Due Santi in una volta
Quando Bardonecchia ha incontrato San Giovanni
Paolo Il e il Beato Alvaro Del Portillo
«La Chiesa e il mondo hanno bisogno del grande
spettacolo della santità, per bonificare, con il suo buon profumo, i miasmi dei
tanti vizi ostentati con arrogante insistenza». Queste parole, pronunciate dal
Cardinale Angelo Amato, rappresentante del Papa Francesco alla Beatificazione
di Mons. Alvaro Del Portillo, aiutano a cogliere il grande bene che le Beatificazioni
e le Canonizzazioni producono nella Chiesa.
Possiamo dire che per la Parrocchia di
Bardonecchia, dove la santità è di casa, questo vale particolarmente, grazie
all’intreccio provvidenziale con diversi Santi, già riconosciuti o ancora in
via, realizzatosi in circostanze che hanno meritato di essere ricordate. Siamo
lieti di poterne aggiungere ancora a quanti già ricordati sulle pagine di
questo Bollettino.
LA PARROCCHIA DI
BARDONECCHIA E I DUE NUOVI SANTI
Sono due grandi figure che, in qualche modo,
toccano Bardonecchia: quella di Giovanni Paolo II, canonizzato il 27 aprile
2014, e del Vescovo Alvaro Del Portillo, Prelato dell’Opus Dei, beatificato il
27 settembre 2014 a Madrid.
Sia l’uno che l’altro hanno avuto con Bardonecchia
un trait d’union che sta a noi mantenere sul filo della memoria e più ancora a
livello della devozione spirituale, perché i Santi ci sono dati per
accompagnarci e per intercedere per noi presso il Signore nella cui gloria risplendono.
Un filo “quasi sacramentale” ci lega a questi due
eletti del Signore sin dal 12 giugno 1983, Anno Santo straordinario della Redenzione,
giorno della mia Ordinazione sacerdotale, allora giovane di 23 anni,
appartenente alla parrocchia di Bardonecchia, consacrato con altri 73 giovani presbiteri
provenienti da diversi Paesi del mondo e dai vari Continenti, di cui ero il più
giovane. Molti bardonecchiesi vennero a Roma in quel giorno con due
autopullman, in treno, con autoveicoli e in aereo. Tutti presenti nella
Basilica di S. Pietro in Vaticano, sin dal primo pomeriggio a rappresentare la
“perla delleAlpi” per un dono così prezioso e raro quale quello di un nuovo
sacerdote. E in quel pomeriggio, in Basilica ci fu questo “contatto” con il
nuovo Santo ed il nuovo Beato che possono entrare a ragione nel prezioso e già
ricco carnet degli amici del cielo della nostra parrocchia di S. Ippolito.
Del Santo Pontefice polacco i nostri pellegrini
hanno goduto la celebrazione del solenne pontificale, la profonda omelia,
alcuni hanno ricevuto la Comunione dalle sue mani, tutti sono stati da lui
benedetti ed alcuni sono riusciti a vederlo particolarmente vicino e fin’anche
a toccarlo fisicamente al suo passaggio.
In particolare poi ed in rappresentanza di tutti,
due bardonecchiesi, Gemma Rousset Ferrero e Piero Rappelli hanno presentato i
doni all’offertorio offrendo al Pontefice anche una scultura delMelezet, oltre
al miele ed altri prodotti locali e sono stati accolti dal Papa santo al87 l’altare
della Confessione e intrattenuti con lo scambio di qualche parola. Insomma si
sono intrattenuti con un Santo e a lui hanno parlato e presentato la parrocchia
di Bardonecchia.
Il Beato Alvaro Del Portillo, invece, è stato visto
al fianco del nostro Parroco mons. Bellando e intorno a San Giovanni Paolo II
al momento della grande preghiera consacratoria e poi per l’imposizione delle
mani su ognuno dei singoli ordinandi. Fu la prima volta infatti che durante una
cerimonia di Ordinazione sacerdotale anche un semplice Parroco era ammesso a questo
ruolo, accanto ai rappresentanti dei Superiori dei Seminari, in tutto cinque
sacerdoti capeggiati proprio da Mons. Alvaro Del Portillo – che allora non era
ancora Vescovo.
Piero Rappelli e Gemma Rousset nel costume di Bardonecchia portano a San Giovanni Paolo II i prodotti tipici del paese. (foto L’Osservatore Romano)
Anche con il Beato Alvaro ci fu un breve contatto di alcuni bardonecchiesi, al termine della cerimonia, mentre cominciava a sciogliersi l’assemblea e il Prelato dell’Opus Dei, accompagnato da un nugolo di giovani studenti e professionisti e da altri sacerdoti della Prelatura, stava passando nel corridoio centrale della Basilica di S. Pietro per guadagnare l’uscita, e alcuni fedeli, vistolo anche con le insegne prelatizie – e confondendolo con un Vescovo – gli si avvicinarono per baciargli l’anello ed averne la benedizione. Mons. Del Portillo con grande cordialità e con un sorriso accattivante si intrattenne ascoltando volentieri ed incuriosito di Bardonecchia, del suo giovane sacerdote appena ordinato e del pellegrinaggio e rivolse alcune
parole molto amabili e piene di paterno affetto.
Fra loro Clelia Bellando ed Ubaldo Rigoli con la signora Bottigelli,Alberto
Bottigelli eMarida Tagliabue, Federico Pedullà ed altri ancora che rimasero
impressionati da questo bell’incontro.Anche se ancora non lo sapevano, quel
Prelato sarebbe diventato Beato.
LUCI E INSEGNAMENTI
Non è questo il luogo per entrare nelle biografie
dei due “nostri” personaggi, ampiamente diffuse, ci basta sollevare un po’ il velo
che ci riguarda. Nel contempo possiamo cogliere l’occasione per trarne qualche
spunto che ci aiuti nel nostro cammino di fede. I santi non s’incontrano mai
invano e non lasciano mai indifferenti. Per questo è necessario conoscerli un
po’ meglio, anche solo piluccandone qualche chicca.
Piero Rappelli e Gemma Rousset nel costume di
Bardonecchia portano a San Giovanni Paolo II i prodotti tipici del paese. (foto
L’Osservatore Romano)
SAN GIOVANNI PAOLO II
Di San Giovanni Paolo II è stato detto tanto. Un
grande “condottiero”, come disse Frossard.
Un “altro Mosé” lo definiva il nipote del Beato
Pier Giorgio Frassati, Jas Gawronski, giornalista e politico italiano, con il
titolo di una celebre intervista ottenuta dal Papa. Ciò che più colpiva in lui
era la spiritualità densa di preghiera che si respirava anche solo
avvicinandolo, per quanto uomo a tutto tondo, concreto, molto umano nel tratto
con le persone, simpatico, ironico e pronto alla battuta. Tutte le volte che lo
si avvicinava trasmetteva soprattutto qualcosa in più, diremmo di
soprannaturale che arrivava dritto all’anima delle persone. Fu così dall’inizio.
Tredici giorni dopo l’elezione con alcuni
collaboratori andò allaMentorella, Santuario mariano sopra Palestrina, nei
dintorni di Roma, che lui ben conosceva. Salendo l’ultimo tratto a piedi
domandò ai suoi accompagnatori: «Cosa è importante per il Papa nella sua vita,
nel suo ministero?». Ci furono varie risposte e suggerimenti: forse l’unità dei
cristiani, la pace in Medio Oriente, la distruzione della “cortina di ferro”, e altre cose. Ma fu lui Giovanni Paolo II a
concludere: «Per il Papa la cosa più importante è la preghiera!».
Colpisce particolarmente, fra i numerosi contributi
alla Causa di Beatificazione, la testimonianza dell’attuale Cardinale Coppa
(piemontese, di Alba) che racconta quanto visse nel 1997 quando era Nunzio
Apostolico in Repubblica Ceca e Giovanni Paolo II venne in
visita.
Card. Giovanni Coppa. |
Non ho più dimenticato quell’esile canto d’amore a
Cristo che il Papa, restando da solo in chiesa elevava a Gesù. Una canzone
d’amore».
Mi pare che la santità diWoitjla sia ben contenuta
in questi episodi della vita di questo gigante
della fede.
IL BEATO ALVARO DEL PORTILLO
Mons. Del Portillo non ha mai preteso di brillare
di luce propria, ma ha cercato di riflettere la luce divina, seguendo l’esempio
di San Josemaría Escrivá. Secondo il suo successore, l’attuale Prelato
dell’Opus Dei, il Beato è stato «un uomo, un sacerdote, un Vescovo pieno di gioia
al quale Dio diede tanti talenti». Tutta la sua vita è stata spesa nel
promuovere il grande valore della fedeltà: alla Chiesa, al Santo Padre,
all’Opus Dei e a San Josemaría. Chi prende in mano la sua biografia e la legge
troverà che fedeltà è la prima e l’ultima parola, oltre che la più ricorrente.
Un noto scrittore e saggista esperto di Santi, il p. Antonio Maria Sicari, ha
evidenziato come don Alvaro abbia «offerto una personificazione convinta e
convincente dell’equazione tra felicità e fedeltà, così ricorrente nella
predicazione di San Josemaría».
Nell’omelia tenuta nellaMessa di Beatificazione di
Mons. Alvaro, il Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle
Cause dei Santi, ne ha sottolineato l’umiltà. Ripeteva un consiglio che dava spesso
il Fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di San Giuseppe Calasanzio: «Se vuoi
essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi
essere santissimo, sii umilissimo». Non dimenticava nemmeno che era stato un
asino il trono di Gesù all’entrata in Gerusalemme. Anche i suoi compagni di
studi, oltre a rilevare la sua straordinaria intelligenza, ne mettono in
risalto la semplicità, l’innocenza serena di chi non ha alcun complesso di
superiorità nei confronti del prossimo. Riteneva come suo peggior nemico la
superbia. Un testimone afferma che era l’umiltà in persona (Positio I, p. 675).
Si trattava non di una miltà aspra,
appariscente, esasperata, ma amabile, gioiosa. La sua letizia derivava dalla
convinzione di non valere molto.
All’inizio del 1994, ultimo anno della sua vita
terrena, in una riunione disse: «Lo dico a voi e lo dico a me stesso. Occorre
lottare tutta la vita per giungere a essere umili.Abbiamo la scuola meravigliosa
di umiltà del Signore, della Santissima Vergine e di San Giuseppe. Dobbiamo
imparare. Dobbiamo lottare contro il proprio io che si alza costantemente come
una vipera, permordere. Ma siamo sicuri, se rimaniamo vicino a Gesù che è della
stirpe di Maria, ed è lui che schiaccerà la testa del serpente». Per lui
l’umiltà era la chiave per aprire la porta della santità, mentre la superbia
era il grande ostacolo per vedere e amare Dio. Diceva: «L’umiltà ci sottrae la
maschera di cartone, ridicola, che portano le persone presuntuose soddisfatte
di se stesse»
È una specie di consegna che fa il Beato Alvaro del
Portillo «Pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa» ai
bardonecchiesi di ieri e di oggi, radicata nell’incontro avuto con lui, ormai
31 anni fa, invitandoci ad essere santi come lui, vivendo una santità amabile, misericordiosa,
gentile, mite e umile.
Monsignor Claudio Iovine
12 giugno 1983: il Beato Alvaro Del Portillo impone le mani agli
ordinandi. Accanto a lui mons. Mani, Rettore del Seminario Romano, e mons. Bellando. (foto L’Osservatore
Romano)
GRAZIE AFRICA! – Sulla famiglia, da noi regna la confusione,
in Africa qualcuno ha idee chiare! I Vescovi del Ghana, riuniti in assemblea a
novembre scorso, hanno reso noto una dichiarazione limpidissima:
«L’insegnamento perenne e immutabile della Chiesa sulla famiglia è basato sulla
natura umanama specialmente sulla Scrittura e sulla Sacra Tradizione, secondo
cui Dio ha ordinato che il matrimonio sia tra un uomo e una donna, quando “Dio
li fece uomo e donna e li benedì”. Dio ha voluto ilmatrimonio aperto alla vita
“quando li benedì e disse crescete emoltiplicatevi” (Gn 1,27-28). Inoltre, Dio
ha voluto che ilmatrimonio sia indissolubile, con le parole di Gesù: “L’uomo
non separi ciò che Dio ha unito” (Mt 19,6)». Saranno Chiese “povere” di mezzi e
di “periferia”, ma non mancano di chiarezza. Grazie Africa! (da “Il TIMONE”, n.
139, p. 11)
Lotte di religione a Bardonecchia
Ricerca del Prof. Roberto Borgis gia edita sul blog al riferimento:
http://bardonecchiasantippolito.blogspot.it/2015/04/lotte-di-religione-bardonecchia-2014.html
Monumento al traforo del Fréjus a Torino
Articolo di Guido Ambrois già edito sul blog al riferimento:
Altra interessante ricerca del dott. Guido Ambrois
(tratta dall'ARCHIVIO STORICO della Parrocchia)
“Alcune
notizie della contabilità della Confraternita del Santissimo Sacramento”
edito sul Blog al riferimento:
Fratello lupo?
Ciaspolavo pigramente, quel limpido pomeriggio di
gennaio. Di tanto in tanto mi fermavo ad assaporare il turbinio della neve
alzata dal vento; ammirando le creste innevate di Bardonecchia orlarsi e
sfilacciarsi ad ogni folata. Ogni cosa intorno a me sembrava sollevarsi e
danzare, ed io mi sentivo coinvolto in quella rappresentazione.
Ma, una volta raggiunto il bosco, tutto mutò. La
luce, altrove diffusa generosamente, filtrava a stento fra i rami. Mentre il
freddo mi penetrava, ad ogni ventata ero rattristato dal flebile cigolio dei
tronchi. Sotto le piante la neve tendeva a sfaldarsi e aveva perduto il
primitivo candore. L’erba incolore affiorava e, qua e là, notai alcune zolle
smosse. Forse un cinghiale? O una sepoltura affrettata, improbabile giallo
nella foresta?
Nello stesso istante un crack di ramo spezzato mi
colse di sorpresa. «Non può essere altro che vento – mi rassicuravo –. Cosa
potrà mai accadere a poche centinaia di metri dalla carrozzabile? ».
Mentre proseguivo, di tanto in tanto quell’eco
imprevista si ripeteva. Pensavo: «Il vento è forte, ma come può spezzare gli
alberi con tanta frequenza?». Credetti di avvertire una presenza inquietante.
«Difficile si tratti di un animale selvatico; loro, di norma, tendono ad
allontanarsi». Nonostante questo tarlo, non pensai minimamente a tornare
indietro. Tuttavia, dinanzi alla porta in ferro di una cappellina, constatai
con una certa preoccupazione che era sbarrata. Mi tranquillizzai: «Sto
percorrendo un itinerario segnalato, sabato ho incontrato un papà che
ciaspolava tranquillo trasportando il suo piccolo nel porte-enfant».
La chiesina scruta dall’alto delle rocce un vallone
selvaggio, mentre in primo piano minuscoli ghiaccioli pendevano da rami
sempreverdi. La luce del tramonto li indorava e a me sembravano candeline
accese, quasi inseguissero il periodo natalizio da poco trascorso. Pure le
abetaie sottostanti replicavano quei bagliori rossastri.
Alla fine di una breve discesa ho attraversato il
greto di un torrente che precipita fra grandi massi fino a formare una radura
di neve vergine dove la luce del tramonto ama posarsi.
Fotografai con tenerezza le pianticelle di rosa
canina scampate a stento alle continue nevicate.
Le bacche rosse, ancora presenti qualche giorno
prima, erano scomparse: «Siamo ormai in pieno inverno». Poco oltre vidi una
sequenza di orme su uno di quei cuscinoni ...non erano di camoscio: «Volpe o
lupo?». In ogni caso il sole calante invogliava al ritorno. Feci dietro front. Distante
una quindicina di metri notai che un animale, accovacciato dietro a un
cespuglio, si stava alzando. Pensai immediatamente a un camoscio... «Non può
esserlo, è troppo basso: o è una volpe o un lupo!». Lo riconobbi, era proprio
lui. Non mi ha concesso il tempo né di temere di pensare, in quanto si è
allontanato tranquillo come un cagnolone. Rapidamente ha guadagnato un
valloncello, dove si è esibito inarcandosi per superare la neve con agili
balzi; una postura caratteristica del lupo! Quindi scomparve, come inghiottito
dal bosco e dalle rocce.
La sera stessa, lo ingrandii sullo schermo del
computer. Bello e fiero, il pelo grigio e bianco rifletteva l’inverno. Le tinte
calde del bosco l’avevano colorato qua e là. Grosse zampe da camminatore. Lo
sguardo non tradiva ferocia, piuttosto tristezza e solitudine. Un peluche da
accarezzare.
Tanti hanno chiesto se abbia avuto paura. «Non me
ne ha dato il tempo. In realtà, ero inquieto prima di avvistarlo; quei rami si
spezzavano con troppa frequenza per essere il vento. Ma quando l’ho visto
allontanarsi spontaneamente mi sono tranquillizzato». Ho sentito dire: «Lui è
consapevole delle armi da fuoco che abbiamo a disposizione; sa che verrebbe
abbattuto, se attaccasse un essere umano».
Pensavo: «Con l’uomo si è stabilita una pace
armata. Tanto più che, sebbene il nome stesso declini ferocia e crudeltà, oggi
interessa, incuriosisce e piace; per fierezza e capacità di solitudine, ma
anche perché è davvero bello». Durerà questo armistizio? Qualcuno sostiene che
la specie si sta moltiplicando, come i segni nefasti del suo cacciare: spesso
uccidono più prede di quanto necessario. Come l’uomo. Già al tempo di San
Francesco la belva rappresentava il demonio, cioè il negativo che esiste nel
creato. Ma Dio gli fece intuire che il lupo è “povero”, dunque va compreso e
aiutato a uscire dal suo bozzolo di selvaggia solitudine.
Anche il Santo amava ritirarsi nel bosco, tuttavia
per un motivo opposto: ascoltare più chiaramente – nel silenzio – la voce
divina.
Il miracolo di Gubbio conferma che pure allora
molti uomini erano lupi in una selva oscura. Francesco riconciliò entrambi in
Dio, uomo nuovo e lupo nuovo; insieme. Non la pace armata se forse precaria di
oggi, ma un’armonia celeste. La sua voce doveva essere un canto che tutto armonizza;
grazie al quale egli colloquiò non solo con la belva, ma persino con gli
uccelli, in genere difficili da avvicinare. Nell’episodio dei Fioretti la
reciproca ferocia uomo-lupo si è trasformata in patto quasi cavalleresco:
smetti di uccidere, provvederemo noi al tuo sostentamento!
La belva si trovò trasfigurata; non più nemico ma
fratello.
A chi mi chiede se l’incontro col lupo mi abbia
cambiato, se giro ancora solo fra i monti, rispondo: «Sì, anche se ho perso la
sciocca sicurezza di chi dispone dei più svariati antidoti verso disgrazie e
malattie, come vaccini e antibiotici. Quel lupo che poteva uccidere, ma non l’ha
fatto, ha semplicemente messo in evidenza i miei limiti». Qualcuno ha
suggerito: «Se vuoi tornare in montagna solo, dotati di un’arma, di un
coltellaccio almeno». «Non saprei usarla; e per quale motivo rompere quel
tacito patto di non belligeranza
che il lupo, finora, ha rispettato?».
Mi soffermo abbastanza spesso sull’ultima foto di
quel pomeriggio, scattata quando il sole appena scomparso stava accendendo di
arancio e rosa le nubi vaganti. La furia del vento non cessava e in poco tempo
si era fatta gioco delle nuvole riducendole a segno filiforme. Il cielo
appariva attraversato da una specie di punto interrogativo.
Fratello lupo?
Guido Alimento
«... notai che un animale, accovacciato dietro a un
cespuglio, si stava alzando. Pensai immediatamente a un camoscio... “Non può esserlo, è troppo basso: è
una volpe o un lupo!”. Bello e fiero, il pelo grigio e bianco rifletteva
l’inverno...». (foto G. Alimento)
Nel Museo di Antichità
Il Papiro di Artemidoro: fascino di un mistero Al
centro del Polo Reale fra le collezioni archeologiche che ammaliano e
stupiscono i visitatori, si apre ora un nuovo percorso che conduce a vedere un
reperto dalla storia straordinaria, destinato a suscitare viva curiosità.
Si tratta di un rotolo di papiro lungo due metri e
mezzo che presenta sulle due facce singolari tracciati di scrittura e una
quarantina di disegni, leggibili in tre diversi momenti, indicati come tre
Vite, che un video, all’ingresso, aiuta a decifrare.
Entro una teca tecnologica il reperto appare
composto di infiniti frammenti in cui sarebbe descritta parte dell’opera di
Artemidoro di Efeso (II-I sec. a.C.), Geographomena, accanto ad una carta della
penisola iberica. Un errore avrebbe interrotto la realizzazione dei primi
scritti, così il papiro venne riutilizzato per disegni e bozzetti,
arricchendosi di raffigurazioni di animali, reali e fantastici, di figure e di
parti del corpo umano.
Dopo un secolo, divenne cartapesta per uso
funerario e fece parte di un konvolut, ammasso di papier-mâché.
Pazientemente ricuperato, esaminato dai maggiori
studiosi di papirologia, questo straordinario reperto ha generato una querelle
fra gli studiosi che lo considerano importante documento della cultura e
dell’arte antica, come tra gli altri, Salvatore Settis, o che lo affermano un clamoroso
falso ottocentesco, come Luciano Canfora che ne avrebbe pure riconosciuto
l’autore in Costantino Simonidis, celebre falsario.
Acquisito dalla Compagnia di San Paolo, il Papiro
fu esposto a Torino a Palazzo Bricherasio nel 2006. Allora un testo romanzato
di Ernesto Ferrero, uscito da Einaudi, ha cercato di delinearne la storia.
Successivamente l’edizione critica di Kramer e
Gallazzi ne sostenne l’autenticità, pubblicando anche una foto dell’ammasso di
papiro, che venne discussa in diversi convegni, fino al 2013, quando
dall’Emilia Romagna il soprintendente Filippo Gambari ha dichiarato che il Ministero
dei Beni Culturali ha definito la foto un falso.
Ora la presenza del Papiro a Torino è destinata a
portare nuove, stimolanti discussioni.
Maria Luisa Tibone
(da “Corriere dell’Arte”)
_________________________
«Non abbiamo bisogno di Dio per spiegare come si
formano le galassie.
Abbiamo invece bisogno di Dio per spiegare il motivo
per cui esiste l’universo invece del nulla».
P. José Funes, Direttore della Specola Vaticana
Torino - Biblioteca Nazionale
Cabiria,
immagine di un mito
Cabiria, immagine di un mito
Il Consiglio della Regione Piemonte ha promosso,
nella Biblioteca di Piazza Carlo Alberto, la presentazione della mostra che
celebra i cent’anni di Cabiria, il film dell’astigiano Giovanni Pastrone, il
cui “mito” è rievocato con una presentazione ricca di fascino che ne coniuga
l’immagine pubblicitaria di precoce e spettacolare invenzione, con i cimeli più
rari, le foto e i costumi di scena.
Cabiria fu in effetti il primo “kolossal” girato
con inventiva e coraggio, con uno sforzo rappresentativo non comune.
Pastrone aveva inventato il “carrello” per le
riprese e gli effetti speciali che in seguito Griffith adottò per primo al di
là dell’Oceano; aveva fatto realizzare appositamente la serie dei costumi, delle
armature, delle insegne che furono poi acquisite dal capo della sartoria cinematografica,
Giovanni Devalle, diventando una collezione rara, ora in gran parte esposta a
rievocare la storia romanzata di Cartagine nel III secolo a.C.
Pastrone aveva guardato al futuro, cercando, per la
realizzazione del suo film, la firma più importante della sua epoca. Così nel
1914 fu Gabriele D’Annunzio a fornire didascalie e nomi di personaggi al film.
Il Vate era considerato l’autore di Cabiria su
locandine e manifesti e attraeva con la sua notorietà il pubblico.
L’immagine del film è splendidamente rievocata
nella mostra che si avvale, in una serie di bacheche, anche del ricco
patrimonio musicale della Biblioteca messo a disposizione dal direttoreAndrea De
Pasquale e presentato dalla studiosa di manoscritti antichi Franca Porticelli.
Sono pezzi rari di partiture musicali che
documentano gli anni del cinema muto: “Lo schiavo di Cartagine” del 1910, “Gli
ultimi giorni di Pompei” del 1913, le annate della rivista “La vita cinematografica”,
il libretto “Al Johnson nel Cantante di Jazz” del 1927 che fu il primo
lungometraggio parlato e cantato.
Ma lo splendore, la spettacolarità, la ricercatezza
della macchina del cinema si colgono soprattutto nella sfilata dei costumi che
testimoniano la grandiosità della messa in scena che manifesti, brochures, foto
di scena tratti dagli archivi del Museo del Cinema illustrano, accostandosi alla
Collezione Devalle di costumi, che appare la vera protagonista della rassegna.
Ma anche gli autori di Cabiria compaiono con
spettacolari ritratti: Giovanni Pastrone, Gabriele D’Annunzio, e, per le
musiche, Ildebrando Pizzetti.
Il curatore Livio Musso dell’Associazione Terre e
Memorie di Asti ha esaltato la presentazione con le scelte di colori e immagini
che rievocano gli importanti momenti del film: l’eruzione dell’Etna, il fuoco
divoratore dal quale la nutrice Croessa fugge, portando la piccola Cabiria; i
bambini sacrificati a Moloch; Annibale che varca le Alpi; Siracusa che si
rivolta generando le fiamme con gli specchi ustori di Archimede; Asdrubale e la
figlia Sofonisba per cui contendono i re di Numidia Siface e Massinissa...
Tutta una visione storica che gli splendidi costumi incarnano, affascinando i
visitatori con quello che Martin Scorsese definì «un insieme
magnifico e ipnotizzante».
Maria Luisa Tibone
(da “Corriere dell’Arte”)
Croce
astile
La “nostra” preziosa croce d’argento, recentemente
ritrovata e restaurata grazie all’intervento della “Fondazione Magnetto”, dal
22 gennaio al 16 marzo 2014 è rimasta esposta al Palazzo del Quirinale a Roma,
nell’ambito di una mostra di opere d’arte intitolata “La memoria ritrovata”.
Per l’evento è stato pubblicato un pregevole catalogo
in cui è riportata la scheda predisposta dalla dott.ssa Valeria Moratti,
funzionaria della Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici del Piemonte,
che proponiamo qui di seguito:
«La croce astile, restaurata sotto la direzione di
chi scrive subito dopo il suo ritrovamento, è costituita da un supporto in
legno di noce interamente rivestito da lamine in argento, con applicate
decorazioni a racemi in argento sbalzato, inciso e dorato. Nello stesso
materiale sono realizzate le figure che abitano i quattro capi della croce:
sull’asse orizzontale la Madonna e San Giovanni, sull’asse verticale Dio Padre
in alto e il Cristo
risorto in basso. Al centro è posto il Crocifisso,
anch’esso realizzato in argento sbalzato e dorato. I capicroce del lato
posteriore presentano il tetramorfo: in senso orario si incontrano l’aquila
(Giovanni), il bue (Luca), l’angelo (Matteo) e il leone (Marco);
nell’intersezione dei bracci è inserita una placca quadrata raffigurante
l’Agnello. Le immagini del bue e dell’angelo, con il restauro, hanno
riacquisito la corretta posizione:
il primo sull’asse orizzontale a destra, anziché
coprire completamente il foro di ritaglio della lamina sottostante, lasciava
intravedere porzioni di supporto ligneo, così come il secondo, per mascherare
il supporto, presentava sotto la placca di rivestimento un foglio di carta
dorata. Lungo il perimetro sono fissate sfere di rame dorato: sopravvive un solo
chiodo con testina lavorata a fiore e dorata, probabilmente originale vista la
fattura accurata, il materiale usato e la presenza di doratura sulla capocchia.
Il nodo, in rame dorato, ha una forma di sfera
schiacciata ai poli; sulla linea equinoziale sono sbalzati sei castoni a forma
di rombo con placche in argento smaltate champlevè, molto lacunose quanto allo
smalto, raffiguranti alcuni santi (il santo titolare della chiesa Ippolito,
Lorenzo, Pietro, Paolo e Giovanni Battista) e uno stemma, forse identificabile con
quello di Bardonecchia. Durante lo smontaggio della croce in un piccolo foro a
sezione quadrata, posto all’intersezione dei bracci, è stata trovata una
piccola reliquia che accompagna un involto di seta gialla; esplicata
dalla scritta in grafia quattrocentesca su carta “de scindone domini”, essa
costituirebbe la più antica testimonianza della venerazione della Santa Sindone
nell’Alta Valle di Susa (sono debitrice a Guido Gentile di questa preziosa
osservazione).
La croce, ancora in fase di studio da parte di chi
scrive, è datata 1442 sul cilindro di innesto del bastone ed è punzonata con le
lettere HB. Pur non essendo stato ancora determinato con sicurezza l’orefice, i
caratteri di stile sembrano ricondurre l’opera a un maestro franco piemontese
attivo sui due versanti del Monginevro, a dimostrazione di una cultura
figurativa omogenea fra l’Alta Valle di Susa e i territori intorno a Briançon,
aree entrambe storicamente appartenenti al
Delfinato. Rubata nel 1971, fu resa nota pubblicandone un’immagine sul catalogo
della mostra “Valle di Susa arte e storia”, tenutasi a Torino nel 1977».
Altro Natale
Trascorsi la giovinezza in pianura, nella casa che
fu costruita sul terreno acquistato dai frati domenicani del convento di Santa
Croce. L’edificio sorge su un piccolo poggio e domina l’orto, la vigna e il
giardino che a primavera diventava un’esplosione di ranuncoli, viole e narcisi e
poi, d’estate, offriva generosi cespugli di ortensie rosa e azzurre.
La parte colonica ospitava attrezzi agricoli ed
alcuni animali che servivano per i lavori della campagna.
Era molto bello osservare la trasformazione della
natura nelle diverse stagioni: ascoltare i silenzi dell’inverno e a marzo
respirare i profumi intensi dei fiori degli alberi da frutto e dei lillà. Tutti
gli anni, all’avvicinarsi del Natale, si rinnovava una consuetudine a me
particolarmente cara: l’albero di Natale. Il nostro vicino di casa, Vincenzo,
un uomo già anziano e con la saggezza contadina di generazioni, mi accompagnava
alla cascina Belvedere, dove il padrone, un suo amico di nome Giuseppe, mi
attendeva puntuale, dopo l’Immacolata, e per me tagliava sul momento un piccolo
ramo d’abete; io apprezzavo con gioia quel privilegio che mi era riservato.
Percorrevamo una strada lunga e diritta,
fiancheggiata dai campi che ricordo bianchi di neve. I nostri passi, a tratti
incerti, risuonavano con rumore secco e ritmico sul terreno gelato. Il freddo
era pungente e la mia figura minuta scompariva negli indumenti di lana dai
colori vivaci, mentre Vincenzo si avvolgeva in una mantella di panno
grigioverde come il cappello, indumenti ormai scomparsi dalla vita di tutti i
giorni.
Acasa mia il presepe era un rito di mio fratello:
veniva allestito con cura nel sottoscala, su un tavolo grande. Era studiato in
ogni particolare: le statue e le pecorine di gesso sembravano animarsi sotto le
luci nascoste dietro la carta stellata del cielo. Le montagne erano costruite
con pezzi di legna da ardere, tutte ricoperte di muschio fresco; un lieve odore
di muffa per qualche giorno si diffondeva fino alle stanze del piano superiore.
In un angolo dell’ampia cucina, vicino al vecchio
camino spento, preparavo l’albero di Natale, lo addobbavo con palline di vetro
lucido multicolore e di cioccolato, comprate con i miei risparmi di bimba.
Appendevo ai rami piccole scatole vuote confezionate con le carte riciclate dei
regali dell’anno precedente ed infine vi avvolgevo un filo d’argento con le
luci intermittenti. La preparazione al Natale si avvertiva nei toni della casa,
nell’atmosfera festosa degli addobbi in paese e nella novena pomeridiana, a cui
partecipavo con i miei compagni di scuola.
Alla Messa della Notte Santa invece non andavo
perché la chiesa parrocchiale era troppo lontana; il buio e la neve allora
sempre abbondante rendevano più fredda la notte. Il giorno di Natale si
consumava un pranzo ricco sulla tovaglia di fiandra lavorata a dama, usata
nelle grandi occasioni. Certi sapori e profumi sono tuttora legati a quella
tradizione: l’insalata russa, il brodo di cappone, gli agnolotti preparati in
casa, lo stufato di bue, la mostarda di Cremona ed i mandarini che si
compravano poche volte durante l’inverno. Negli altri giorni si consumavano le
mele e le pere del nostro podere, conservate al fresco sulle stuoie. I doni erano cose semplici: un giocattolo
di pezza, una sciarpa e un berretto di lana lavorati a mano dalla mamma durante
l’Avvento, un cestino di dolci e poche lire regalate dai parenti stretti.
Poi gli studi ed il lavoro mi hanno portata a
vivere qui a Torino, lontano dal paese, ma nel cuore sono ancora vive quelle
immagini, anche se un po’ scolorite dal naturale trascorrere della vita.
Tutti gli anni a Natale ritorna sulla tavola la
tovaglia bianca di fiandra a dama con le tradizioni di casa mia, un po’
modificate dalle nuove abitudini. Il ricordo e la magia di quelle feste sono
rimasti nei miei pensieri e diventano una fiaba moderna con il finale ormai
concluso.
Pur nella tristezza e nel vuoto per le persone che
non ci sono più, trovo nelle luci dell’albero e del piccolo presepe il sorriso
benevolo dei miei genitori che sembrano rassicurami ed accompagnarmi fino al
prossimo Natale.
Maria Fiorenza Verde
PREGHIERA ALLA SANTA FAMIGLIA
DI PAPA FRANCESCO
Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore dell’amore vero,
a voi con fiducia ci rivolgiamo.
Santa Famiglia di Nazareth,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole del Vangelo
e piccole Chiese domestiche.
Santa Famiglia di Nazareth,
mai più nelle famiglie si faccia esperienza
di violenza, chiusura e divisione:
chiunque è stato ferito o scandalizzato
conosca presto consolazione e guarigione.
Santa Famiglia di Nazareth,
il prossimo Sinodo dei Vescovi
possa ridestare in tutti la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
la sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltate, esaudite la nostra supplica.
Amen.
Il mistero e la scienza
La nostra società è quotidianamente indottrinata
dai grandi mezzi di comunicazione di massa. La secolarizzazione ci presenta una
visione della realtà che elimina la dimensione soprannaturale; il mondo e la
vita sono interpretati alla luce di ciò che è percettibile dai nostri sensi ed
è sperimentalmente verificabile. L’impatto di questa mentalità sulle verità
fondamentali della “rivelazione” è deleterio; tutto ciò che è “mistero di fede”
viene rifiutato in quanto non dimostrabile scientificamente. Anche tra i fedeli
che frequentano le celebrazioni liturgiche ed accedono ai Sacramenti si stanno
lentamente facendo strada velate forme di scetticismo; viene vissuto con fede
tiepida il mistero dell’incarnazione di Gesù Cristo, della sua divinità e della
sua risurrezione; viene messo in discussione il mistero della Trinità; viene
poco per volta assorbita la mentalità della cultura dominante che non
riconoscendo la trascendenza nega ogni valore all’azione provvidenziale di Dio
sulla storia dell’universo.
Eppure, i grandi progressi che, in anni recenti,
sono stati compiuti nella speculazione scientifica, ed in particolare nella
cosmologia e nella fisica delle particelle, stanno mettendo in crisi le
granitiche certezze delle ideologie positiviste. La realtà fisica che ci
circonda non è quella che i nostri sensi ci hanno abituato a vedere e
conoscere; di fronte a eventi e scoperte messi in luce dalle più sofisticate
strumentazioni scientifiche la ragione umana comincia a mostrare i propri
limiti e deve arrendersi di fronte al mistero.
Il Big Bang. È ormai universalmente accettato dalla
comunità scientifica che la materia e le leggi che governano l’universo siano
state create nei primissimi istanti in cui si è verificata la “grande
esplosione”. Tutto quello che ci circonda e che siamo capaci di percepire, il
mondo animale, la terra, il sistema solare, l’universo intero con le sue
rigorosissime leggi fisiche e con i suoi misteri, tutto è emanazione del Big
Bang. Prima dell’istante zero non esisteva nulla, non esisteva il tempo, non
esisteva lo spazio. La teoria, tanto cara ai razionalisti di tutti i tempi, di
un universo eterno ed increato viene messa definitivamente in soffitta. Quale
spiegazione scientifica è in grado di dare una risposta all’origine
all’universo? MISTERO.
Il principio antropico. Un altro concetto che sta
facendo venire il mal di pancia a molti positivisti è il cosiddetto “principio
antropico” secondo cui tra tutti gli infiniti valori che potevano assumere le
grandezze fisiche che governano l’universo si sono dimostrati validi solo quelli
che un giorno avrebbero reso possibile la comparsa dell’uomo. L’universo tale
quale ci si presenta oggi dipende infatti dal valore che una dozzina di
grandezze fisiche assunsero al momento del Big Bang; variazioni minime di tali
valori avrebbero avuto conseguenze catastrofiche sull’evoluzione dell’universo.
Per quale ragione scientifica tra le infinite possibili condizioni iniziali si sono verificate proprio
quelle che poi permisero la comparsa dell’uomo?
MISTERO.
La struttura dell’universo. La moderna fisica
relativistica tenta di spiegare la natura dell’universo ipotizzando una realtà strutturata su un
numero di dimensioni maggiore rispetto alle tre che i nostri sensi ci fanno
percepire; lo spazio viene incurvato dalla presenza della massa.
Inoltre, si stanno ottenendo le prime conferme
sperimentali di alcune teorie annunciate da Einstein: al crescere della
velocità, le lunghezze si accorciano, le masse aumentano, lo scorrere del tempo
rallenta. Alla velocità della luce le distanze si annullano, le masse diventano
infinite e il tempo si ferma. Tutto questo non è recepibile dalla ragione
umana: è MISTERO.
Il passaggio dallamateria inerte alla
vita.All’inizio del processo cosmico la terra era una palla infuocata divenuta poi, raffreddandosi, un pianeta di
materia inerte. La comparsa della vita e la conseguente evoluzione che è
proseguita fino alla comparsa dell’uomo è certamente l’avvenimento che contrasta
nettamente col Secondo Principio della Termodinamica (in natura, ogni sistema
organizzato, lasciato libero a se stesso, tende a passare spontaneamente da uno
stato di maggior ordine ad uno di maggior disordine). Nel nostro caso, si è
passati dalla materia inorganica, bruta e poco o nulla organizzata, a forme di
organizzazione sempre più sofisticate fino a giungere a quel meraviglioso
strumento della coscienza e del pensiero che è il cervello dell’uomo. È stata
calcolata la probabilità che dal caos abbia potuto svilupparsi l’essere umano:
1 su 10 elevato a 12 milioni (in altre parole una probabilità su 10 seguito da
12 milioni di zeri). La teoria, oggi dominante, del caso (il colpo di fortuna
chimico) non spiega assolutamente nulla; è una ammissione di ignoranza: è una resa al MISTERO.
La riflessione non terminerebbe qui. La scienza ci propone
altri misteri ai quali la ragione non sa dare risposte; il passaggio dalla vita
naturale all’intelligenza, il passaggio dall’intelligenza alla creatività, alla
morale ed alla spiritualità (i primati superiori non creano opere d’arte, non
seppelliscono i loro morti).
Le domande che da esseri razionali ci poniamo alla luce
del progresso scientifico si riducono, in fin dei conti, ad una sola: perché
tutto ciò esiste?, perché al posto dell’universo non esiste invece il nulla?
Durante una conferenza al CERN di Ginevra il grande
scienziato Stephen Hawking, dichiaratamente agnostico, ha terminato la sua
presentazione proiettando sullo schermo un foglio bianco con due semplici domande:
– perché siamo qui?
– da dove veniamo?
Se si prendono sul serio queste domande non
possiamo fare a meno di riflettere sulla nostra concezione dell’universo, della trascendenza, del nostro
destino e del significato della vita.
Nel suo libro “Dio e gli astronomi” Robert Jastrow,
fondatore ed ex-direttore del Goddard Institute of Space Studies della NASA, così conclude: «Lo scienziato
che ha vissuto secondo la sua fede nella forza della ragione ha scalato l’alta
montagna dell’ignoranza, raggiunge dopo molti sforzi l’ultima vetta e, quando
approda all’ultimo picco, viene accolto da un folto gruppo di teologi che lo
attendevano lì, festosamente seduti, da molti secoli».
Gianfranco Barbieri
NATALE 2014
I giorni
si fanno più brevi
più lunghe le notti:
avanza il solstizio
d’inverno.
Un pallido sole
prepara
la festa più dolce
dell’anno.
Supermercati
di doni
dal Babbo
vestito di rosso,
sotto un pino
ingioiellato.
Abbuffata
di auguri e sorrisi
al compleanno
di un Bimbo
abbandonato
in soffitta.
ROSELLA BARANTANI