morte
molte persone, a volte famiglie intere.
102
Inizialmente erano frati laici infermieri, poi nel 1297 la
Confraternita si trasformò nell’Ordine dei Canonici Ospitalieri Antoniani di
Vienne; uno dei primi loro spedali fu quello di Sant’Antonio di Ranverso, nella
Valle di Susa, ma ne sorsero molti altri, lungo le vie di pellegrinaggio, anche
in zone lontane, fuori dall’Europa, come in Etiopia e, in Asia, tra i Tartari. Vi
erano delle Precettorie Generali o Maggiori, una per regione, e Precettorie
Minori o Case. L’Ordine, nel secolo XVIII, iniziò a decadere; nel 1776 fu
soppresso ed i suoi beni passarono in gran parte all’Ordine dei Cavalieri di
Malta.
I Santi del Pellegrinaggio
Nel Medio Evo, epoca di forte sensibilità religiosa, il
pellegrinaggio, pur con le dure prove fisiche che implicava, non rispondeva
unicamente ad una volontà di espiazione, ma mirava soprattutto a realizzare una
conoscenza più personale e diretta della propria fede. Dante vi individua un
omaggio, un servizio particolare a Dio: «... peregrini le genti che vanno
nel servigio...» (14).
Fig. 2 - Pistoia, Pieve di Sant’Andrea: I Magi;
bassorilievo dell’architrave del portale mediano;
seconda metà del XIII secolo.
Gli angeli erano invocati per ottenerne il sostegno e la guida: sono frequenti le immagini che li ritraggono mentre soccorrono il pellegrino afflitto da tentazioni o in pericolo, oppure gli indicano la via da percorrere.I pellegrini, nelle loro preghiere, invocavano l’aiuto della SS.Trinità, della Madonna, degli angeli e dei Santi, ma tra questi ve ne erano alcuni cui ricorrevano più frequentemente o perché erano presenti nella loro devozione personale o perché erano venerati nel luogo di arrivo o perché erano stati anch’essi pellegrini; a loro chiedevano la grazia di compiere il viaggio, di aiutarli nel cammino e di liberarli dai pericoli e dalle tentazioni. Lungo le vie vi sono spedali intitolati ai più venerati e chiese, pievi, cappelle e oratori che hanno bassorilievi e affreschi che li raffigurano.Vi erano santi tipici di una via, inizialmente sconosciuti altrove, ma per il fatto che alcuni tratti erano percorsi da pellegrini che andavano o venivano da mete diverse, si ebbe una comunanza di venerazioni.
L’Arcangelo Michele era oggetto di particolare venerazione: il
suo nome, che significa “Chi è come Dio?”, e il suo intervento a capo delle
Milizie celesti, gli avevano dato il titolo di difensore per eccellenza delle
anime dalle insidie di Satana. La diffusione del suo culto fu anche favorita
del fatto che, presso i Germani, esisteva una divinità rappresentata come un
giovane guerriero, alla cui figura fu sovrapposta quella dell’Arcangelo;
divenne il protettore del popolo dei Longobardi, che, nei loro possedimenti
fecero costruire chiese e oratori intitolandole a lui.
I Magi, i re che, pellegrini, erano venuti dall’Oriente ad
adorare Gesù Bambino e per primi ne avevano riconosciuta la regalità, godevano
di una venerazione particolare: la scena dell’Adorazione dei Magi, già presente
negli affreschi delle Catacombe e nei rilievi dei sarcofagi paleocristiani,
decora molte chiese che si trovano lungo le vie di pellegrinaggio, come, per
esempio, a Talciona, presso Poggibonsi o a Pistoia nella Pieve di Sant’Andrea [fig.
2].
---
14
Dante: “La Vita Nova”, 803.
Fig. 3 - La Madonna con il Bambino, San Giorgio e
Sant’Antonio Abate; National Gallery di Londra.
|
I pellegrini invocavano tutti gli Apostoli, ma in particolare
San Pietro e San Paolo, di cui avrebbero venerato le reliquie arrivando a Roma.
Sant’Antonio Abate visse dalla metà del sec. III all’anno 356, e passò molti
anni come anacoreta nel deserto della Tebaide, spostandosi per andare a
confortare e sostenere gli eremiti più giovani; poco dopo la sua morte,
Sant’Anastasio di Alessandria, che in gioventù era stato suo discepolo, ne
descrisse la vita, mettendo in evidenza le sue lotte vittoriose contro le
tentazioni e la sua capacità di liberare le anime oppresse dal demonio.
Durante il Medio Evo, alla sua figura furono sovrapposte delle
leggende, che lo vedevano come liberatore di anime dal fuoco dell’inferno e
dotato di poteri straordinari. L’iconografia più antica lo descrive come un monaco
dalla lunga barba, vestito di tunica e mantello, con un bastone in mano e in procinto
di mettersi in viaggio; più tardi fu rappresentato con accanto un maiale, in
cui, secondo alcune credenze, si sarebbe rifugiato il demonio, che aveva
scacciato da un ossesso. La diffusione del suo culto fu forse favorita anche
dal fatto che, nel periodo della cristianizzazione, presso i Celti la figura di
Sant’Antonio Abate, accompagnato da un suino, fu sovrapposta a quella di una
divinità celtica, il dio Lug, rappresentato con un cinghiale tra le braccia (15);
in numerosi dipinti dei secoli XV e XVI, il Santo è raffigurato con un
cinghiale ai piedi, come per esempio nel dipinto del Pisanello [v. fig. 3] o
del Moretto(16). Nelle Alpi Occidentali la devozione per questo santo aumentò
notevolmente da quando, nel sec. XI, la chiesa di Saint-Antoine-de-Viennois(17),
ne custodì le reliquie. I pellegrini lo invocavano come taumaturgo e come
valido aiuto contro le tentazioni del demonio.
15
Questa è l’opinione di alcuni studiosi, tra cui Margarethe Reimschneider: Lug
era figlio della Gran Madre celtica a cui, come a Cerere, erano consacrati i
cinghiali e i maiali; era il dio che risorgeva, assicurando la resurrezione
della luce, della natura, garantendo fecondità e nuova vita.
16
Nei dipinti, la figura di Sant’Antonio è spesso associata al fuoco, che può
essere in una mano, o ai piedi o sullo sfondo; v. la tela di Alessandro
Bonvicino, detto il Moretto, che raffigura Sant’Antonio con una fiamma sulla
mano sinistra (Santuario della Madonna della Neve ad Auro, presso Brescia);
nelle rappresentazioni delle “Tentazioni di Sant’Antonio”
eseguite
dai Fiamminghi, spesso sullo sfondo ardono dei fuochi inquietanti. Il 17
gennaio, giorno in cui la Chiesa ne celebra la festa, si benedicono gli animali
e si invoca la protezione su di essi e in molti luoghi, la sera precedente,
vengono accesi dei falò. Queste usanze possono essere interpretate come un
ricordo di antichi riti precristiani che si svolgevano all’inizio dell’anno e
che avevano la funzione di purificare gli uomini, gli animali, i campi, di
propiziarne la fertilità e la fecondità:
presso
i Romani, a gennaio, si sacrificava una scrofa gravida a Cerere, si offriva del
farro e si inghirlandavano gli animali adoperati per il lavoro dei campi;
presso i Celti, la sera precedente l’inizio dell’anno, che per noi corrisponde
al 1º novembre, per esorcizzare la lunga notte invernale, per propiziare il
ritorno della luce e il risveglio della natura si bruciavano cataste di legna;
con il fuoco, di cui è indubbia la funzione purificatrice, si intendeva anche
bruciare quanto restava del vecchio anno, compresi i mali e le malattie. La
collocazione della festa di S.AntonioAbate all’inizio dell’anno può aver trasferito
sulla sua figura usanze precristiane proprie di questo periodo.
17
Verso l’anno 635, in seguito all’occupazione araba dell’Egitto, le reliquie di
Sant’Antonio Abate furono spostate a Costantinopoli. Nel sec. XI il nobile
Jocelin, signore di Chateau Neuf, le ottenne in dono dall’imperatore di
Costantinopoli e le portò nel Delfinato; nel 1070 il nobile Guigues de Didier
fece costruire nel villaggio di La Motte, presso Vienne, una chiesa in cui
vennero traslate. Attualmente le reliquie del Santo si trovano presso la
cattedrale di Arles.
San Cristoforo, la cui vicenda è ora ritenuta leggendaria, era
il santo invocato dai viandanti e dai pellegrini che si accingevano ad
attraversare un corso d’acqua: spesso, vicino ai fiumi e ai torrenti, vi sono
cappelle e chiese le cui pareti sono ornate dalla sua figura gigantesca che ha
sulle spalle un bambino.
Santo Domingo de la Calzada(18), visse nel secolo XI; era un
giovane pastore della Rioja, una regione situata nel Nord della Spagna e, dopo
una prima educazione religiosa, entrò nel famoso Monastero di San Milàn de la
Cogolla, dove fu ordinato sacerdote. Poco dopo, si ritirò presso il fiume Oja,
dove visse come eremita, soccorrendo i pellegrini in cammino verso Compostela; per
la loro accoglienza fece costruire uno spedale ed una cappella intitolata alla
Santa Maria; si adoperò per il ripristino del tratto della via romana vicino a
Najera e per la costruzione di ponti, il primo dei quali fu sul fiume Oja. Fu
ritenuto santo e a lui ricorrevano soprattutto i pellegrini in viaggio sul
“Camino”.
San Giacomo Maggiore fu testimone dei più importanti miracoli
compiuti da Gesù, della Trasfigurazione e del suo arresto nel Getsemani. Fu il
primo degli Apostoli a subire il martirio,
avvenuto intorno all’anno 41, per volere del re Erode Agrippa. La
sua tomba, a Compostela, fin dal Medio Evo, è stata la meta di uno dei tre
“Pellegrinaggi Maggiori”; i pellegrini, un tempo, per raggiungerla, dovevano
viaggiare per molti mesi, attraversando lande desolate, luoghi impervi, regioni
infestate da briganti o abitate da popolazioni incivili. Giungevano ai confini
del mondo allora conosciuto e, come attestazione della meta raggiunta, dalle
spiagge dell’Atlantico riportavano la conchiglia galiziana, con la quale
ornavano i mantelli ed i cappelli. Su tutte le vie di pellegrinaggio vi sono
testimonianze della sua venerazione e, sul Camino verso Santiago, sono molti i
luoghi in cui si ricordano i miracoli, avvenuti in suo nome. La sua
apparizione, vestito da combattente a cavallo, durante la battaglia di Clavijo,
dell’anno 840, lo fece assurgere come campione della lotta secolare contro i
Mori e protettore della nazione spagnola.
San Leonardo di Noblat nacque presso Orleans verso la fine del
sec.V, da una famiglia di nobili franchi, che aveva stretti legami con i re
Merovingi; in giovane età rifiutò gli agi, lasciò la corte e andò nel monastero
di Micy, dove fu consacrato diacono; verso il 520 si ritirò nella foresta di
Pauvin, nel Limosino, dove divenne eremita e costruì un oratorio su di un
terreno donatogli dal re Clodoveo(19); ebbe molti seguaci, attirati dalla
santità della sua vita; dopo la morte, avvenuta verso il 650, a causa del gran
numero di pellegrini che accorrevano a venerare le sue spoglie, il primitivo
oratorio fu sostituito da una chiesa. Noblat divenne punto di transito dei pellegrini
del Nord della Francia in viaggio per Compostela. Fu ritenuto il patrono delle
partorienti e dei prigionieri; nel 1106 vi giunse Boemondo di Antiochia, della
famiglia degli Altavilla, che, imprigionato per tre anni dai Musulmani, era
stato liberato, secondo la sua testimonianza, in seguito alle preghiere rivolte
a S.Leonardo. Per merito dei Normanni, S.Leonardo fu venerato in tutta
l’Europa; il suo culto si diffuse sulle vie di pellegrinaggio, dove sorsero numerosi
spedali intitolati a lui, come, per esempio, in Italia, uno presso Lucca, a
Capannori, e un altro a Viterbo.
Santa Maria Maddalena, colei che seguì Gesù sul Calvario,
assistette alla sua Deposizione e fu la prima persona cui il Risorto si mostrò,
secondo una tradizione medievale, per sfuggire alla persecuzione di Erode
Agrippa, con altri discepoli salì su di una barca che, dopo aver attraversato il
mare Mediterraneo, approdò sulle coste paludose della Provenza. Qui, ritiratasi
in una grotta, visse trent’anni come eremita, diffondendo il Vangelo nella
regione. Dopo la sua morte, erano molti i pellegrini che si recavano alla
grotta di Beaume, dove si diceva che fosse vissuta e che vi si trovassero le
sue reliquie.
18
“Calzada”, carreggiata, strada in genere.
19
Noblac, da nobilis locus, diventò
poi Noblat.
Nella zona, verso la metà del sec. XIII, in suo onore fu
costruita la chiesa gotica di Saint-Maximin- de-la-Sainte-Beaume, a cui
accorrevano moltissimi pellegrini; altro luogo di culto a lei intitolato, fu la
basilica romanica, costruita nel secolo XI, nella Borgogna, a Vézelay, accanto
all’abbazia cluniacense, che divenne meta e punto nodale di molti
pellegrinaggi.
San Martino di Tours nacque verso l’anno 316 in Pannonia,
l’attuale Ungheria; si trasferì in Gallia per adempiere al servizio militare ed
ebbe il compito di ispezionare di notte, a cavallo, i posti di guardia della
guarnigione; l’episodio del mantello tagliato per soccorrere un mendicante seminudo
e riprodotto in molti affreschi, oscura in parte la santità della sua vita, la
sua opera di evangelizzazione della Gallia e la fondazione del monastero di
Tours. Dopo la sua morte il suo culto si diffuse non solo in Francia, dove vi
sono oltre cinquecento località che portano il suo nome, ma in tutto
l’Occidente. La città di Tours rappresentò per secoli il punto in cui molti
pellegrini delle regioni dell’Europa Nord-Occidentale si riunivano, prima di
affrontare il viaggio verso Roma o Compostela. Nelle vicinanze del suo
monastero furono fondati vari spedali e, lungo le vie di pellegrinaggio, sono
numerose le chiese e le strutture di accoglienza che hanno il suo nome.
San Nicola, nato nella Licia, una regione dell’Asia Minore,
nella seconda metà del secolo III, da genitori cristiani, si distinse per la
pietà e l’attenzione per i deboli ed i fanciulli poveri; divenuto Vescovo di
Myra, si oppose con forza all’arianesimo. Dopo morte, la sua venerazione si
diffuse in tutta la cristianità e la sua tomba divenne meta di molti
pellegrinaggi; nell’anno 1087, dopo la conquista di Myra da parte dei Turchi
Selgiucidi, le sue reliquie vennero trafugate e trasportate per mare a Bari; si
racconta che durante la navigazione si verificò una grave tempesta, che si
placò quando i marinai pregarono il Santo di salvarli. Divenne il protettore
dei naviganti ed era invocato dai pellegrini che, per compiere il viaggio,
dovevano attraversare il mare. Sono molte le chiese e gli altari dedicati a lui
e che spesso sono ornati dagli ex voto che riproducono imbarcazioni tra le onde
del mare in tempesta.
San Pellegrino, cui sono intitolate varie località situate
vicino a dei passi montuosi, è una figura leggendaria, il cui culto è radicato
in Garfagnana(20); qui si racconta di un pellegrino che, di ritorno da
Gerusalemme, fosse divenuto eremita e che aiutasse chi, passando in quelle
zone, dovesse superare il valico dell’Appennino. Si dice che l’ospizio a lui
intitolato, e di cui rimangono le strutture, sia stato fondato nel sec. VII, ma
le menzioni della omonima chiesa e dello spedale risalgono al sec. XII.
San Rocco visse nei decenni intorno alla metà del sec.XIV;
nacque da una famiglia agiata di Montpellier; perse i genitori in giovane età
e, distribuiti i suoi beni ai poveri, partì in pellegrinaggio verso
Roma.Arrivato in una città in cui infuriava la peste, si prodigò per curare gli
ammalati; ripreso il cammino, giunse a Roma, dove si fermò per tre anni, poi riprese
il viaggio di ritorno. Passò per Piacenza, dove la peste mieteva vittime;
curando gli appestati, contrasse egli stesso la malattia; cacciato dalla città,
si ritirò in una grotta, in un bosco, nutrendosi del pane che un cane gli
portava ogni giorno. Quando guarì, riprese il viaggio di ritorno, ma, giunto
presso Voghera, fu arrestato e, ritenuto una spia, fu gettato in carcere dove
morì tre anni dopo, forse nel 1379.Le sue reliquie, dal 1485, si trovano nella
città di Venezia, che lo venera come compatrono; è rappresentato vestito da
pellegrino, con una mantellina corta sulle spalle, chiamata poi da lui
“sanrocchino” o “pellegrina”; sulla gamba ha una vistosa piaga e gli è vicino
un cane. I pellegrini lo invocano come guaritore della peste e come esempio di
dedizione caritatevole.
Graziella Bava
20
Precisamente a S. Pellegrino dell’Alpe, frazione del Comune di Castelnuovo di
Garfagnana, situato a m. 1.524, su di una dorsale tra le valli dei torrenti
Castiglione e Sillico.
106
VERSO
IL SOMMEILLER
Settembre era alla fine, ma i colori attorno a Bardonecchia
stentavano a mutare. Certo, quell’interminabile periodo di siccità aveva
indorato lievemente la maggior parte dei prati; ma non era l’autunno, bensì un
indizio dell’anomalo protrarsi dell’estate.Tutti, sotto sotto, eravamo felici
di quel tepore; soltanto gli sciatori si preoccupavano per la sorte della
stagione invernale, se quel clima anomalo fosse continuato.
«I cespugli si erano tinti di rosso e giallo, colori
tanto garbati da sembrare irreali».
(foto G. Alimento)
|
In realtà bastava portarsi in alto per constatare che il ciclo
delle stagioni continuava. In quel periodo i fuoristrada che salgono dal
rifugio Scarfiotti verso il Sommeiller non sono molti; quindi percorrere a
piedi la carrareccia è piacevole e per nulla faticoso. Tornante dopo tornante,
la cascata scompariva alla vista per ricomparire dopo ogni curva; tuttavia
continuava a risuonare anche se in tono minore rispetto a primavera, quando il
flusso è tanto impetuoso da sciogliersi in mille vapori impalpabili e quasi
irreali. Anche il mondo vegetale si adeguava al flusso rallentato delle acque.
I cespugli si erano tinti di rosso e giallo, colori tanto garbati da sembrare
irreali: il rame patinato e l’oro delle icone. Senza rendermene conto, stavo
fiancheggiando un giardino creato per il riposo della mente, cui veniva
accennato un mondo diverso.
Tutto il contrario rispetto a giugno, quando i rododendri
vibrano di rosso e fucsia; come se si ammantassero di forza e impeto, carità e
passione, eleganza e seduzione; di tutti i significati di quel colore. Contemporaneamente,
fra il verde delle praterie si insinuano macchie sempre più estese di giallo;
un colore ambiguo che può rappresentare la gioiosità dorata del sole come la tristezza
solitaria di una quarantena. Dunque la stagione calda riassume le bellezze del
vivere così come le sue contraddizioni: gioia e dolore, salute e malattia,
impegno e relax, lealtà e inganno. Incuranti di tutto ciò, gli insetti vengono
attratti e coinvolti da questa vitalità imperiosa, mentre con l’avanzare della
stagione il loro ronzio si dirada.
Il periodo autunnale facilita la percezione dei monti come
limite estremo della terra e preludio del cielo. Tutto, all’intorno, era
consapevole che il congedo dall’estate si avvicinava. Persino le montagne, che
appaiono fortezze insensibili all’inevitabile alternarsi delle stagioni, erano
in attesa del mutamento. Saldamente fondate su levigate rocce glaciali, anche
loro sapevano che tra breve avrebbero attutito il manto rossastro, verde,
grigio e ocra per adeguarsi al bianco uniforme dell’inverno. D’altra parte solo
pochi giorni prima avevo avvistato in zona alcune formazioni di ghiaccio, forme
tanto astratte da rappresentare l’uscita da questo mondo.
«Lungo il crinale opposto ancora assolato,
una mandria rientrava pascolando su un
tappeto bruno, dorato e in parte ancora
verdeggiante». (foto G. Alimento)
|
Già coperte di neve, le cime che sovrastano Pian dei Frati verso
i passi Galambra e Fourneaux si stavano staccando dalla terra, dai suoi colori
e dai relativi suoni. Mentre le nuvole circostanti apparivano angeli solleciti
a facilitare il loro elevarsi; forse per dissolvere la loro materia nel cielo
blu?
D’altra parte persino la roccia insensibile aspirava al
misticismo: non lontano, uno spunzone presentava le fattezze di un busto in atto
di preghiera. Eppure, qualche marmotta fischiava ancora per riportarmi alla
realtà.
Di ritorno, verso sera, il vallone dello Scarfiotti è riapparso
all’improvviso; mentre il frastuono della cascata ha trovato eco nel tintinnio
senza fine dei campanacci. Lungo il crinale opposto ancora assolato, una
mandria rientrava pascolando su un tappeto bruno, dorato e in parte ancora verdeggiante;
incerto se attendere la prima neve o un’ulteriore proroga dell’estate.
«Domani iniziamo a scendere a valle – confidò il pastore –, qui
la stagione è finita».
Più in là, verso il lago di Rochemolles, le rughe della montagna
erano velate da un’impalpabile foschia; come se una mano autunnale volesse
lenire quei solchi, che la neve avrebbe cancellato.
Guido Alimento
* * *
PRIMAVERA IN VALLE STRETTA
Foglie d’argento
sulle betulle giovani
spolverate di luce
nel plenilunio di primavera.
Profumo d’acqua
e d’erba fresca di rugiada
girotondo di farfalle nel grande vuoto.
Genziane e ranuncoli
sui prati teneri
respirano il vento
che scivola nelle fessure delle rocce
sulla neve quasi sciolta
al bacio dei sole.
Maria Fiorenza Verde
SI
DICE CHE INVECCHIANDO
SI
PENSA AL PASSATO...
Nel mio passato c’è Susa, dove sono nata e dove vivo tuttora, ma
c’è anche tanto Bardonecchia. Bardonecchia con la sua bella conca entra nel
cuore di chi la frequenta. Ha sempre emanato un suo fascino che, a parte quello
immutabile della natura in cui è immersa tra splendidi monti, è cambiato con il
passare del tempo, dall’atmosfera un po’ belle époque del primo Novecento alla
magia bianca del turismo sciistico, all’attrattiva culturale culminante in
spettacoli particolarmente apprezzati che hanno caratterizzato gli anni più
recenti.
La Bardonecchia di oggi è ben diversa da quella che ricordo e
che certamente rammentano le persone che, come me, ahimé, non sono più giovani.
La mia prima fotografia a Bardonecchia risale al mese di aprile
del 1942. Riporta a quei tempi la presenza dei tronchi ammonticchiati in gran
numero. Erano stati portati a valle dai boschi facendoli scivolare nei
“ramblés”, i lunghi solchi concavi formatisi dall’uso lungo i pendii, oppure
sulla neve, legati due o tre insieme ad una slitta trainata da una coppia di
muli. Il larice era talmente diffuso che il nome della borgata Melezet si
collega a “meleze”, che in francese e nel dialetto locale significa “larice”.
Con il larice si facevano anche le grondaie che sono ancora visibili in alcune
vecchie case e al Museo situato in Borgovecchio.
Questa foto e altre seguenti furono scattate dalla mamma per
inviarle al babbo che si trovava in Africa sul fronte occidentale a combattere
con la mitica “Ariete” nel deserto, nell’inferno di fuoco conclusosi con la
battaglia di El Alamein. Non senza emozioni ricordo queste immagini e leggo le
parole affettuose che la mamma scriveva al babbo, parlando di noi bimbi, con il
desiderio di vedere la famiglia riunita, facendolo partecipe, pur in modo così
irreale, della nostra crescita. La mamma, sebbene angosciata dalle notizie
sempre più tragiche della guerra dov’era papà, con noi bimbi appariva
sorridente e serena. Eravamo a Bardonecchia perché allora la conca era in pace,
dopo le poche settimane di combattimenti con la Francia nel giugno 1940 e prima
della presenza dei Tedeschi durante la ritirata del 1944 con l’avanzata degli
alleati. Dei bombardamenti conservo tre fotografie [2.3.4.] riguardanti
le case di Borgovecchio.
Nella foto 4, con me viene fotografata anche la mamma. È
in pineta e sta lavorando a maglia, perché allora, come poi ancora per tanti
anni, con i ferri si confezionavano maglie, berretti, sciarpe, guanti e – con
quattro appositi ferri più corti – calze e calzettoni.
Nella foto 5 che mi ritrae fra le margherite la veduta è
differente da oggi, tranne la villetta che è uguale. Il campanile in fondo
appartenente alla chiesa parrocchiale di S. Ippolito appare diverso
dall’attuale, non avendo ancora la guglia “a cipolla”voluta dal compianto
monsignor Bellando.
Il prato è all’inizio di ViaMedail dalla parte di
Borgovecchio.Vicino c’era un pilone dedicato alla Madonna del Rocciamelone,
visibile nella foto 6.Fu distrutto durante la guerra assieme al ponte,
che venne ricostruito. Borgovecchio e Borgonuovo erano ben distinti e Via
Medail passava tra i prati, un tempo coltivati a canapa per ottenere un tessuto
molto usato. Ora i due borghi sono uniti dai condomini.
Ai “miei tempi” le uniche costruzioni erano da un latoVilla Guida, tuttora esistente, l’elegante Albergo Savoia che è sostituito da un condominio, e le due Case Littorio. La foto 7 è datata 25-6-1933 per una ricorrenza a me sconosciuta. Dall’altra parte c’erano la Villa Ginestra del maestro Blanc, autore di “Giovinezza” e di “Malombra”[foto 8] e l’hotel più lussuoso di Bardonecchia, il Palazzo Frejus, che, trasformato all’interno in alloggi, conserva lo stesso aspetto esteriore con il viale alberato d’accesso. Dopo la guerra ne era direttore il signor Giovanni Tripp che, come conferma il nome, non era italiano. Era tedesco, nato ad Amburgo, la città che nella sua poesia intitolata “Io ti amo, Italia” definisce “grande fiera città sull’Elba”. Al nostro paese chiese asilo “tanti anni or sono, nell’ora della tempesta d’acciaio, quando tutto crollò”. Versi che lasciano percepire periodi tragici. Chissà quali vicissitudini lo portarono nella nostra Valle! Sposò la signora Peppina,maestra dimusica e di canto. In una poesia ricorda l’incontro con colei che sarà sua moglie, incantato dalle mani che volavano seducenti sulla tastiera. Amava Bardonecchia e la sua natura, che cantò in tutte le stagioni, rivelando anche la sua profonda religiosità. Certamente lo rammenta don Paolo Di Pascale, attuale Parroco delle Frazioni di Bardonecchia, con cui disquisiva sulla storia della conca.
Il proprietario del Palazzo Frejus ospitava ogni anno un gruppo di pittori. Fra tutti mi piace ricordare Umberto Lilloni, un grande artista che non trasse guadagni dalle sue belle opere, vivendo semplicemente. Venivano organizzate feste a Capodanno, a Ferragosto e a Carnevale a cui i villeggianti partecipavano in smoking e le donne con lunghi abiti di seta e ballavano alla musica di orchestrali venuti appositamente dalla città. Io partecipai ad un carnevale dedicato ai bambini [foto 9].
Ai “miei tempi” le uniche costruzioni erano da un latoVilla Guida, tuttora esistente, l’elegante Albergo Savoia che è sostituito da un condominio, e le due Case Littorio. La foto 7 è datata 25-6-1933 per una ricorrenza a me sconosciuta. Dall’altra parte c’erano la Villa Ginestra del maestro Blanc, autore di “Giovinezza” e di “Malombra”[foto 8] e l’hotel più lussuoso di Bardonecchia, il Palazzo Frejus, che, trasformato all’interno in alloggi, conserva lo stesso aspetto esteriore con il viale alberato d’accesso. Dopo la guerra ne era direttore il signor Giovanni Tripp che, come conferma il nome, non era italiano. Era tedesco, nato ad Amburgo, la città che nella sua poesia intitolata “Io ti amo, Italia” definisce “grande fiera città sull’Elba”. Al nostro paese chiese asilo “tanti anni or sono, nell’ora della tempesta d’acciaio, quando tutto crollò”. Versi che lasciano percepire periodi tragici. Chissà quali vicissitudini lo portarono nella nostra Valle! Sposò la signora Peppina,maestra dimusica e di canto. In una poesia ricorda l’incontro con colei che sarà sua moglie, incantato dalle mani che volavano seducenti sulla tastiera. Amava Bardonecchia e la sua natura, che cantò in tutte le stagioni, rivelando anche la sua profonda religiosità. Certamente lo rammenta don Paolo Di Pascale, attuale Parroco delle Frazioni di Bardonecchia, con cui disquisiva sulla storia della conca.
Il proprietario del Palazzo Frejus ospitava ogni anno un gruppo di pittori. Fra tutti mi piace ricordare Umberto Lilloni, un grande artista che non trasse guadagni dalle sue belle opere, vivendo semplicemente. Venivano organizzate feste a Capodanno, a Ferragosto e a Carnevale a cui i villeggianti partecipavano in smoking e le donne con lunghi abiti di seta e ballavano alla musica di orchestrali venuti appositamente dalla città. Io partecipai ad un carnevale dedicato ai bambini [foto 9].
Indossavo un abito della mia bisnonna con Gianpiero Marra. Con Giampi, la sua sorella gemella,
mio fratello e l’amica Serra (mancata giovane in un incidente stradale)
partecipammo ad un altro carnevale vestiti da olandesi [foto 10].
Seduto ai nostri piedi è il signor Corrado Marra, che era un
uomo di spirito, molto attivo e con una bella famiglia: la sposa e quattro
figli.
All’Hotel Frejus si incontravano anche i Rotariani del “Club Susa
Valsusa”, per lo più nel mese di agosto per le loro riunioni conviviali. Tra i
soci presenziava Federico Marconcini, integro uomo politico, deputato e
senatore, con incarichi di rilievo di carattere internazionale e professore
all’Università di Torino e di Milano. Era proprietario del castello di Bruzolo,
dove avvenne l’importante Trattato del 25 aprile 1610 concluso tra Carlo
Emanuele I duca di Savoia e la Francia. Del lodevole impegno del senatore Marconcini
scrisse Vittorio Morero nel libro dedicato al “Rosaz Vescovo dei poveri” del
1991.
Non possiamo non soffermarci sul nostro Beato Vescovo segusino
di cui proprio nel 2016 ricorre il venticinquesimo della Beatificazione,
avvenuta a Susa il 10 luglio durante la visita del Papa Giovanni Polo II. Le
Suore Francescane di Susa hanno festeggiato il loro Fondatore con una
Celebrazione Eucaristica di ringraziamento presieduta, in Cattedrale, dal
Cardinale Giuseppe Bertello e concelebrata dal Vescovo Mons. Alfonso Badini
Confalonieri.
Nel 1901 Mons. Rosaz inviò tre delle sue suore a Bardonecchia
dove rimasero, stimate ed amate, fino al 1991 quando dovettero andare via per
l’esiguo numero di vocazioni. Sono ricordate per l’assistenza ai malati e per
la scuola materna. A Bardonecchia erano venute nel 1954 anche le Suore del
Cenacolo Domenicano. Risiedevano nella Villa Rigoli, ora “Residence il Cenacolo”,
in Via Medail. Il loro apostolato era rivolto soprattutto alla scuola. Ricordo
una figura austera e affabile, credo che fosse la Superiora, Madre Piera
Malinverni, di cui mons. Bellando scrisse che «parla ancora in tutti quei cuori
che guardandola vedevano un po’di cielo, facendo un balzo nel divino». Nel
giardino del Cenacolo era stato posto il gruppo delle statue della Salette che
ora è situato a lato della chiesa parrocchiale.
Del 1942 ho una fotografia [n. 11] con la mamma sulla
strada che conduce a Millaures che
non era come l’attuale, asfaltata, ma stretta e sconnessa. È ben visibile nella
foto [n. 12] dove si vede come le patate venivano portate da Millaures a
Bardonecchia chiuse in grossi sacchi legati a slitte trainate da muli. La
produzione era abbondante ancora nel dopoguerra. Poi diminuì finché gli
abitanti le produssero solo per la propria famiglia.
Nella foto 13 la guerra è finita da alcuni anni,
io sono cresciuta e mi diverto a sciare nei campi, senza piste battute
e senza maestro. Non si usavano
ancora i piumini, le tute e gli scarponi aerodinamici. Indossavo
maglione, berretto, guanti e calzettoni confezionati dalla mamma e gli scarponi
che, prima di essere riposti alla fine dell’inverno, dovevano essere ingrassati
per non ritrovarli talmente duri da non poterli più usare.
Non si conoscevano i mezzi di risalita attuali. Dal Campo Smith
si raggiungeva il Pian del Sole con lo slittone trainato da un argano. Il
signor Paride Bruzzone, conosciuto a Bardonecchia perché villeggiante abituale
e per il suo interesse per il Museo, in un suo libro dedicato ai primi anni del
dopoguerra scrive che era andato con la moglie a vedere un film americano
ambientato in montagna e fu stupito nel vedere un impianto di risalita a fune,
la “seggiovia” non ancora realizzata in Italia! Quanto mi divertivo! A costo
zero, compresi gli sci che erano stati di mio fratello.
Passati gli anni, ormai adulta, ebbi una maestra di sci, ben
nota a Bardonecchia: la signorina Laura Bizzarri. D’estate con la sua robusta
macchinetta si saliva oltre Rochemolles fino al suggestivo pianoro delle Grange
du Fond contornato da monti maestosi e allietato da una graziosa cappelletta
dedicata alla Madonna degli Angeli, da una cascata, da pascoli ridenti e piccoli
laghetti e dal Rifugio Scarfiotti, punto di partenza per le escursioni alle
cime più alte.
Quindi si affrontava una serie di tornanti per superare il forte
dislivello; si incontravano ancora dei piani e poi altre curve e si giungeva al
ghiacciaio del Sommeiller a più di 3.000 metri, dotato di skilift. La signorina
cercava di migliorare il mio “spassaneve” (un modo di sciare allora in uso, ora
non più) facendomi zigzagare lungo tutta la pista. Poi facevamo una sosta al
Rifugio per mangiare polenta e pollo.
Con il tempo il Rifugio è stato distrutto da una valanga e il ghiacciaio,
come quello del vicino Galambra, non esiste più. Ma rimane il lago incastonato fra
i monti e battuto dall’aria frizzante delle alte quote.
Giulia Tonini