Don Giuseppe Maria Vachet
costruttore della Chiesa
di Sant’Ippolito e parroco lungimirante
nel 150º anniversario della morte
(foto Archivio Parrocchiale)
pastore della
comunità di Bardonecchia, anche sul piano civile.
Passati tanti
anni, i rari documenti conservati negli archivi della Diocesi di Susa, della
Parrocchia e del Comune di Bardonecchia, sono preziose e autentiche
testimonianze utili a ricostruire con obiettività la figura di questo Sacerdote
cui si devono il nuovo imponente tempio parrocchiale e le tante opere tese a
riunire l’antico borgo al nuovo che stava sorgendo attorno al cantiere del
traforo del Frejus.
Il documento
più interessante e commuovente, pur nella sua sinteticità, è la Notizia
biografica scritta dal parroco del Melezet, don Giovanni Antonio Allois,
all’indomani della sepoltura di don Vachet, che riportiamo fedelmente nella
traduzione dal francese.
AD
PERPETUAM MEMORIA
Il signor
Giuseppe Maria Vachet, nato il 30 maggio 1794 a Les Arnauds nei pressi di
Bardonecchia,
aveva
terminato i suoi studi classici quando la sorte lo chiamò, all’età di 19 anni,
sotto i vessilli della Grande Armata francese; nonostante fosse ancor giovane,
iniziò con coraggio questa carriera e la percorse con onore; senz’altra
raccomandazione della sua buona condotta e l’applicazione ai suoi doveri,
ottenne ben presto la stima dei suoi superiori e l’affetto dei suoi commilitoni
conseguendo il grado di Sergente-furiere; dopo aver fatto le due campagne di
Germania, bloccato nell’assedio di Amburgo durante l’inverno del 1814, e in
seguito liberato, dovette, alla caduta dell’Impero e alla disfatta della Grande
Armata, rientrare in Piemonte sua patria.
Riprendendo
allora il corso degli studi interrotti, entrò nel Seminario di Susa ove fece
successivamente rapidi progressi nelle scienze filosofiche e teologiche.
Ordinato sacerdote nel 1819, servì dapprima il beneficio del Carmine a Melezet,
poi, nel febbraio 1822, rimpiazzò Don Domenico Chalmas, suo antico precettore,
nella cura parrocchiale di Sant’Antonio: la Chiesa e il presbiterio gli sono
debitori di numerose migliorie operate durante i cinque anni della sua
chiaroveggente amministrazione.
Da Melezet
trasferito a Bardonecchia dall’autorità diocesana, fece il suo ingresso il 6
maggio 1827. In questa parrocchia dal territorio diffuso che egli fecondò con
le sue fatiche per più di 41 anni, pieno di zelo per la gloria di Dio e la
salute delle anime, egli si faceva tutto a tutti nell’esercizio del suo
fruttuoso ministero. Difensore della giustizia, protettore dell’innocenza,
nemico dichiarato di ogni disordine, la sua sollecitudine pastorale non conosceva
limiti, il suo carattere affabile e conciliante sapeva adattarsi a tutte le
possibili circostanze; così mai nulla lo spaventava, nulla lo sconcertava tanto
da lasciare dopo di lui tante buone opere che gli devono l’esistenza, che
rendono manifesta la sua beneficenza ed eterna la sua memoria nei secoli
futuri.
La Chiesa
monumentale di Bardonecchia, che oggi costituisce l’ammirazione degli
stranieri, venne iniziata l’8 settembre 1827 nei primi tempi del suo ministero,
edificata sotto la sua direzione e terminata nel 1831 per sua cura, con il
concorso dei religiosi parrocchiani. L’antico altare maggiore nobilita il suo
vasto santuario, preziosi altari in marmo ne decorano le cappelle laterali,
un’artistica Via Crucis
ne adorna i pilastri, numerose opere d’arte abbelliscono il suo ambiente, un
maestoso organo accompagna le funzioni, una fascinosa orchestra di campane
annuncia le sue solennità, un orologio senza uguali batte anche i quarti d’ora.
Per sua
geniale iniziativa venne ricostruita la canonica, le Cappelle della Parrocchia
sono in parte restaurate o riedificate in modo artistico, è stato realizzato un
grande edificio per l’istruzione dei giovani, un nuovo cimitero è stato
allestito a giusta distanza dalle abitazioni. Se un tratto della via consortile
che riunisce i due borghi di Bardonecchia è tanto ben allineato alla
prospettiva del gigantesco campanile che affianca la Chiesa, se una fabbrica di
legname è stata allestita in questa località per la fornitura del traforo delle
Alpi, se infine il paese è stato tempo fa preservato da un rovinoso incendio, è
ancora merito di Don Vachet, come pure la scoperta della cava di argilla.
La chiesa parrocchiale di Les Arnauds (foto E. Barra). |
Le sue
vaste conoscenze di ogni genere, la sua consumata esperienza nel maneggio delle
cose economiche, i suoi saggi consigli, e soprattutto i suoi capelli bianchi,
gli avevano attirato la stima e la confidenza di tutte le persone buone del suo
paese e della vallata che di sovente venivano a implorare l’aiuto delle sue conoscenze
enciclopediche. Tante belle qualità, tante nobili virtù, tanti rari meriti
avranno reso preziosa la sua morte agli occhi del Signore, mentre noi la
deploriamo e la rimpiangiamo qui in terra.
Le esequie
ebbero luogo il 23 agosto alle ore 10 del mattino, tutta la popolazione della
parrocchia e del circondario vi assistette, ed erano migliaia, testimoniando a
sufficienza, nella compostezza e nel pianto, l’enormità dell’attentato di cui
Don Vachet era stato vittima.
Le sue
spoglie mortali riposano ai piedi della grande Croce del cimitero di Bardonecchia.
«Viatores dicite: Requiscat in Pace».
La giovinezza
di Don Vachet
Giuseppe Maria Vachet era nato a Les Arnauds da Francesco Vachet e da Anna Maria Vallory il 30 maggio 1794, alla vigilia della festa della Visitazione della Beata Vergine Maria. I genitori erano piccoli proprietari terrieri, dei possidenti né poveri né ricchi. È bene ricordare che, da quando la comunità di Les Arnauds aveva riscattato gli antichi diritti feudali, questa era autorizzata a far uso di qualificazioni nobiliari e considerata Signora di Arnaud, come codificato nell’Elenco Ufficiale delle
Giuseppe Maria Vachet era nato a Les Arnauds da Francesco Vachet e da Anna Maria Vallory il 30 maggio 1794, alla vigilia della festa della Visitazione della Beata Vergine Maria. I genitori erano piccoli proprietari terrieri, dei possidenti né poveri né ricchi. È bene ricordare che, da quando la comunità di Les Arnauds aveva riscattato gli antichi diritti feudali, questa era autorizzata a far uso di qualificazioni nobiliari e considerata Signora di Arnaud, come codificato nell’Elenco Ufficiale delle
Famiglie
Nobili e Titolate del Piemonte e confermato ulteriormente dal Decreto
promulgato a Roma dal Re
Umberto I nel 1895. Gente di montagna, fedele alle antiche tradizioni di cui
era orgogliosa custode.
Quando venne alla luce il piccolo Giuseppe Maria, il Piemonte sabaudo era nel
pieno della Guerra delle
Alpi, avendo la Francia rivoluzionaria e giacobina invaso, senza dichiarazione
di guerra, gli stati del
Re di Sardegna, occupando nel settembre 1792 la Savoia e la Contea di Nizza. In
seguito il fronte si
era spostato su tutto l’arco alpino, dal mare alla Valle d’Aosta. Il conflitto
durerà per cinque lunghi anni
sino all’Armistizio di Cherasco del 1796, che preluderà all’esilio dei Savoia
in Sardegna nel dicembre
1798. Il tempo di guerra portò a infiniti sacrifici che coinvolsero le
popolazioni più remote delle
valli montane, anche se la conca Bardonecchiese non fu teatro di episodi
bellici diretti.
È facile
immaginare che anche la famiglia Vachet soffrisse le amare strettezze del
periodo. Compiuti gli studi
elementari, Giuseppe Maria, evidentemente di svegliato ingegno, ebbe
l’occasione di frequentare gli studi superiori nel prestigioso ex Collegio
Reale di Oulx. Ma siamo già nel periodo della dominazione Napoleonica, che
aveva annesso il Piemonte alla Francia dopo la battaglia di Marengo.
Bardonecchia, 1851 (collez. M. Albera). |
La stessa
produzione del pane, che era di segala con poca aggiunta di sorgo e di avena,
avveniva con una sola cottura annuale. Ad integrare la sua scarsità si
provvedeva con le castagne e le prime produzioni di patate. Le case erano
insalubri e la vita comune con gli animali da stalla, pur necessaria per il
riscaldamento in inverno, non favoriva la salute degli abitanti, la cui età
media non superava i quaranta, cinquant’anni. Delle 61 comunità del
dipartimento, quelle dell’alta valle erano 38 con 13.029 abitanti, a fronte dei
48.864 della bassa valle. Ma la lamentela più forte era per il regime fiscale, che
arrivava ad assorbire quasi tutto il poco denaro derivante dalle produzioni
agricole, essendo la tassazione il triplo di quella delle analoghe regioni
transalpine francesi. Unica eccezione positiva era il sistema scolastico, di
origine sabauda, con i tre collegi ex Reali per l’istruzione superiore,
stabiliti da tempo immemorabile a Giaveno, Susa e Oulx. A tal proposito
riferisce che, mentre i primi due istituti erano poco frequentati già prima
della guerra, quello di Oulx formava molti maestri che l’alta valle forniva al
sud della Francia, con un’attitudine quasi naturale all’insegnamento della
scrittura, del la matematica e della lingua francese. Il Vachet, come sappiamo,
frequentò questa ottima scuola, ma, appena terminati gli studi, dovette
interromperli per la chiamata alle armi a servire negli eserciti di Napoleone.
Anche lui, che aveva scelto di seguire la via del sacerdozio, fu vittima della coscrizione
obbligatoria.
Olim miles,
gli studi
interrotti a l’avventura militare
Con la riforma francese del 1802, il dipartimento di Susa, come il resto del Piemonte, arruolava con coscrizione obbligatoria a partire dai 18 anni i suoi giovani in uno specifico reggimento: il 111° Fanteria di linea, detto il Tre paletti per via della sua insegna. Questa truppa servì in tutte le campagne napoleoniche facendo onore alle tradizioni militari piemontesi pur subendo perdite sanguinosissime. Il reggimento, partito per la Campagna di Russia del 1812 con un organico di 4.780 uomini, era rientrato a Francoforte ai primi del 1813 con solo 180 uomini, di cui 70 gravemente feriti. Si rese necessaria una nuova leva in Piemonte, quella che coinvolse anche Giuseppe Maria Vachet, con nuove reclute per 3.900 uomini, a maggio del 1813. Tale reggimento venne coinvolto subito nella nuova campagna di guerra contro Prussiani e Russi, culminata nella battaglia di Lipsia del 16 ottobre, che, durata per tre giorni con oltre 100.000 fra morti e feriti, si concluse con la sconfitta di Napoleone. Con l’armistizio, il 111° Fanteria di linea venne trasferito a Lunenburg, e poi a Lubecca. Il diciannovenne Vachet si distinse per le sue qualità morali e per la sua preparazione culturale, tanto da essere nominato Sergente Furiere, come testimoniato dalla memoria del Parroco di Melezet, Don Allois. Il 2 dicembre si trovò con i suoi commilitoni a Mollen per raggiungere subito dopo il presidio della città di Amburgo, che venne assediata dal 4 del mese. La difesa della città vide affrontarsi 30.000 uomini dell’esercito francese contro 60.000 alleati, su un perimetro trincerato di oltre 40 chilometri. All’inizio del 1814, Napoleone fu costretto ad abbandonare il nord-est dell’Europa per difendere la Francia e Parigi stessa. Il 20 febbraio il 111° Reggimento si trovò isolato con solo più 1.500 uomini in servizio attivo dei 3.100 arruolati l’anno precedente, senza più rifornimenti e con il sostentamento alimentare ridotto a mezza razione. Il Vachet si sarà trovato in gravi difficoltà come Sergente furiere! L’assedio continuò, dimostrando una straordinaria capacità di resistenza da parte dei difensori, sino al 25 aprile, quando Napoleone capitolò a Parigi e venne costretto all’abdicazione.
Con la riforma francese del 1802, il dipartimento di Susa, come il resto del Piemonte, arruolava con coscrizione obbligatoria a partire dai 18 anni i suoi giovani in uno specifico reggimento: il 111° Fanteria di linea, detto il Tre paletti per via della sua insegna. Questa truppa servì in tutte le campagne napoleoniche facendo onore alle tradizioni militari piemontesi pur subendo perdite sanguinosissime. Il reggimento, partito per la Campagna di Russia del 1812 con un organico di 4.780 uomini, era rientrato a Francoforte ai primi del 1813 con solo 180 uomini, di cui 70 gravemente feriti. Si rese necessaria una nuova leva in Piemonte, quella che coinvolse anche Giuseppe Maria Vachet, con nuove reclute per 3.900 uomini, a maggio del 1813. Tale reggimento venne coinvolto subito nella nuova campagna di guerra contro Prussiani e Russi, culminata nella battaglia di Lipsia del 16 ottobre, che, durata per tre giorni con oltre 100.000 fra morti e feriti, si concluse con la sconfitta di Napoleone. Con l’armistizio, il 111° Fanteria di linea venne trasferito a Lunenburg, e poi a Lubecca. Il diciannovenne Vachet si distinse per le sue qualità morali e per la sua preparazione culturale, tanto da essere nominato Sergente Furiere, come testimoniato dalla memoria del Parroco di Melezet, Don Allois. Il 2 dicembre si trovò con i suoi commilitoni a Mollen per raggiungere subito dopo il presidio della città di Amburgo, che venne assediata dal 4 del mese. La difesa della città vide affrontarsi 30.000 uomini dell’esercito francese contro 60.000 alleati, su un perimetro trincerato di oltre 40 chilometri. All’inizio del 1814, Napoleone fu costretto ad abbandonare il nord-est dell’Europa per difendere la Francia e Parigi stessa. Il 20 febbraio il 111° Reggimento si trovò isolato con solo più 1.500 uomini in servizio attivo dei 3.100 arruolati l’anno precedente, senza più rifornimenti e con il sostentamento alimentare ridotto a mezza razione. Il Vachet si sarà trovato in gravi difficoltà come Sergente furiere! L’assedio continuò, dimostrando una straordinaria capacità di resistenza da parte dei difensori, sino al 25 aprile, quando Napoleone capitolò a Parigi e venne costretto all’abdicazione.
Le truppe di
Amburgo ricevettero allora l’ordine di arrendersi ai Russi e il 111°Reggimento si
ritirò nella Cittadella della città. Il 25 maggio, il comando passò dal
generale napoleonico Davout al generale francese Gerard, rappresentante del
sovrano restaurato Luigi XVIII. Il 28 maggio venne decretato lo scioglimento
delle truppe, che vennero congedate al confine con il Lussemburgo. Il 1° agosto,
i 2.259 militari piemontesi superstiti si incamminarono verso le Alpi. Lunga
era ancora la strada per casa e solo il 26 agosto i reduci raggiunsero, sempre
a piedi, il valico del Moncenisio. Fra
questi anche
il Vachet, che sarebbe poi rientrato a Les Arnauds nel mese di settembre.
Rettoria
della Madonna del Carmine a Melezet (foto E. Barra).
Chiesa parrocchiale di Melezet (foto E. Barra).
Chiesa parrocchiale di Melezet (foto E. Barra).
La ripresa
degli studi, il Seminario e il Sacerdozio Giuseppe Maria Vachet fu finalmente
libero di riprendere il filo della propria esistenza: deposti gli abiti
militari da sott’ufficiale in congedo dell’esercito francese, come testimoniato
dalla memoria di Don Allois, riprese il corso degli studi, entrando nel
Seminario di Susa «ove fece successivamente rapidi
progressi nelle scienze filosofiche e teologiche». Ordinato Sacerdote nel 1819, a
venticinque anni, venne inviato a Melezet, ove ebbe nei primi tempi il
beneficio della Cappella di Nostra Signora del Carmine. Nel febbraio del 1822,
subentrò nella cura parrocchiale di Sant’Antonio Abate a Don Domenico Chalmas,
che era stato suo precettore nella prima giovinezza. Nel quinquennio in cui fu Parroco
di Melezet, operò molti miglioramenti nell’antica Chiesa e nel Presbiterio.
A
Bardonecchia: una Parrocchia senza Chiesa…
L’autorità
diocesana lo volle infine Parroco a Bardonecchia, ove restò per quarantuno
anni. Vi fece il suo solenne ingresso il 6 maggio del 1827, promuovendo da
subito la costruzione della nuova grande Chiesa di Sant’Ippolito. Infatti la
situazione dell’antica Chiesa era divenuta drammatica sin dal 1806, anno in cui
aveva ceduto un pilastro portante, provocandone il crollo parziale. I muri
rivelarono i segni di numerosi incendi, il più grave dei quali risaliva al
1584, quando, nel corso delle guerre di religione, i protestanti francesi
Ugunotti avevano tentato di distruggerla. In una memoria di Don Vachet,
custodita nell’archivio parrocchiale, si legge: «In seguito al crollo venne
un architetto della
provincia di Susa, per esaminare la parte della chiesa che ancora sussisteva, ed
essa fu dichiarata inservibile. Si dovette quindi venire nella determinazione
di costruire una nuova chiesa, che non poteva seguire né le fondamenta né la
forma dell’antica, che era lontana da ogni regola di architettura…». Per ventitrè anni ci si era serviti,
per le funzioni parrocchiali, della Cappella della Confraternita di
Sant’Ippolito e San Giorgio, posta dietro l’attuale casa parrocchiale,
all’inizio di Via Tre Croci. Una sede provvisoria, disagiata e insufficiente,
con una situazione economica della parrocchia resa ancora più precaria in
seguito alla soppressione da parte del governo francese dei benefici
parrocchiali, con le relative rendite, di Sant’Antonio, dell’Annunziata, di
Santa Croce, di Sant’Anna, di San Giuseppe e di Santa Margherita, costituiti da
lasciti di terreni e di somme in denaro per le messe.
Occorreva dunque una fede fortissima e tenace come quella di Don Vachet per intraprendere la nuova costruzione. Il nuovo
parroco aveva chiesto nel 1826 al notaio Jean Agnés di intervenire presso lo
stesso Sovrano, il Re Carlo Felice, per ottenere una significativa provvidenza.
Questi,
grazie all’intervento dei suoi congiunti nobili Agnés Des Geneys, ottenne udienza
e una somma di lire 3.000, veramente cospicua per quell’epoca. Si potè così
iniziare la demolizione dell’antico edificio originariamente dedicato a Sancta
Maria ad Lacum. Narrano ancora le memorie del nostro Parroco: «Sin dai
primi secoli del Cristianesimo Bardonecchia ebbe una piccola chiesa, come
abbiamo potuto constatare nella demolizione della vecchia chiesa e nello scavo
delle fondamenta della nuova. Essa era composta da una sola navata, che si
prolungava fino alla estremità del vecchio campanile, che esiste ancora.
Abbiamo scoperto che il vecchio campanile (del secolo XIV) è stato costruito
sulle fondamenta di una torre rotonda, trovata a 8 piedi di profondità». Il
nuovo tempio poteva prendere forma, ma chi fu l’autore del progetto? Nel suo
memoriale, don Vachet fa qualche ammissione: «Tutto venne fatto senza l’assistenza
di alcun architetto, ma per effetto dei nostri pochi studi e conoscenze». La
domenica del 9 settembre del 1827, vi fu la cerimonia della posa
della prima pietra. Come di consuetudine, venne sigillata al suo interno una
pergamena con l’iscrizione in lingua latina. Ecco la traduzione del testo: «Questa
prima pietra venne posta il giorno 9 settembre 1827,regnando Carlo Felice, con
la protezione dei nobili Des Geneys, essendo vescovo di Susa Francesco Vincenzo
Lombard, don Giuseppe Maria Vachet parroco e indefesso moderatore, Giovanni
Agnés notaio zelante procuratore della chiesa, essendo sindaco Matteo Francesco
Gèrard». Ancora don Vachet annota l’andamento del primo cantiere: «Fu
preparata sul luogo una fornace per cuocere la calce, mentre si continuava lo
scavo delle fondamenta della navata centrale, sino alla profondità di 15 piedi.
Gli stalli del Coro del XV sec. appartenuto all’Abbazia di Novalesa e acquistato da don Vachet (foto E. Barra). |
Monsignor
Pierantonio Cirio, Vescovo di Susa (Archivio Parrocchiale).
Intanto, la
Cappella della Confraternita di Sant’Ippolito e San Giorgio, nel gennaio 1829, era
stata dichiarata pericolante dal genio civile di Susa ed interdetta al culto
dal vescovo di Susa.
Il Santissimo
Sacramento venne traslato e custodito nella sala maggiore della casa comunale!
Si dovette
forzatamente officiare nella nuova chiesa, ancora priva degli infissi
definitivi e del portale. Il giorno di Ognissanti del 1829, si trasportò solennemente
il Santissimo Sacramento e nell’inverno si fece il pavimento in legno e vennero
installati gli stalli dell’antico coro dell’Abbazia della Novalesa, che, dopo
la sua soppressione forzata, erano stati posti in vendita. Venne ricostruito
anche l’antico e prezioso altare in cui vi fu inserito l’originario tabernacolo
dorato e venne nuovamente innalzata l’ancona dedicata a Sant’Ippolito e San
Giorgio. Fu pure costruita la tribuna in legno, sopra il portale, destinata all’organo.
Ultimata la
chiesa con un ulteriore sostegno del re Carlo Felice, restava da risolvere il
problema del campanile, troppo basso rispetto alla nuova costruzione e che non
riusciva a far sentire il suono delle campane a tre quarti del paese. Don
Vachet ne progettò uno nuovo, che, essendo molto alto, richiese fondazioni
profonde. Tutta la popolazione si tassò volontariamente ancora una volta, con il
Cavalier Agnés des Geneys che iniziò la pubblica sottoscrizione con il dono di
ben 2.000 lire. Nel 1830 il campanile era ultimato e venne completata la
copertura in lose. Al culmine del tetto, venne posta finalmente la Croce in
ferro. Nel 1832 don Vachet acquistò l’orologio per la torre campanaria, dotato
di concerto di campane, che batteva anche i quarti d’ora. La cerimonia della
consacrazione del nuovo tempio fu il coronamento di tante comuni fatiche:
avvenne il 14 luglio del 1833 da parte del vescovo di Susa, Monsignor
Pierantonio Cirio, alla presenza del Ministro Agnés des Geneys, in rappresentanza
del re Carlo Felice che tanto vi aveva contribuito. Infine, nel 1863, venne
installato il potente organo dei torinesi F.lli Collino.
Dalle
memorie autografe di don Vachet
Fra i pochi
documenti d’archivio due autografi dello stesso Don Vachet, scritti nel
francese dell’epoca, sono di molto interesse. Il primo, relativo allo sventato
incendio del Borgovecchio del 1843, e il secondo contenente le osservazioni e
memorie relative al Traforo del Cenisio, in epoca successiva al 1858, a
testimonianza del suo misconosciuto quanto decisivo contributo all’opera
ingegneristica che avrebbe portato allo sviluppo futuro di Bardonecchia e della
sua vallata.
L’incendio
del 1843
«Nel 1843,
il 9 dicembre, alle ore cinque e un quarto del pomeriggio era scoppiato un
incendio presso la casa di Giuseppe Francou che, favorito da un vento
spaventoso, avrebbe causato una propagazione generale se solo vi fosse stato
qualche secondo di ritardo (nell’intervenire). Si era lasciato cadere un
piccolo carbone vicino a della paglia sbriciolata, che subito prese fuoco, posta
davanti alla porta dove erano delle fascine grossolane che insieme a della
canapa a mezzo fusto, che era appesa a fianco della grande porta d’ingresso,
sopra la quale vi era un’altra grande quantità di fascine di legno secco, con
dietro della paglia. Il fuoco si stava sviluppando mentre io ero in questa
strada: una persona che era vicino al canale mi fece osservare il chiarore, e
mi misi a correre verso quella luce. Intanto le stoppie e la canapa bruciavano
con fiamme alte oltre venti piedi sopra la casa. In quell’istante mi sono
gettato in mezzo al fuoco, ho preso il mucchio di stoppie che alimentava queste
fiamme, portandole fuori dalla portata delle scintille.
Nel
frattempo era stato dato l’allarme e si era suonata la campana a martello. La
folla che era accorsa fu testimone delle mie ferite, avevo la mano destra
completamente annerita e la guancia e
l’orecchio ustionati. L’indomani, che era giorno di domenica, ho dovuto
celebrare (la Messa) in tali condizioni in cui rimasi per altri quindici giorni.
Quanti si trovarono fuori delle abitazioni durante l’incendio, avevano visto un
bagliore che rischiarava tutto il paese, anche se l’allarme era stato dato
prontamente».
Osservazioni
sul Traforo delle Alpi da Bardonecchia a Modane e sulla cava
d’argilla che è stata impiegata per fabbricare i mattoni del Tunnel
«A partire dall’anno 1838 le costruzioni di strade ferrate erano in opera ovunque ma i trasporti ferroviari tra la Savoia e l’Italia non si potevano realizzare se non con il traforo delle Alpi. Il Signor Giuseppe Medail, figlio di Francesco di Bardonecchia, imprenditore a Lione, convenne con me che questo traforo fra Bardonecchia e Modane, non si poteva fare se non attraverso la montagna del Fréjus. L’ho esortato caldamente a fare un progetto di massima da presentare al Ministero. Egli fece venire l’Ing. Carlo Pozzo, inventore di uno strumento per la misura delle distanze e delle altitudini. L’osservazione effettuata venne trovata soddisfacente, dimostrando che era possibile la realizzazione di una strada ferrata e ne venne inviata una memoria al Ministero dei Lavori Pubblici. Questo genere di lavori non si erano ancora sperimentati nei nostri stati, ma studi analoghi erano stati effettuati per gli Appennini e le Alpi, per cui erano stati chiamati dal Belgio l’Ing.Maus e il Sig.Mombaux (?). Da allora ho avuto l’onore di ospitare questi Ingegneri a causa della mancanza di alberghi. Hanno fatto studi sul traforo e sulla pendenza (del tracciato) da qui a Susa: studi soddisfacenti che hanno permesso di progettare il traforo delle Alpi e, nello stesso tempo quello degli Appennini, ma quest’ultimo venne accantonato sin dal 1837.
«A partire dall’anno 1838 le costruzioni di strade ferrate erano in opera ovunque ma i trasporti ferroviari tra la Savoia e l’Italia non si potevano realizzare se non con il traforo delle Alpi. Il Signor Giuseppe Medail, figlio di Francesco di Bardonecchia, imprenditore a Lione, convenne con me che questo traforo fra Bardonecchia e Modane, non si poteva fare se non attraverso la montagna del Fréjus. L’ho esortato caldamente a fare un progetto di massima da presentare al Ministero. Egli fece venire l’Ing. Carlo Pozzo, inventore di uno strumento per la misura delle distanze e delle altitudini. L’osservazione effettuata venne trovata soddisfacente, dimostrando che era possibile la realizzazione di una strada ferrata e ne venne inviata una memoria al Ministero dei Lavori Pubblici. Questo genere di lavori non si erano ancora sperimentati nei nostri stati, ma studi analoghi erano stati effettuati per gli Appennini e le Alpi, per cui erano stati chiamati dal Belgio l’Ing.Maus e il Sig.Mombaux (?). Da allora ho avuto l’onore di ospitare questi Ingegneri a causa della mancanza di alberghi. Hanno fatto studi sul traforo e sulla pendenza (del tracciato) da qui a Susa: studi soddisfacenti che hanno permesso di progettare il traforo delle Alpi e, nello stesso tempo quello degli Appennini, ma quest’ultimo venne accantonato sin dal 1837.
Iniziato
il tunnel, era necessaria una cava di pietre adatte a rivestire la volta o una
cava d’argilla per la fabbricazione dei mattoni. La cava di pietre non esisteva
quassù, per cui le pietre avrebbero dovuto essere tagliate e trasportate con
spese insostenibili e si dovette ripiegare sulla cava di argilla.
Si fecero
ricerche in molte località e se ne trovò, ma in quantità insufficienti e dal
trasporto troppo costoso. Comunque si decise di cavare l’argilla dal pianoro
della Scala, dove se ne trovava in quantità e si diede l’incarico della
fabbricazione dei mattoni ancora a un costo molto alto.
L’Ing.
Grattoni, Ingegnere Capo, aveva ancora raccomandato di fare tutte le ricerche
possibili.
Ecco che
qualche giorno prima dell’assegnazione dell’appalto per la fabbricazione dei
mattoni ebbi un incontro con l’Ingegner Beraud in cui gli feci presente delle
mie conoscenze in fatto di geologia e delle osservazioni che avevo fatto sui
terreni argillosi: gli dissi che se si fosse scavato nella profondità di metri
due nella proprietà di Lorenzo Lantelme situata in località “aux Salles”,
proprietà sulla quale avevo dei diritti, si sarebbe trovata un’argilla di
qualità superiore a quella della Scala e in grande quantità. Venne subito
avvisato l’Ing. Borrelli: era il 9 agosto 1858. In quello stesso giorno vennero
mandati degli operai che sembrava non dovessero trovare nulla, dato che non si
era ancora scavato in profondità, ma il giorno successivo venne trovata l’argilla,
con grande soddisfazione di tutti gli impiegati del governo, poiché si potevano
risparmiare molti milioni, mentre da parte del governo stesso si doveva ancora
verificare la quantità necessaria. Si fecero dei saggi in tutta la piana e
risultò che lo spessore era da due a cinque metri: venne allora deciso di
installare un cantiere, cosa che si fece prontamente».
21 Agosto
1868
La
drammatica morte, quasi un martirio
L’assassinio
per rapina di Don Vachet fu un traumatico dramma per tutta la comunità
bardonecchiese e per l’alta valle di Susa. L’evento fu tanto più clamoroso
perché interveniva in un momento di grande cambiamento in cui la piccola
comunità veniva raddoppiata dai nuovi arrivati del nascente Borgo Nuovo: oltre
duemila persone che avevano lasciato tutto per lavorare al cantiere del traforo
del Frejus. I colpevoli non vennero mai individuati e pertanto non vi fu
nemmeno un processo penale.
Non ne parlano
i giornali dell’epoca, nonostante fosse stato fermato un sospetto, neppure per dare
la notizia delle esequie imponenti, celebrate fra la commozione e il compianto
generale. Per cui è tanto più preziosa la relazione del 23 agosto 1868 del
parroco di Melezet Don Giovanni Allois, inviata al Vicario
Capitolare della Diocesi di Susa Monsignor Giuseppe Sciandra, per conoscere la
versione esatta di
quanto accaduto.
«Rev.mo
Mons.Vicario Capitolare, già il dispaccio telegrafico, diretto ieri l’altro
alle autorità circondariali, non chè il corriere del 21 andante mese avran reso
consapevole la S.V. Ill.ma e Rev.ma dell’orribile disgrazia toccata a
quell’Ecclesiastico Vicariato, voglio dire la tragica morte dell’ottimo vecchio
D. Giuseppe Maria Vachet, Parroco Vicario foraneo il quale nella notte
precedente venne svaligiato e ucciso nella propria stanza da letto con undici
coltellate al fianco sinistro anteriore, ed alcune contusioni al capo.
Requiescat in Domino! Appena sparsasi con la rapidità di un fulmine tal notizia
nella Parrocchia e nei paesi vicini, fu unanime il pianto e la desolazione dura
tutt’ora fra gli ecclesiastici desolati fino alle viscere, fra le autorità
civili tutte oltre ogni dire commosse, fra i popolani di questi
siti tutti spaventati… ecc… Avend’io solo fra i parroci presenziato le fiscali
procedure, fo noto quanto segue alla S.V. Reverendissima e Car.ma. Il S. Don
Vachet d’anni 74, mesi tre circa, godeva perfetta salute, e ritornando dal
passeggio cenava alla ora solita, ed andava poscia al riposo. Verso le ore 11 e
¾ udissi dal vicino Guardia Canale Goria qualche voce confusa (al soccorso, al
soccorso) l’orologio della stanza parrocchiale, che venne dislocato (fatto cadere)
dal camino, si fermò sulle ore 0, minuti 40 dopo la mezzanotte. Argomentasi
però che i ladri in numero ignoto, col mezzo di una scala esistente
nell’attiguo giardino, salirono per una delle tre superiori finestre sotto il
porticato anteriore, e da questa camera penetrarono nel corridoio e nella
stanza da notte del Sig. parroco Vachet, le finestre non avendo inferriate e le
porte non essendo chiuse a chiave. Allora compissi, e lo sa il Signore, qual
strage!!!, per trovare carta moneta, dicesi!!!
“Auri
sacra fames, quid non mortalia pectora cogis… horribile dictu…”.
I titoli e
cedole della fabbriceria parrocchiale non furono rubati, ma il resto svanì ecc.
Tutte le carte, pieghi e quinterni esistenti in un genuflettorio ed in uno
scrigno, furono messi sottosopra e lasciati sparpagliati attorno; probabilmente
il parroco alzatosi dal letto colla semplice camicia, fu costretto di
somministrare le chiavi che restavano ai rispettivi armadi aperti. Commesso il
doppio delitto, i malfattori se la svignarono per la stessa via d’ingresso,
lasciando ancora sulla muraglia bassa del porticato e giardino, un mezzo litro
con poca acquavite nel fondo, ritrovato al mattino. Il tutto accadde senza
rumore e senza che la vecchia serva Catterina se ne accorgesse menomamente,
mentre dormiva saporitamente nella stanza terrena con volta. Il venerdì mattina
alle ore sette, non avendo ancora celebrata la Messa, la buona serva si pensò
il parroco ammalato, ed entrando nella sua stanza da letto, la trovò con la
porta aperta e le finestre chiuse con i volets, e vedendo il parroco prostrato
al suolo col capo presso alla porta e rivolto al lambris della stanza, ed
alcune gocce di sangue al fianco sinistro, lo credette buonamente vittima di emorragia,
ed accorsa dai vicini, ne annunziava singhiozzando la dolorosa perdita, mentre
l’uffiziale della posta Folcat ed il Sig. Cav. Agnès accorsi per primi, ne
constatarono l’orribile sterminio, riconobbero per i primi le undici o dodici
coltellate al fianco sinistro, e la camicia punteggiata di sangue, gli armadi
tutti e due aperti e ravvolti, la pendola rimossa come dissi sopra il letto e
le vesti solite del signor parroco, intatte al solito luogo vicino. Prima del
mezzogiorno (il 21 agosto) il delegato di P.S. (Pubblica Sicurezza) scortato
dai reali Carabinieri verificava tutte le anzidette circostanze e ne stendeva
immediatamente il suo verbale, trasmesso alla pretura di Oulx, e quest’ultima
giunta sul luogo alle ore cinque pomeridiane, si costituì in uffizio fiscale per
il relativo procedimento di ricognizione delle circostanze tutte ed apparenti
segni del seguito assassinio mentre poi il dottore Peyron assistito dal
farmacista Berruti procedevano all’autopsia nell’attigua stanza, donde risultò
la perfetta conservazione delle parti tutte dello stomaco e visceri, se non
fossero lese da alcune stilettate che attraversarono il cuore e il fegato.
Allora giunse
il
tribunale di Susa, composto dagli avv. Bertolini e Mancio e RR. Carabinieri che
l’indomani mattina (il 22 agosto) procedettero alle legali deposizioni. Un
arresto preventivo fu eseguito, ma non sarà il colpevole, e d’altra parte dubbi
assai fondati fanno credere che gli autori delinquenti saranno forestieri.
Oggi, domenica 23 agosto, alle ore dieci antimeridiane si fecero le solenni esequie
e sepoltura, a cui intervennero presso a sei mila persone; anticipate le
funzioni domenicali nelle rispettive parrocchie, tutti i parroci e sacerdoti
vicini, in numero di 23, con numeroso concorso dei loro rispettivi parrocchiani
facevano parte del funebre corteggio, il corpo direttivo del traforo, il
consiglio comunale, la fabbriceria parrocchiale e confraternite presenziavano le
funzioni. La Chiesa preparata a lutto coll’avamposto piazzale, erano
insufficienti a contenere la molteplicità dei fedeli dolenti per tal irreparabile
perdita. L’altare principale e i laterali, i lampadari di cristallo, i luminari
tutti erano accesi, ed il catafalco illuminato in mezzo del luogo santo;
officiava il signor vice curato Don Suspize assistito dai parroci di Arnauds e
Millaures, e il Signor Don Valleret ne esponeva l’elogio funebre frammezzo ai
singhiozzi del clero e degli assistenti; il pianto comune si frammischiava ai
lugubri accenti dell’organo e della musica istrumentale e vocale; la comitiva
sepolcrale dirigevasi al cimitero e ne ritornava alle ore pomeridiane mentre
tutte le contrade erano affollate di pallide schiere dolentissime. Ognuno
malediva gli infami birbanti ignoti e benediceva d’altra parte la memoria del
defunto, che la Casa parrocchiale, la Chiesa, le Cappelle, il Cimitero
ricorderanno sempre ai secoli futuri: “Eius memoria in benedictione”. Esultino
gli assassini del poco denaro rubato (dicesi lire seicento in contanti e lire duemila
in cedole di capitale). Egli morì povero qual visse, frugale col tenuissimo
reddito annuale della parrocchia che gli fruttava lire cinquecento, ma morì
ricco di virtù e di meriti inimitabili; cosicchè potrà dire coll’apostolo:
“Bonum certamen certavi… in reliqua reposita est Corona Justitiae
quam redet mihi Dominus in illa die, Justus Judex…”. Il Signore ne lo compensi
al
centuplo. Don Vachet lascia nel comune di Melezet quattro nipoti, né ricchi, né
poveri, ma virtuosi, religiosissimi e degnissimi di tal zio che amavano come
padre. Mentre vergo queste linee, le lacrime mi sgorgano dagli occhi perché
anch’io perdo nel defunto confratello, un tenero padre, un confidente fratello,
un ottimo amico, un ottimo superiore che io amavo come la pupilla dell’occhio,
e mi ricambiava d’affetti; sissignore, la perdita di un proprio parente mi fu
meno sensibile di quella che incontrai due anni or fa nella sacra persona di
Monsignor Odone! E di questa che mi tocca presentemente del buon vecchio Don
Giuseppe Maria Vachet… Pazienza!
Almeno,
almeno il Signore mi conservi “ad multos et multissimus annos” il vicino
collega Don Valleret, ed il carissimo Superiore Vicario Capitolare Giuseppe
Sciandra per la cui comune salute e
prosperità fo mille voti e preci giornaliere. Ho l’onore d’indirizzarle i
presenti cenni necrologici, e ripetomi per sempre della S.V. Ill.ma e Rev.ma
Aff.mo ed
obbl.mo servo Gio.
Antonio Allois
Parroco di
Melezet
Bardonecchia
23-8-1868
Il
sepolcro perduto
La preziosa
testimonianza di don Allois, con cui si è introdotta questa memoria sulla vita
di don Vachet, si conclude con due preziose postille che poniamo a conclusione
di questo ricordo. La prima,
vigorosamente
animata dallo sconvolgimento per la morte violenta del presule, è rivolta ai
suoi stessi persecutori: «Agli assassini. Prendete le nostre ricchezze,
sottraeteci la nostra fortuna, abbeverate nelle nostre lacrime la vostra
inestinguibile sete, che si estingua nel nostro sangue, se occorre
Crudeli!
Qualsiasi cosa ci facciate, noi manterremo inalterato l’amore nei vostri
confronti, anche a costo di conseguire la corona dei martiri». Don Giuseppe Maria Vachet venne sepolto
nel vecchio cimitero, posto in capo a quella via Medail il cui tracciamento
aveva egli stesso progettato per unire il Borgo Nuovo, sorto per i lavori del
traforo delle Alpi, al Borgo Vecchio. La sua inumazione avvenne in un
sepolcreto posto ai piedi della gran Croce del cimitero. Quando il vecchio
camposanto venne traslato nella sua nuova sede, non vi fu cura di conservare la
sua tomba e le spoglie di questo straordinario parroco finirono nell’ossario
generale. Si potrebbe oggi riparare all’ingiusta incuria ponendo una lapide
presso il nuovo ossario del cimitero di Bardonecchia, nell’occasione
centocinquantenaria della drammatica morte di un tanto zelante sacerdote,
riprendendo il testo riportato nel memoriale di don Allois: «Epitaffio. In
questo sepolcro riposa il Teologo Don Giuseppe Maria Vachet, che fu militare,
sacerdote, parroco e vicario foraneo di Bardonecchia, di cui era concittadino, in
attesa della resurrezione del corpo. In vita fece molto. Morto il 21 agosto
1868, coronato dal martirio, riposi ora in pace. Amen».
Il dott. Marco Albera autore del testo e della conferenza tenuta in S. Ippolito nel 150º anniversario della morte di don Giuseppe Vachet (foto A. Bosco).