19/08/19

Angolo della Cultura (2018) Don Giuseppe Maria Vachet



Don Giuseppe Maria Vachet
costruttore della Chiesa di Sant’Ippolito e parroco lungimirante
nel 150º anniversario della morte
Don Giuseppe Maria Vachet 
(foto Archivio Parrocchiale)

Esattamente centocinquant’anni fa, periva tragicamente Don Giuseppe Maria Vachet, all’età di 74 anni, dopo un quarantennio di servizio zelante come Parroco di Bardonecchia. Era stato accoltellato da ignoti nel corso di una rapina nella stessa casa parrocchiale. I colpevoli non vennero mai identificati e pertanto non fu possibile celebrare il processo. All’epoca, l’impressione fu immensa  per l’efferatezza del crimine: Don Vachet era un santo Parroco e un geniale e lungimirante
pastore della comunità di Bardonecchia, anche sul piano civile.
Passati tanti anni, i rari documenti conservati negli archivi della Diocesi di Susa, della Parrocchia e del Comune di Bardonecchia, sono preziose e autentiche testimonianze utili a ricostruire con obiettività la figura di questo Sacerdote cui si devono il nuovo imponente tempio parrocchiale e le tante opere tese a riunire l’antico borgo al nuovo che stava sorgendo attorno al cantiere del traforo del Frejus.
Il documento più interessante e commuovente, pur nella sua sinteticità, è la Notizia biografica scritta dal parroco del Melezet, don Giovanni Antonio Allois, all’indomani della sepoltura di don Vachet, che riportiamo fedelmente nella traduzione dal francese.

AD PERPETUAM MEMORIA
Notizia biografica di Don Giuseppe Maria Vachet, già curato di Bardonecchia.
Il signor Giuseppe Maria Vachet, nato il 30 maggio 1794 a Les Arnauds nei pressi di Bardonecchia,
aveva terminato i suoi studi classici quando la sorte lo chiamò, all’età di 19 anni, sotto i vessilli della Grande Armata francese; nonostante fosse ancor giovane, iniziò con coraggio questa carriera e la percorse con onore; senz’altra raccomandazione della sua buona condotta e l’applicazione ai suoi doveri, ottenne ben presto la stima dei suoi superiori e l’affetto dei suoi commilitoni conseguendo il grado di Sergente-furiere; dopo aver fatto le due campagne di Germania, bloccato nell’assedio di Amburgo durante l’inverno del 1814, e in seguito liberato, dovette, alla caduta dell’Impero e alla disfatta della Grande Armata, rientrare in Piemonte sua patria.
Millaures e Rollieres, 1851 (collez. M. Albera)

Riprendendo allora il corso degli studi interrotti, entrò nel Seminario di Susa ove fece successivamente rapidi progressi nelle scienze filosofiche e teologiche. Ordinato sacerdote nel 1819, servì dapprima il beneficio del Carmine a Melezet, poi, nel febbraio 1822, rimpiazzò Don Domenico Chalmas, suo antico precettore, nella cura parrocchiale di Sant’Antonio: la Chiesa e il presbiterio gli sono debitori di numerose migliorie operate durante i cinque anni della sua chiaroveggente amministrazione.

Da Melezet trasferito a Bardonecchia dall’autorità diocesana, fece il suo ingresso il 6 maggio 1827. In questa parrocchia dal territorio diffuso che egli fecondò con le sue fatiche per più di 41 anni, pieno di zelo per la gloria di Dio e la salute delle anime, egli si faceva tutto a tutti nell’esercizio del suo fruttuoso ministero. Difensore della giustizia, protettore dell’innocenza, nemico dichiarato di ogni disordine, la sua sollecitudine pastorale non conosceva limiti, il suo carattere affabile e conciliante sapeva adattarsi a tutte le possibili circostanze; così mai nulla lo spaventava, nulla lo sconcertava tanto da lasciare dopo di lui tante buone opere che gli devono l’esistenza, che rendono manifesta la sua beneficenza ed eterna la sua memoria nei secoli futuri.
La Chiesa monumentale di Bardonecchia, che oggi costituisce l’ammirazione degli stranieri, venne iniziata l’8 settembre 1827 nei primi tempi del suo ministero, edificata sotto la sua direzione e terminata nel 1831 per sua cura, con il concorso dei religiosi parrocchiani. L’antico altare maggiore nobilita il suo vasto santuario, preziosi altari in marmo ne decorano le cappelle laterali, un’artistica Via Crucis ne adorna i pilastri, numerose opere d’arte abbelliscono il suo ambiente, un maestoso organo accompagna le funzioni, una fascinosa orchestra di campane annuncia le sue solennità, un orologio senza uguali batte anche i quarti d’ora.

Per sua geniale iniziativa venne ricostruita la canonica, le Cappelle della Parrocchia sono in parte restaurate o riedificate in modo artistico, è stato realizzato un grande edificio per l’istruzione dei giovani, un nuovo cimitero è stato allestito a giusta distanza dalle abitazioni. Se un tratto della via consortile che riunisce i due borghi di Bardonecchia è tanto ben allineato alla prospettiva del gigantesco campanile che affianca la Chiesa, se una fabbrica di legname è stata allestita in questa località per la fornitura del traforo delle Alpi, se infine il paese è stato tempo fa preservato da un rovinoso incendio, è ancora merito di Don Vachet, come pure la scoperta della cava di argilla.
La chiesa parrocchiale di Les Arnauds
(foto E. Barra).

Le sue vaste conoscenze di ogni genere, la sua consumata esperienza nel maneggio delle cose economiche, i suoi saggi consigli, e soprattutto i suoi capelli bianchi, gli avevano attirato la stima e la confidenza di tutte le persone buone del suo paese e della vallata che di sovente venivano a implorare l’aiuto delle sue conoscenze enciclopediche. Tante belle qualità, tante nobili virtù, tanti rari meriti avranno reso preziosa la sua morte agli occhi del Signore, mentre noi la deploriamo e la rimpiangiamo qui in terra.
Le esequie ebbero luogo il 23 agosto alle ore 10 del mattino, tutta la popolazione della parrocchia e del circondario vi assistette, ed erano migliaia, testimoniando a sufficienza, nella compostezza e nel pianto, l’enormità dell’attentato di cui Don Vachet era stato vittima.
Le sue spoglie mortali riposano ai piedi della grande Croce del cimitero di Bardonecchia.

«Viatores dicite: Requiscat in Pace».

La giovinezza di Don Vachet 
Giuseppe Maria Vachet era nato a Les Arnauds da Francesco Vachet e da Anna Maria Vallory il 30 maggio 1794, alla vigilia della festa della Visitazione della Beata Vergine Maria. I genitori erano piccoli proprietari terrieri, dei possidenti né poveri né ricchi. È bene ricordare che, da quando la comunità di Les Arnauds aveva riscattato gli antichi diritti feudali, questa era autorizzata a far uso di qualificazioni nobiliari e considerata Signora di Arnaud, come codificato nell’Elenco Ufficiale delle
Famiglie Nobili e Titolate del Piemonte e confermato ulteriormente dal Decreto promulgato a Roma dal Re Umberto I nel 1895. Gente di montagna, fedele alle antiche tradizioni di cui era orgogliosa custode. Quando venne alla luce il piccolo Giuseppe Maria, il Piemonte sabaudo era nel pieno della Guerra delle Alpi, avendo la Francia rivoluzionaria e giacobina invaso, senza dichiarazione di guerra, gli stati del Re di Sardegna, occupando nel settembre 1792 la Savoia e la Contea di Nizza. In seguito il fronte si era spostato su tutto l’arco alpino, dal mare alla Valle d’Aosta. Il conflitto durerà per cinque lunghi anni sino all’Armistizio di Cherasco del 1796, che preluderà all’esilio dei Savoia in Sardegna nel dicembre 1798. Il tempo di guerra portò a infiniti sacrifici che coinvolsero le popolazioni più remote delle valli montane, anche se la conca Bardonecchiese non fu teatro di episodi bellici diretti.
È facile immaginare che anche la famiglia Vachet soffrisse le amare strettezze del periodo. Compiuti gli studi elementari, Giuseppe Maria, evidentemente di svegliato ingegno, ebbe l’occasione di frequentare gli studi superiori nel prestigioso ex Collegio Reale di Oulx. Ma siamo già nel periodo della dominazione Napoleonica, che aveva annesso il Piemonte alla Francia dopo la battaglia di Marengo.
Bardonecchia, 1851 (collez. M. Albera).
Gli ex stati sabaudi erano diventati la 27.a Divisione Militare della Francia repubblicana prima e imperiale poi, con conseguente coscrizione militare obbligatoria, che travolse la giovinezza e le aspirazioni del giovane Giuseppe Maria Vachet, già orientato alla vocazione religiosa. Per renderci conto di quei tempi tanto difficili, vale la pena di citare la Memoire sur l’Arrondissement de Suze dell’avvocato Antonio Jaquet, nato a Chiomonte, che ne era Sottoprefetto, nonché Commissario di Guerra e Deputato del Corpo Legislativo a Parigi. La sua preziosa relazione del 1802 offre un quadro preciso della situazione particolarmente difficile dell’alta Valle di Susa, la parte più povera e meno abitata del dipartimento. Vi si lamenta la mancanza di industrie e di commercio, l’assenza di miniere e di qualsiasi sfruttamento del patrimonio boschivo. Si rileva che l’economia essenzialmente agricola e la poca pastorizia davano poco frutto, non solo per ragioni climatiche, ma anche per la requisizione di bestiame consueta nel tempo di guerra, che costringeva la popolazione a trasportare quasi tutto il necessario sulle proprie spalle, con grave influsso sulla salute fisica. Diffusa era la migrazione periodica in pianura per il bracciantato, specie per la lavorazione della canapa. Racconta comunque di popolazioni oneste e laboriose, fra cui non comparivano quasi mai fatti delittuosi. Anche la piaga dell’alcolismo, tanto diffusa nella bassa valle, era praticamente assente per via della mancanza di vino, che non si poteva produrre a livello locale e che era troppo costoso per popolazioni tanto povere.
La stessa produzione del pane, che era di segala con poca aggiunta di sorgo e di avena, avveniva con una sola cottura annuale. Ad integrare la sua scarsità si provvedeva con le castagne e le prime produzioni di patate. Le case erano insalubri e la vita comune con gli animali da stalla, pur necessaria per il riscaldamento in inverno, non favoriva la salute degli abitanti, la cui età media non superava i quaranta, cinquant’anni. Delle 61 comunità del dipartimento, quelle dell’alta valle erano 38 con 13.029 abitanti, a fronte dei 48.864 della bassa valle. Ma la lamentela più forte era per il regime fiscale, che arrivava ad assorbire quasi tutto il poco denaro derivante dalle produzioni agricole, essendo la tassazione il triplo di quella delle analoghe regioni transalpine francesi. Unica eccezione positiva era il sistema scolastico, di origine sabauda, con i tre collegi ex Reali per l’istruzione superiore, stabiliti da tempo immemorabile a Giaveno, Susa e Oulx. A tal proposito riferisce che, mentre i primi due istituti erano poco frequentati già prima della guerra, quello di Oulx formava molti maestri che l’alta valle forniva al sud della Francia, con un’attitudine quasi naturale all’insegnamento della scrittura, del la matematica e della lingua francese. Il Vachet, come sappiamo, frequentò questa ottima scuola, ma, appena terminati gli studi, dovette interromperli per la chiamata alle armi a servire negli eserciti di Napoleone. Anche lui, che aveva scelto di seguire la via del sacerdozio, fu vittima della coscrizione obbligatoria.
Piazza di Bardonecchia, 1851 (collez. M. Albera).


Olim miles,
gli studi interrotti a l’avventura militare 

Con la riforma francese del 1802, il dipartimento di Susa, come il resto del Piemonte, arruolava con coscrizione obbligatoria a partire dai 18 anni i suoi giovani in uno specifico reggimento: il 111° Fanteria di linea, detto il Tre paletti per via della sua insegna. Questa truppa servì in tutte le campagne napoleoniche facendo onore alle tradizioni militari piemontesi pur subendo perdite sanguinosissime. Il reggimento, partito per la Campagna di Russia del 1812 con un organico di 4.780 uomini, era rientrato a Francoforte ai primi del 1813 con solo 180 uomini, di cui 70 gravemente feriti. Si rese necessaria una nuova leva in Piemonte, quella che coinvolse anche Giuseppe Maria Vachet, con nuove reclute per 3.900 uomini, a maggio del 1813. Tale reggimento venne coinvolto subito nella nuova campagna di guerra contro Prussiani e Russi, culminata nella battaglia di Lipsia del 16 ottobre, che, durata per tre giorni con oltre 100.000 fra morti e feriti, si concluse con la sconfitta di Napoleone. Con l’armistizio, il 111° Fanteria di linea venne trasferito a Lunenburg, e poi a Lubecca. Il diciannovenne Vachet si distinse per le sue qualità morali e per la sua preparazione culturale, tanto da essere nominato Sergente Furiere, come testimoniato dalla memoria del Parroco di Melezet, Don Allois. Il 2 dicembre si trovò con i suoi commilitoni a Mollen per raggiungere subito dopo il presidio della città di Amburgo, che venne assediata dal 4 del mese. La difesa della città vide affrontarsi 30.000 uomini dell’esercito francese contro 60.000 alleati, su un perimetro trincerato di oltre 40 chilometri. All’inizio del 1814, Napoleone fu costretto ad abbandonare il nord-est dell’Europa per difendere la Francia e Parigi stessa. Il 20 febbraio il 111° Reggimento si trovò isolato con solo più 1.500 uomini in servizio attivo dei 3.100 arruolati l’anno precedente, senza più rifornimenti e con il sostentamento alimentare ridotto a mezza razione. Il Vachet si sarà trovato in gravi difficoltà come Sergente furiere! L’assedio continuò, dimostrando una straordinaria capacità di resistenza da parte dei difensori, sino al 25 aprile, quando Napoleone capitolò a Parigi e venne costretto all’abdicazione.
Le truppe di Amburgo ricevettero allora l’ordine di arrendersi ai Russi e il 111°Reggimento si ritirò nella Cittadella della città. Il 25 maggio, il comando passò dal generale napoleonico Davout al generale francese Gerard, rappresentante del sovrano restaurato Luigi XVIII. Il 28 maggio venne decretato lo scioglimento delle truppe, che vennero congedate al confine con il Lussemburgo. Il 1° agosto, i 2.259 militari piemontesi superstiti si incamminarono verso le Alpi. Lunga era ancora la strada per casa e solo il 26 agosto i reduci raggiunsero, sempre a piedi, il valico del Moncenisio. Fra
questi anche il Vachet, che sarebbe poi rientrato a Les Arnauds nel mese di settembre.

Rettoria della Madonna del Carmine a Melezet (foto E. Barra).
Chiesa parrocchiale di Melezet (foto E. Barra).

La ripresa degli studi, il Seminario e il Sacerdozio Giuseppe Maria Vachet fu finalmente libero di riprendere il filo della propria esistenza: deposti gli abiti militari da sott’ufficiale in congedo dell’esercito francese, come testimoniato dalla memoria di Don Allois, riprese il corso degli studi, entrando nel Seminario di Susa «ove fece successivamente rapidi progressi nelle scienze filosofiche e teologiche». Ordinato Sacerdote nel 1819, a venticinque anni, venne inviato a Melezet, ove ebbe nei primi tempi il beneficio della Cappella di Nostra Signora del Carmine. Nel febbraio del 1822, subentrò nella cura parrocchiale di Sant’Antonio Abate a Don Domenico Chalmas, che era stato suo precettore nella prima giovinezza. Nel quinquennio in cui fu Parroco di Melezet, operò molti miglioramenti nell’antica Chiesa e nel Presbiterio.

A Bardonecchia: una Parrocchia senza Chiesa…
L’autorità diocesana lo volle infine Parroco a Bardonecchia, ove restò per quarantuno anni. Vi fece il suo solenne ingresso il 6 maggio del 1827, promuovendo da subito la costruzione della nuova grande Chiesa di Sant’Ippolito. Infatti la situazione dell’antica Chiesa era divenuta drammatica sin dal 1806, anno in cui aveva ceduto un pilastro portante, provocandone il crollo parziale. I muri rivelarono i segni di numerosi incendi, il più grave dei quali risaliva al 1584, quando, nel corso delle guerre di religione, i protestanti francesi Ugunotti avevano tentato di distruggerla. In una memoria di Don Vachet, custodita nell’archivio parrocchiale, si legge: «In seguito al crollo venne un architetto della provincia di Susa, per esaminare la parte della chiesa che ancora sussisteva, ed essa fu dichiarata inservibile. Si dovette quindi venire nella determinazione di costruire una nuova chiesa, che non poteva seguire né le fondamenta né la forma dell’antica, che era lontana da ogni regola di architettura…». Per ventitrè anni ci si era serviti, per le funzioni parrocchiali, della Cappella della Confraternita di Sant’Ippolito e San Giorgio, posta dietro l’attuale casa parrocchiale, all’inizio di Via Tre Croci. Una sede provvisoria, disagiata e insufficiente, con una situazione economica della parrocchia resa ancora più precaria in seguito alla soppressione da parte del governo francese dei benefici parrocchiali, con le relative rendite, di Sant’Antonio, dell’Annunziata, di Santa Croce, di Sant’Anna, di San Giuseppe e di Santa Margherita, costituiti da lasciti di terreni e di somme in denaro per le messe. Occorreva dunque una fede fortissima e tenace come quella di Don Vachet per  intraprendere la nuova costruzione. Il nuovo parroco aveva chiesto nel 1826 al notaio Jean Agnés di intervenire presso lo stesso Sovrano, il Re Carlo Felice, per ottenere una significativa provvidenza.
Chiesa Parrocchiale di Sant’Ippolito (foto E. Barra).
Questi, grazie all’intervento dei suoi congiunti nobili Agnés Des Geneys, ottenne udienza e una somma di lire 3.000, veramente cospicua per quell’epoca. Si potè così iniziare la demolizione dell’antico edificio originariamente dedicato a Sancta Maria ad Lacum. Narrano ancora le memorie del nostro Parroco: «Sin dai primi secoli del Cristianesimo Bardonecchia ebbe una piccola chiesa, come abbiamo potuto constatare nella demolizione della vecchia chiesa e nello scavo delle fondamenta della nuova. Essa era composta da una sola navata, che si prolungava fino alla estremità del vecchio campanile, che esiste ancora. Abbiamo scoperto che il vecchio campanile (del secolo XIV) è stato costruito sulle fondamenta di una torre rotonda, trovata a 8 piedi di profondità». Il nuovo tempio poteva prendere forma, ma chi fu l’autore del progetto? Nel suo memoriale, don Vachet fa qualche ammissione: «Tutto venne fatto senza l’assistenza di alcun architetto, ma per effetto dei nostri pochi studi e conoscenze». La domenica del 9 settembre del 1827, vi fu la cerimonia della posa della prima pietra. Come di consuetudine, venne sigillata al suo interno una pergamena con l’iscrizione in lingua latina. Ecco la traduzione del testo: «Questa prima pietra venne posta il giorno 9 settembre 1827,regnando Carlo Felice, con la protezione dei nobili Des Geneys, essendo vescovo di Susa Francesco Vincenzo Lombard, don Giuseppe Maria Vachet parroco e indefesso moderatore, Giovanni Agnés notaio zelante procuratore della chiesa, essendo sindaco Matteo Francesco Gèrard». Ancora don Vachet annota l’andamento del primo cantiere: «Fu preparata sul luogo una fornace per cuocere la calce, mentre si continuava lo scavo delle fondamenta della navata centrale, sino alla profondità di 15 piedi.

Gli stalli del Coro del XV sec. appartenuto all’Abbazia di Novalesa e acquistato da don Vachet (foto E. Barra).
Queste fondazioni erano ancora da terminare, quando, il 30 ottobre, iniziò una grande pioggia che durò ininterrottamente per 3 settimane. Tuttavia, verso la fine dell’anno, le fondamenta erano state gettate, usando le pietre della vecchia chiesa ed altre 45 tese di pietre, che erano state preparate qualche anno prima, per interessamento del sindaco Giuseppe Fazy». Si ripresero i lavori nell’aprile dell’anno successivo, il 1828, scavando le fondamenta delle cappelle laterali, mentre i materiali edili venivano forniti dalla popolazione tutta, che si era tassata generosamente. Nel luglio successivo, Don Vachet si era recato, con un lungo e faticoso viaggio a piedi e in diligenza, dallo stesso sovrano Carlo Felice nella sua residenza di Govone, per implorare un nuovo sostegno economico, ricevendo  immediatamente 800 lire, con la promessa di ulteriori elargizioni.
Monsignor Pierantonio Cirio, Vescovo di Susa (Archivio Parrocchiale).

Intanto, la Cappella della Confraternita di Sant’Ippolito e San Giorgio, nel gennaio 1829, era stata dichiarata pericolante dal genio civile di Susa ed interdetta al culto dal vescovo di Susa.
Il Santissimo Sacramento venne traslato e custodito nella sala maggiore della casa comunale!
Si dovette forzatamente officiare nella nuova chiesa, ancora priva degli infissi definitivi e del portale. Il giorno di Ognissanti del 1829, si trasportò solennemente il Santissimo Sacramento e nell’inverno si fece il pavimento in legno e vennero installati gli stalli dell’antico coro dell’Abbazia della Novalesa, che, dopo la sua soppressione forzata, erano stati posti in vendita. Venne ricostruito anche l’antico e prezioso altare in cui vi fu inserito l’originario tabernacolo dorato e venne nuovamente innalzata l’ancona dedicata a Sant’Ippolito e San Giorgio. Fu pure costruita la tribuna in legno, sopra il portale,  destinata all’organo.
Ultimata la chiesa con un ulteriore sostegno del re Carlo Felice, restava da risolvere il problema del campanile, troppo basso rispetto alla nuova costruzione e che non riusciva a far sentire il suono delle campane a tre quarti del paese. Don Vachet ne progettò uno nuovo, che, essendo molto alto, richiese fondazioni profonde. Tutta la popolazione si tassò volontariamente ancora una volta, con il Cavalier Agnés des Geneys che iniziò la pubblica sottoscrizione con il dono di ben 2.000 lire. Nel 1830 il campanile era ultimato e venne completata la copertura in lose. Al culmine del tetto, venne posta finalmente la Croce in ferro. Nel 1832 don Vachet acquistò l’orologio per la torre campanaria, dotato di concerto di campane, che batteva anche i quarti d’ora. La cerimonia della consacrazione del nuovo tempio fu il coronamento di tante comuni fatiche: avvenne il 14 luglio del 1833 da parte del vescovo di Susa, Monsignor Pierantonio Cirio, alla presenza del Ministro Agnés des Geneys, in rappresentanza del re Carlo Felice che tanto vi aveva contribuito. Infine, nel 1863, venne installato il potente organo dei torinesi F.lli Collino.

Dalle memorie autografe di don Vachet
Fra i pochi documenti d’archivio due autografi dello stesso Don Vachet, scritti nel francese dell’epoca, sono di molto interesse. Il primo, relativo allo sventato incendio del Borgovecchio del 1843, e il secondo contenente le osservazioni e memorie relative al Traforo del Cenisio, in epoca successiva al 1858, a testimonianza del suo misconosciuto quanto decisivo contributo all’opera ingegneristica che avrebbe portato allo sviluppo futuro di Bardonecchia e della sua vallata.

L’incendio del 1843
«Nel 1843, il 9 dicembre, alle ore cinque e un quarto del pomeriggio era scoppiato un incendio presso la casa di Giuseppe Francou che, favorito da un vento spaventoso, avrebbe causato una propagazione generale se solo vi fosse stato qualche secondo di ritardo (nell’intervenire). Si era lasciato cadere un piccolo carbone vicino a della paglia sbriciolata, che subito prese fuoco, posta davanti alla porta dove erano delle fascine grossolane che insieme a della canapa a mezzo fusto, che era appesa a fianco della grande porta d’ingresso, sopra la quale vi era un’altra grande quantità di fascine di legno secco, con dietro della paglia. Il fuoco si stava sviluppando mentre io ero in questa strada: una persona che era vicino al canale mi fece osservare il chiarore, e mi misi a correre verso quella luce. Intanto le stoppie e la canapa bruciavano con fiamme alte oltre venti piedi sopra la casa. In quell’istante mi sono gettato in mezzo al fuoco, ho preso il mucchio di stoppie che alimentava queste fiamme, portandole fuori dalla portata delle scintille.
Nel frattempo era stato dato l’allarme e si era suonata la campana a martello. La folla che era accorsa fu testimone delle mie ferite, avevo la mano destra completamente annerita e la guancia e l’orecchio ustionati. L’indomani, che era giorno di domenica, ho dovuto celebrare (la Messa) in tali condizioni in cui rimasi per altri quindici giorni. Quanti si trovarono fuori delle abitazioni durante l’incendio, avevano visto un bagliore che rischiarava tutto il paese, anche se l’allarme era stato dato prontamente».

Osservazioni sul Traforo delle Alpi da Bardonecchia a Modane e sulla cava d’argilla che è stata impiegata per fabbricare i mattoni del Tunnel 

«A partire dall’anno 1838 le costruzioni di strade ferrate erano in opera ovunque ma i trasporti ferroviari tra la Savoia e l’Italia non si potevano realizzare se non con il traforo delle Alpi. Il Signor Giuseppe Medail, figlio di Francesco di Bardonecchia, imprenditore a Lione, convenne con me che questo traforo fra Bardonecchia e Modane, non si poteva fare se non attraverso la montagna del Fréjus. L’ho esortato caldamente a fare un progetto di massima da presentare al Ministero. Egli fece venire l’Ing. Carlo Pozzo, inventore di uno strumento per la misura delle distanze e delle altitudini. L’osservazione effettuata venne trovata soddisfacente, dimostrando che era possibile la realizzazione di una strada ferrata e ne venne inviata una memoria al Ministero dei Lavori Pubblici. Questo genere di lavori non si erano ancora sperimentati nei nostri stati, ma studi analoghi erano stati effettuati per gli Appennini e le Alpi, per cui erano stati chiamati dal Belgio l’Ing.Maus e il Sig.Mombaux (?). Da allora ho avuto l’onore di ospitare questi Ingegneri a causa della mancanza di alberghi. Hanno fatto studi sul traforo e sulla pendenza (del tracciato) da qui a Susa: studi soddisfacenti che hanno permesso di progettare il traforo delle Alpi e, nello stesso tempo quello degli Appennini, ma quest’ultimo venne accantonato sin dal 1837.
Iniziato il tunnel, era necessaria una cava di pietre adatte a rivestire la volta o una cava d’argilla per la fabbricazione dei mattoni. La cava di pietre non esisteva quassù, per cui le pietre avrebbero dovuto essere tagliate e trasportate con spese insostenibili e si dovette ripiegare sulla cava di argilla.
Si fecero ricerche in molte località e se ne trovò, ma in quantità insufficienti e dal trasporto troppo costoso. Comunque si decise di cavare l’argilla dal pianoro della Scala, dove se ne trovava in quantità e si diede l’incarico della fabbricazione dei mattoni ancora a un costo molto alto.
L’Ing. Grattoni, Ingegnere Capo, aveva ancora raccomandato di fare tutte le ricerche possibili.
Ecco che qualche giorno prima dell’assegnazione dell’appalto per la fabbricazione dei mattoni ebbi un incontro con l’Ingegner Beraud in cui gli feci presente delle mie conoscenze in fatto di geologia e delle osservazioni che avevo fatto sui terreni argillosi: gli dissi che se si fosse scavato nella profondità di metri due nella proprietà di Lorenzo Lantelme situata in località “aux Salles”, proprietà sulla quale avevo dei diritti, si sarebbe trovata un’argilla di qualità superiore a quella della Scala e in grande quantità. Venne subito avvisato l’Ing. Borrelli: era il 9 agosto 1858. In quello stesso giorno vennero mandati degli operai che sembrava non dovessero trovare nulla, dato che non si era ancora scavato in profondità, ma il giorno successivo venne trovata l’argilla, con grande soddisfazione di tutti gli impiegati del governo, poiché si potevano risparmiare molti milioni, mentre da parte del governo stesso si doveva ancora verificare la quantità necessaria. Si fecero dei saggi in tutta la piana e risultò che lo spessore era da due a cinque metri: venne allora deciso di installare un cantiere, cosa che si fece prontamente».

21 Agosto 1868
La drammatica morte, quasi un martirio
L’assassinio per rapina di Don Vachet fu un traumatico dramma per tutta la comunità bardonecchiese e per l’alta valle di Susa. L’evento fu tanto più clamoroso perché interveniva in un momento di grande cambiamento in cui la piccola comunità veniva raddoppiata dai nuovi arrivati del nascente Borgo Nuovo: oltre duemila persone che avevano lasciato tutto per lavorare al cantiere del traforo del Frejus. I colpevoli non vennero mai individuati e pertanto non vi fu nemmeno un processo penale.
Non ne parlano i giornali dell’epoca, nonostante fosse stato fermato un sospetto, neppure per dare la notizia delle esequie imponenti, celebrate fra la commozione e il compianto generale. Per cui è tanto più preziosa la relazione del 23 agosto 1868 del parroco di Melezet Don Giovanni Allois, inviata al Vicario Capitolare della Diocesi di Susa Monsignor Giuseppe Sciandra, per conoscere la versione esatta di quanto accaduto.

«Rev.mo Mons.Vicario Capitolare, già il dispaccio telegrafico, diretto ieri l’altro alle autorità circondariali, non chè il corriere del 21 andante mese avran reso consapevole la S.V. Ill.ma e Rev.ma dell’orribile disgrazia toccata a quell’Ecclesiastico Vicariato, voglio dire la tragica morte dell’ottimo vecchio D. Giuseppe Maria Vachet, Parroco Vicario foraneo il quale nella notte precedente venne svaligiato e ucciso nella propria stanza da letto con undici coltellate al fianco sinistro anteriore, ed alcune contusioni al capo. Requiescat in Domino! Appena sparsasi con la rapidità di un fulmine tal notizia nella Parrocchia e nei paesi vicini, fu unanime il pianto e la desolazione dura tutt’ora fra gli ecclesiastici desolati fino alle viscere, fra le autorità civili tutte oltre ogni dire commosse, fra i popolani di questi siti tutti spaventati… ecc… Avend’io solo fra i parroci presenziato le fiscali procedure, fo noto quanto segue alla S.V. Reverendissima e Car.ma. Il S. Don Vachet d’anni 74, mesi tre circa, godeva perfetta salute, e ritornando dal passeggio cenava alla ora solita, ed andava poscia al riposo. Verso le ore 11 e ¾ udissi dal vicino Guardia Canale Goria qualche voce confusa (al soccorso, al soccorso) l’orologio della stanza parrocchiale, che venne dislocato (fatto cadere) dal camino, si fermò sulle ore 0, minuti 40 dopo la mezzanotte. Argomentasi però che i ladri in numero ignoto, col mezzo di una scala esistente nell’attiguo giardino, salirono per una delle tre superiori finestre sotto il porticato anteriore, e da questa camera penetrarono nel corridoio e nella stanza da notte del Sig. parroco Vachet, le finestre non avendo inferriate e le porte non essendo chiuse a chiave. Allora compissi, e lo sa il Signore, qual strage!!!, per trovare carta moneta, dicesi!!!
“Auri sacra fames, quid non mortalia pectora cogis… horribile dictu…”.
I titoli e cedole della fabbriceria parrocchiale non furono rubati, ma il resto svanì ecc. Tutte le carte, pieghi e quinterni esistenti in un genuflettorio ed in uno scrigno, furono messi sottosopra e lasciati sparpagliati attorno; probabilmente il parroco alzatosi dal letto colla semplice camicia, fu costretto di somministrare le chiavi che restavano ai rispettivi armadi aperti. Commesso il doppio delitto, i malfattori se la svignarono per la stessa via d’ingresso, lasciando ancora sulla muraglia bassa del porticato e giardino, un mezzo litro con poca acquavite nel fondo, ritrovato al mattino. Il tutto accadde senza rumore e senza che la vecchia serva Catterina se ne accorgesse menomamente, mentre dormiva saporitamente nella stanza terrena con volta. Il venerdì mattina alle ore sette, non avendo ancora celebrata la Messa, la buona serva si pensò il parroco ammalato, ed entrando nella sua stanza da letto, la trovò con la porta aperta e le finestre chiuse con i volets, e vedendo il parroco prostrato al suolo col capo presso alla porta e rivolto al lambris della stanza, ed alcune gocce di sangue al fianco sinistro, lo credette buonamente vittima di emorragia, ed accorsa dai vicini, ne annunziava singhiozzando la dolorosa perdita, mentre l’uffiziale della posta Folcat ed il Sig. Cav. Agnès accorsi per primi, ne constatarono l’orribile sterminio, riconobbero per i primi le undici o dodici coltellate al fianco sinistro, e la camicia punteggiata di sangue, gli armadi tutti e due aperti e ravvolti, la pendola rimossa come dissi sopra il letto e le vesti solite del signor parroco, intatte al solito luogo vicino. Prima del mezzogiorno (il 21 agosto) il delegato di P.S. (Pubblica Sicurezza) scortato dai reali Carabinieri verificava tutte le anzidette circostanze e ne stendeva immediatamente il suo verbale, trasmesso alla pretura di Oulx, e quest’ultima giunta sul luogo alle ore cinque pomeridiane, si costituì in uffizio fiscale per il relativo procedimento di ricognizione delle circostanze tutte ed apparenti segni del seguito assassinio mentre poi il dottore Peyron assistito dal farmacista Berruti procedevano all’autopsia nell’attigua stanza, donde risultò la perfetta conservazione delle parti tutte dello stomaco e visceri, se non fossero lese da alcune stilettate che attraversarono il cuore e il fegato. Allora giunse
il tribunale di Susa, composto dagli avv. Bertolini e Mancio e RR. Carabinieri che l’indomani mattina (il 22 agosto) procedettero alle legali deposizioni. Un arresto preventivo fu eseguito, ma non sarà il colpevole, e d’altra parte dubbi assai fondati fanno credere che gli autori delinquenti saranno forestieri. Oggi, domenica 23 agosto, alle ore dieci antimeridiane si fecero le solenni esequie e sepoltura, a cui intervennero presso a sei mila persone; anticipate le funzioni domenicali nelle rispettive parrocchie, tutti i parroci e sacerdoti vicini, in numero di 23, con numeroso concorso dei loro rispettivi parrocchiani facevano parte del funebre corteggio, il corpo direttivo del traforo, il consiglio comunale, la fabbriceria parrocchiale e confraternite presenziavano le funzioni. La Chiesa preparata a lutto coll’avamposto piazzale, erano insufficienti a contenere la molteplicità dei fedeli dolenti per tal irreparabile perdita. L’altare principale e i laterali, i lampadari di cristallo, i luminari tutti erano accesi, ed il catafalco illuminato in mezzo del luogo santo; officiava il signor vice curato Don Suspize assistito dai parroci di Arnauds e Millaures, e il Signor Don Valleret ne esponeva l’elogio funebre frammezzo ai singhiozzi del clero e degli assistenti; il pianto comune si frammischiava ai lugubri accenti dell’organo e della musica istrumentale e vocale; la comitiva sepolcrale dirigevasi al cimitero e ne ritornava alle ore pomeridiane mentre tutte le contrade erano affollate di pallide schiere dolentissime. Ognuno malediva gli infami birbanti ignoti e benediceva d’altra parte la memoria del defunto, che la Casa parrocchiale, la Chiesa, le Cappelle, il Cimitero ricorderanno sempre ai secoli futuri: “Eius memoria in benedictione”. Esultino gli assassini del poco denaro rubato (dicesi lire seicento in contanti e lire duemila in cedole di capitale). Egli morì povero qual visse, frugale col tenuissimo reddito annuale della parrocchia che gli fruttava lire cinquecento, ma morì ricco di virtù e di meriti inimitabili; cosicchè potrà dire coll’apostolo: “Bonum certamen certavi… in reliqua reposita est Corona Justitiae quam redet mihi Dominus in illa die, Justus Judex…”. Il Signore ne lo compensi
al centuplo. Don Vachet lascia nel comune di Melezet quattro nipoti, né ricchi, né poveri, ma virtuosi, religiosissimi e degnissimi di tal zio che amavano come padre. Mentre vergo queste linee, le lacrime mi sgorgano dagli occhi perché anch’io perdo nel defunto confratello, un tenero padre, un confidente fratello, un ottimo amico, un ottimo superiore che io amavo come la pupilla dell’occhio, e mi ricambiava d’affetti; sissignore, la perdita di un proprio parente mi fu meno sensibile di quella che incontrai due anni or fa nella sacra persona di Monsignor Odone! E di questa che mi tocca presentemente del buon vecchio Don Giuseppe Maria Vachet… Pazienza!
Almeno, almeno il Signore mi conservi “ad multos et multissimus annos” il vicino collega Don Valleret, ed il carissimo Superiore Vicario Capitolare Giuseppe Sciandra per la cui comune salute e prosperità fo mille voti e preci giornaliere. Ho l’onore d’indirizzarle i presenti cenni necrologici, e ripetomi per sempre della S.V. Ill.ma e Rev.ma

Aff.mo ed obbl.mo servo Gio. Antonio Allois
Parroco di Melezet
Bardonecchia 23-8-1868

Il sepolcro perduto
La preziosa testimonianza di don Allois, con cui si è introdotta questa memoria sulla vita di don Vachet, si conclude con due preziose postille che poniamo a conclusione di questo ricordo. La prima,
vigorosamente animata dallo sconvolgimento per la morte violenta del presule, è rivolta ai suoi stessi persecutori: «Agli assassini. Prendete le nostre ricchezze, sottraeteci la nostra fortuna, abbeverate nelle nostre lacrime la vostra inestinguibile sete, che si estingua nel nostro sangue, se occorre
Crudeli! Qualsiasi cosa ci facciate, noi manterremo inalterato l’amore nei vostri confronti, anche a costo di conseguire la corona dei martiri». Don Giuseppe Maria Vachet venne sepolto nel vecchio cimitero, posto in capo a quella via Medail il cui tracciamento aveva egli stesso progettato per unire il Borgo Nuovo, sorto per i lavori del traforo delle Alpi, al Borgo Vecchio. La sua inumazione avvenne in un sepolcreto posto ai piedi della gran Croce del cimitero. Quando il vecchio camposanto venne traslato nella sua nuova sede, non vi fu cura di conservare la sua tomba e le spoglie di questo straordinario parroco finirono nell’ossario generale. Si potrebbe oggi riparare all’ingiusta incuria ponendo una lapide presso il nuovo ossario del cimitero di Bardonecchia, nell’occasione centocinquantenaria della drammatica morte di un tanto zelante sacerdote, riprendendo il testo riportato nel memoriale di don Allois: «Epitaffio. In questo sepolcro riposa il Teologo Don Giuseppe Maria Vachet, che fu militare, sacerdote, parroco e vicario foraneo di Bardonecchia, di cui era concittadino, in attesa della resurrezione del corpo. In vita fece molto. Morto il 21 agosto 1868, coronato dal martirio, riposi ora in pace. Amen».

Il dott. Marco Albera autore del testo e della conferenza tenuta in S. Ippolito nel 150º anniversario della morte di don Giuseppe Vachet (foto A. Bosco).