I Santi
di Don Bellando: Suor Consolata
Betrone è Venerabile
Nell’elenco dei “santi” che aveva conosciuto, stilato più volte sul Bollettino parrocchiale, Mons. Bellando inserì anche Suor Consolata Betrone che il 6 aprile 2019 è stata dichiarata Venerabile, passo decisivo nel processo verso la beatificazione per giungere alla quale manca ora soltanto il riconoscimento di un miracolo.
La provvidenza ha voluto
che all’inizio del 2013 la Causa di beatificazione della Betrone mi venisse affidata
dalla Santa Sede in qualità di Relatore presso la Congregazione delle Cause dei
Santi in Vaticano. Ricordando bene ciò che di lei aveva scritto il mio parroco ed
anche i suoi racconti, sempre vivaci e appassionanti, in proposito, mi accinsi a
studiare la mole della Documentazione e a guidare i lavori per la stesura e la conclusione
della Positio che era
già arrivata a buon punto, riuscendo a concluderli nell’ottobre dello stesso anno.
Il materiale era molto ricco, ma in particolare bisognava esaminare trenta testimonianze:
6 dal processo “ne pereant probationes” del 1994, riguardanti deposizioni di consorelle
della Serva di Dio; 23 del Processo ordinario di Torino, sottoscritte da 18 laici,
1 consorella, 2 suore di un altro istituto, 1 religioso e 1 presbitero; ancora una
da parte di una consorella tratta dal Processo Rogatoriale del 1997. Era in composizione
un’ampia e dettagliata Biografia Documentata, nella quale si possono studiare in
modo completo e particolareggiato tutte le fasi del percorso interiore di Suor Consolata,
partendo dall’infanzia e dall’ambiente famigliare, proseguendo con le vicende del
percorso vocazionale. Di rilievo teologico è stato l’ampio numero di pagine dedicate
al parallelo con la spiritualità di S. Teresa di Gesù Bambino. Era, inoltre, necessario
presentare un’ampia sezione riguardante il parere dei Censori Teologi relativamente
agli scritti di Suor Consolata. Essi non solo hanno accertato l’ortodossia dei contenuti
esaminati, ma hanno addirittura evidenziato la pregevolezza dei componimenti della
Venerabile. Erano pagine di qualificato spessore teologico che contribuiscono a
fornire un quadro esauriente circa le doti interiori e la testimonianza evangelica
della Betrone.
Forse non potete neppure
immaginare con quanta emozione, nel mio ufficio di Relatore in Vaticano, scoprii
tra le testimonianze rilasciate prima dell’apertura del Processo, una trentina,
quella di Monsignor Francesco Bellando, rilasciata su carta intestata della Parrocchia
di S. Ippolito in Bardonecchia il 16 gennaio 1967. È la testimonianza n.14 pubblicata
nella Biografia Documentata della Positgio P. III, cap. VII, pagg. 709-711, accompagnata
da un biglietto indirizzato alla Madre Badessa: “Rev. Madre, finalmente ho trovato
un momento libero per il suo questionario. Ho risposto con semplicità e in coscienza.
Ne faccia ciò che crede meglio. Certamente nel nuovo spirito postconciliare la Causa
di Suor Consolata soffrirà lunghe difficoltà, ma l’esempio che tutti possiamo ricavare
dalla sua vita è grande. Mi parlavano a Roma di Sr. Josepha Menendez delle religiose
del Sacro Cuore e mi dicevano la stessa cosa: nella sua santità vi trovano molto
sentimento più che un’imitazione profonda del Vangelo, un senso limitato della Chiesa,
ecc…
Il Postulatore saprà fare lui che conosce la
prassi della Chiesa e sa che i Santi per arrivare agli Altari devono essere aiutati.
Ho bisogno
di preghiera per me e per le mie intenzioni.
Mi ricordi a tutte e alla mia figlioccia Suor
Bianca. Suo dev.mo in Cristo. Firmato Francesco Bellando.!”
Suor Consolata nel giardino del monastero
Le considerazioni di don
Bellando sono molto profonde, prima di tutto perché profeticamente indica chiaramente
le difficoltà che oggettivamente la Causa avrebbe avuto, – e sarà così – dovette
infatti aspettare ben 50 anni prima di essere introdotta ufficialmente, da parte
del Cardinale Saldarini l’8 febbraio 1995 nella Basilica di Maria Ausiliatrice in
Torino e certamente l’accenno che il parroco di Bardonecchia fa al clima postconciliare
è azzeccato. Si andava cercando infatti una santità di tipo più operativa, sociale
e meno sentimentale e nello stesso tempo una visione di Chiesa aperta, ecumenica
e rinnovata, non certo quella che si aveva ancora ai tempi di Suor Consolata. L’altro
aspetto degno di nota è la sottolineatura che fa don Bellando quando scrive alla
Madre che: “i santi per arrivare agli Altari hanno bisogno di aiuto”, nel senso
che ci vuole un gran lavoro di raccolta di prove, testimonianze e documenti e don
Bellando l’aveva ben imparato nei suoi anni romani, quando era in contatto Mons.
Traglia, poi Cardinale Vicario di Roma, che era Sotto Promotore della Fede ed aveva
le mani in pasta nelle procedure canoniche, come don Bellando ricordava spesso ed
ha scritto anche sul bollettino. Diceva che in romanesco Traglia diceva che per
loro, per arrivare alla conclusione: “ce vuole ‘na toccatina…”.
Nella sua dichiarazione don Bellando fa considerazioni
che sono comuni ad altri testi e che saranno difficoltà affrontate dai teologi prima
e poi dai padri Cardinali e vescovi che hanno giudicato e votato a nome del Papa,
poi chiarite e superate con supplementi di indagine. Pubblichiamo qui di seguito
i punti interessanti della sua testimonianza tralasciando gli altri più ovii o generici.
Bardonecchia 16 gennaio 1967
Il sottoscritto Mons. Francesco
Bellando, Parroco-Vicario Foraneo di Bardonecchia (Torino) Diocesi di Susa, risponde
alle domande del Questionario ricevuto dal Monastero delle Cappuccine di Moriondo
di Moncalieri su Suor Consolata Betrone dello stesso Monastero.
1° Ho conosciuto personalmente
Suor Consolata il giorno della sua Professione religiosa solenne. La ricordo benissimo
alla grata del parlatorio con la corona di spine in capo. Da quel tempo fui in relazione
personale e per iscritto.
2° Di lei in particolare
ricordo un senso di gioia dovuta alla sua espansività naturale, il suo parlare vivace,
i suoi movimenti spigliati che si notavano in mezzo alle altre Monache di solito
più compassate, ritirate, silenziose.
3° Certamente splendeva in
lei una grande Fede; anche le sue espressioni lo rilevavano nelle minime e nelle
grandi cose, ad es. durante la sua malattia che la portò per qualche tempo all’Ospedale
S. Luigi di Torino. (omissis)
4° Circa il carattere sentii
dire che a volte era un po’ pronta nel reagire, ma non posso dire di più perché
i miei rapporti con lei furono solo alla grata e per lettera, in cui tutto traboccava
di spirito di fede. Di fronte alla sofferenza fisica per me fu sempre edificante;
tutto accoglieva dalle mani di Dio e tutto offriva per i peccatori, per la riparazione,
per le anime, per i sacerdoti, ecc.
5° omissis 6° omissis
7° Circa lo zelo missionario
ed ecclesiale penso che ne avesse molto indirettamente anche attraverso la sua Opera
“Piccolissima via d’amore” per quanto il suo zelo fosse ormai riservato esclusivamente
tutto per questa sua Opera. Sentendosi incaricata da Dio per questa “Piccolissima
via d’amore”, tutto convergeva su questo punto. Circa l’osservanza della Regola
penso sia stata esemplare.
8° La virtù che maggiormente
trovai in lei fu quella della Fede, anche se l’esprimeva con un linguaggio un po’
sentimentale, mistico, con frasi amorose, a volte un po’ puerili. Era un po’ il
linguaggio del tempo, in cui la santità, la vita interiore si esprimeva tutta così,
sempre sulla linea delle Rivelazioni.
9° Di lei mi sono formato
il concetto di un’anima bella, sacrificata, ricca di Fede vera, e per essere cosciente
devo aggiungere “un po’ insistente per le sue idee personali”. Mi confidò avvenimenti
che dovevano succedere a breve scadenza e che poi, praticamente, non avvennero,
ecc. Era certo sostenuta dal Confessore, che conoscendola intimamente accettava
tutto il suo pensiero.
La sua vita dovrebbe essere
trattata con molta discrezione, lasciando cadere cose di rivelazione personale,
e mettendo in rilievo lo spirito di fede, di sacrificio, il desiderio di progresso
che coltivò in tutta la sua esistenza. Penso che così potrebbe essere di esempio
a tutte le anime, a tutta la Chiesa, altrimenti avrebbe poco da dire, soprattutto
dopo il Concilio.
In
fede mi sottoscrivo con deferenza e stima profonda per le monache cappuccine.”
Firmato Don Francesco Bellando
Parroco
Vicario F. di Bardonecchia
Ecco il contributo importante dato alla Causa
di beatificazione di Suor Consolata da Mons. Bellando che conobbe la monaca quand’era
ancora giovane seminarista ventunenne e studiava presso l’Almo Collegio Capranica
di Roma e rimase in contatto con lei, che lo stimava molto tanto da volersi anche
confessare da lui, durante la visita all’ospedale S. Luigi di Torino nel 1945, negli
ultimi suoi mesi di vita. Don Bellando non solo ha conosciuto diversi santi nella
sua vita, ma ha anche contribuito a farli i santi, offrendo la sua testimonianza
e deponendo su quanto era venuto direttamente a conoscenza, secondo le procedure
canoniche. Un aspetto che forse pochissimi conoscevano del nostro venerato, antico,
indimenticabile parroco che quando divenne parroco di Bardonecchia il 6 ottobre
1946 portò con sé, come protettrice del suo ministero, la preghiera di questa monaca
santa che tanto aveva sofferto e offerto per i sacerdoti e che da pochi mesi era
andata in Cielo.
Mons. Claudio Iovine
* * *
Biografia della Venerabile Suor Consolata Betrone
“Si chiama Pierina Betrone
ed è nata a Saluzzo (CN), il 6 aprile 1903, figlia di un panettiere, Pietro e di
Giuseppina Nirino. Ad Airasca, dove si sono trasferiti, i suoi ora gestiscono una
trattoria. Nel 1917, si stabiliscono a Torino dove si occupano di un negozio di
pasta e granaglie. Un ambiente molto concreto, impastato di lavoro e di buon senso.
Pierina cresce con tanta
voglia di pregare, di studiare e di lavorare, di far del bene al prossimo. Entra
nella “Compagnia delle Figlie di Maria”, la benemerita associazione presente nelle
parrocchie che ha educato cristianamente tante ragazze, coltiva progetti di amicizia
con Gesù e di apostolato. È piuttosto dotata, bella e gentile. Dopo le elementari,
continua, come può, gli studi – le scuole magistrali festive – alternandoli al lavoro
nel negozio: sa di latino e di francese, di pittura... e scrive molto bene.
L’8 dicembre
1916, festa dell’Immacolata, dopo la Comunione eucaristica, sente per la prima volta
Gesù che la chiama: “Vuoi essere tutta mia?”. Risponde: “Gesù, sì”.
Il 17 aprile 1929, è accolta
tra le Cappuccine di Borgo Po a Torino.
L’8 aprile 1934, il sacerdote,
prima della Messa dei suoi voti, confessa circa tre ore e numerosissimi si accostano
all’Eucarestia. Consolata è felice. Gesù le domanda: “Mi credi onnipotente e infinitamente
buono?”. “Gesù, sì!”. “Ebbene, risponde Gesù, ti dono tutte le anime del mondo:
esse sono tue... e come io mi moltiplico in ogni Ostia consacrata, così moltiplicherò
la tua preghiera, i tuoi sacrifici a favore di ciascuna anima del mondo”.
La sua vita è molto semplice:
prima, viene impegnata a dipingere e prende lezioni di pittura, ma presto passa
ai lavori più umili e faticosi: portinaia, ciabattina, cuciniera, tuttofare del
monastero. La “Voce” le dà lezione e le affida il suo messaggio al mondo: “Consolata,
tu non metti limiti nella tua confidenza in Me e Io non metto limiti alle mie grazie
verso di te. In grembo alla Chiesa, tu sarai la confidenza”
– le dice
Gesù nell’agosto del 1935 –. Nel 1938, Suor Consolata è assegnata al nuovo monastero
di Moriondo (Testona-Torino), che le Cappuccine hanno appena aperto, per l’affluire
di molte giovani tra di loro. Lavora sino allo sfinimento per adattare la casa,
collaborando con i muratori, senza risparmiarsi alcun sacrificio. Che importa se
diventa più fragile, diafana, sottile come un’ostia? Nel novembre 1945, Suor Consolata
è ricoverata in sanatorio: è un sacrificio enorme lasciare la sua cella, la preghiera
davanti a Gesù Eucaristico. Ma offre i suoi ultimi sì a Dio: intensi, pieni. Quindi
passa al San Luigi a Torino, tra gli inguaribili. Le restano pochi giorni di vita.
Con le mani intrecciate al Rosario, Consolata ripete sino all’ultimo: “Gesù, Maria,
vi amo: salvate anime”.
Il 3 luglio
1946, rientra al monastero di Moriondo. Pesa ancora 35 chili e ha solo 43 anni.
Ha un sorriso meraviglioso e tutte vogliono vederla e salutarla, ora che è in partenza
per il Paradiso. Lascia questa terra all’alba del 18 luglio 1946, 74 anni fa.
La fase diocesana della sua causa di beatificazione
e canonizzazione si è svolta a Torino dall’8 febbraio 1995 al 23 aprile 1999; il
nulla osta da parte della Santa Sede rimonta invece al 10 marzo 1995. Gli atti dell’inchiesta
diocesana sono stati convalidati il 7 aprile 2000.
Nel 2013 viene nominato Relatore della Causa
presso la Congregazione delle Cause dei Santi in Vaticano Mons. Claudio Iovine sotto
la cui direzione viene conclusa e stampata la Positio.
Il 6 aprile 2019, ricevendo in udienza il cardinal
Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa
Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui suor Maria Consolata
veniva dichiarata Venerabile. È il giorno del compleanno di Suor Consolata, nata
esattamente 116 anni prima, nata per il Cielo”. (Paolo
Risso)
Bardonecchia che non c’è più
Quando si arriva dall’autostrada, si vede Bardonecchia immersa nel verde.
È il verde degli alberi cresciuti rigogliosi tra le case, dove un tempo (foto 1 del 1920) si estendevano i campi a destra e a sinistra
di Via Medail.
Nella foto 2 si nota che le culture risalivano le pendici dei monti. Poiché
sono state abbandonate, è cresciuta la vegetazione spontanea.
Tre fotografie
ritraggono l’albergo “Bardonecchia”, che, abbattuto, è diventato un condominio con alloggi
e negozi. Nella
foto 3 è chiamato “Frejus”
come è leggibile sulle due facciate e sul balcone
con “Auto-Garage”. In alto sventola
il tricolore con lo stemma
sabaudo. Di lato è scritto
che la proprietaria è la Vedova Basacchi
e che si contemplano le Cime Gasparre
e Baldassarre. Il cancello con i pilastri nella foto 4 non esiste
più perché, al posto del giardino che chiudeva, è stata costruita Via Montenero, prima privata
e poi comunale. Il nome dell’albergo diventa
“Bardonecchia già Frejus”. Nella foto 5, che riproduce l’hotel da un’altra
angolatura, è visibile il cartello che indica il passaggio a livello, che
tagliava Via Medail
prima che si costruisse il sottopassaggio.
Con la foto 6 ci spostiamo
nella piazza della Chiesa dove in primo piano scorre l’acqua nella canaletta che passava nelle vie del Borgovecchio.
La chiesa era come l’aveva
costruita il parroco
Don Vachet, alla quale, per ampliarla, Mons.
Bellando nel 1963 fece aggiungere le due cappelle
laterali al presbiterio, rendendola a “croce
latina”. Nel 1964 fece sostituire il cupolino in cemento del campanile con la guglia in rame che da slancio all’insieme. E nel 1974 fece rifare
la scalinata di accesso, in pietra di luserna come la cornice
del portone centrale. La facciata appare
diversa da quella
attuale perché è cambiata la decorazione e le nicchie
sono stata completate con le statue.
La presenza di tanti uomini
fa ricordare l’abitudine, un tempo, a Susa ed anche in altri paesi,
che durante la predica della messa gli uomini stavano
fuori dalla chiesa
e vi entravano quando l’omelia
era finita. Anche il laghetto
è cambiato. L’edificio nella foto 7 non esiste
più, sostituito dal complesso della
piscina. Faceva servizio
di bar, ristorante, calciobalilla ed affitto
pattini.
Foto 1 “... dove un tempo si estendevano i campi a destra e a sinistra di Via Medail ...”. |
A Bardonecchia esisteva la pista da bob, che era chiamata “guido slitta” (foto 10). La partenza della seggiovia per il Colomion (foto 11) nel 1949 era ben diversa da quella degli impianti attuali. D’inverno davanti alla stazione ferroviaria sostavano gli slittoni che fungevano da taxi e portavano ai campi gli sciatori che non volevano andarci con gli sci ai piedi. Nella foto 12 lo slittone è al Campo Smith. La strada, ora asfaltata, che conduce a Millaures, da come appare nella foto 13, era ben differen te. Il vecchio percorso è visibile nella foto 14 datata 7/9/1934 XII. Anche l’abbigliamento col passare degli anni si è modificato. Nel 1931 alle “Tre Croci” (foto 15) si andava con scarponi, calzettoni e con la gonna, perché i pantaloni si indossavano solo per sciare (foto 16). (Giulia Tonini)
Angelo Masset: un cultore
della storia e della lingua della sua terra nel centenario della nascita
Classe 1919: quando Angelo Masset venne alla luce, il 30 ottobre
di quell’anno, il Trattato di pace che concludeva la Grande Guerra era stato firmato
da qualche mese, ma sarebbe entrato in vigore solo nel gennaio 1920, segno che mancava
ancora un piccolo passo affinché il conflitto potesse dirsi effettivamente terminato.
Per quanti frequentino almeno un po’ le pagine dei libri di
storia, si tratta di un’epoca davvero (e fortunatamente!) molto lontana; ma per
me, che mi accingo a scrivere questo breve ricordo di mio padre, diventa improvvisamente
vicina. La sua vita, infatti, è durata quasi un secolo: se fosse vissuto altri cinque
mesi e mezzo, avrebbe compiuto 99 anni, fiero del suo traguardo e dell’eccezionale
salute, che lo ha accompagnato anche nella vecchiaia. Se n’è andato invece circa
20 mesi fa, di notte, in silenzio, senza disturbare nessuno tranne gli operatori
della Struttura dove eravamo stati costretti a collocarlo nell’estate del 2017.
Della sua giovinezza parlava sempre con un velo di malinconia,
che lasciava intuire quanto fosse stata difficile. Prima gli studi nel seminario
di Susa, poi il servizio nella Fanteria dell’Esercito per tutta la seconda guerra
mondiale e oltre, corredato anche da un’ingiusta denuncia al Tribunale militare
nel 1944 (dalla quale uscì, peraltro, completamente scagionato). Infine una serie
di esperienze lavorative alquanto eterogenee: contadino, Agente delle Imposte di
Consumo, impiegato di segreteria al Casinò di Bardonecchia e poi presso l’ufficio
annonario del Comune. Finalmente nel 1950, dopo che ebbe preso la maturità magistrale,
iniziò il lavoro di insegnante elementare, interrotto quasi subito da una nomina
in sede disagiata, che lo costrinse a fermarsi per un anno e a improvvisarsi falegname
e… “mastro vetraio”, se si può dir così. Proprio nell’anno scolastico 1952 – 1953,
infatti, trovandosi impossibilitato ad insegnare, fabbricò i mobili e l’insegna
della tabaccheria dei Masset di Borgovecchio, ricordata da Antonella Filippi in
un bell’articolo apparso tra queste pagine nel 2012, intitolato I tabachin.
Mio padre poteva, dunque, vantare di aver avuto fin da giovane
una certa intraprendenza, determinazione e una grande capacità di lavoro. I superiori
che dovettero formulare un giudizio sul suo servizio militare col grado di sergente
maggiore lo definirono «Coraggioso, autorevole
e di iniziativa in guerra». Di tutto ciò era, comprensibilmente,
orgoglioso; tuttavia si capiva bene che gli era mancato qualcosa, proprio in quegli
anni così ricchi di fatiche e di esperienze, e nei suoi discorsi, prima o poi, veniva
alla luce. Si trattava della laurea in lingue straniere, che non era riuscito a
conseguire perché – pur essendosi iscritto all’Università di Torino – aveva dovuto
abbandonare gli studi per dare una mano alla famiglia. I Masset, infatti, avevano
appena intrapreso la via del commercio aprendo il negozio di alimentari, e lui vi
lavorava con i genitori e i fratelli durante il giorno, potendo studiare solo la
sera, fino a notte inoltrata. Per un po’ resse alla fatica, ma poi dovette cedere.
Eppure, per lo studio delle lingue doveva essere proprio portato se, mentre si trovava
in Corsica, prima del 1943, sfuggì ad un arresto da parte dei francesi solo perché
riuscì, parlando la loro lingua, a convincerli di essere un connazionale.
Quel traguardo mai raggiunto gli è pesato sul cuore sino agli
ultimi anni della sua vita e più di quanto sarebbe stato giusto, ma è stato anche
un pungolo che non gli ha mai permesso di fermarsi, nemmeno quando si è risolto
ad andare in pensione.
Come insegnante ebbe la nomina in ruolo e la destinazione
definitiva nell’ottobre 1953: Perosa Argentina, dove si stabilì con mia madre, Teresa
Olivo, e dove rimase per vent’anni. Poi nel luglio
1973 ci fu il trasferimento a Bassano del Grappa (VI), città
natale della mia mamma, motivato da varie ragioni. Qui papà trascorse gli ultimi
10 anni di insegnamento e ben 36 di pensione.
Nel quartiere era conosciuto come il Maestro Masset e in casa
sapevamo nome e cognome di tutti i suoi alunni perché papà ne parlava sovente, con
il trasporto dell’affetto o sotto l’impulso dell’impazienza quando gli pareva di
non riuscire a correggere in loro ciò che non andava bene. Diceva di amarli come
dei figli ed era proprio così. Quanto abbia saputo entrare nei cuori dei suoi alunni
e segnare le loro vite lo dicono gli innumerevoli inviti a nozze e le foto che ha
ricevuto, le liste coi nomi (che lui annotava minuziosamente dopo le visite) di
coloro che venivano a trovarlo anche dal Piemonte, le lettere, i regali, i ritrovi
annuali organizzati fedelmente fino a pochissimo tempo fa dalle ultime due classi
che ha avuto. Cercando tra i ricordi di una vita dedicata alla scuola, mi è venuto
tra le mani l’album delle fotografie, che ha tenuto con tanta cura negli anni di
insegnamento e in quelli successivi. Sfogliandolo, dopo i gruppi delle varie scolaresche,
vedo la foto di una delle sue ultime alunne nel giorno della laurea e leggo il biglietto
(datato 6 giugno 1995) che la accompagna: «Caro Maestro, Le consegno una fotografia
del giorno in cui mi sono laureata (…). Ho scelto questa fotografia che, pur non
essendo ben centrata, testimonia la commozione che ho provato in quel giorno. La
ringrazio perché è in parte anche merito Suo se ho potuto raggiungere quella felicità
indescrivibile. La saluto, con affetto. S.G.». In una grande busta, incollata alla
fine dell’album, trovo una quantità di altri ricordi e scopro i particolari di una
frequentazione che conoscevo solo superficialmente (ho studiato a Padova dal 1982
e poi ho trovato lavoro in Trentino, dove abito tuttora, perciò mi è mancata la
condivisione di molta quotidianità). Su un foglietto datato 3 marzo 1998 leggo:
«Caro Maestro, con immenso piacere vi dono queste
mie due “poesie”, non saranno certamente degne di un poeta, ma sono più che mai
parole del mio cuore. (…) A voi che siete stato quasi un padre per me ed io vi ho
amato come una figlia, quelle lacrime che avete versato per me si sono imresse nei
miei ricordi più significativi. Solo voi siete riuscito a leggere il cuore di una
bambina dal sorriso… infelice. O.L.».
Insieme alla
foto di un vescovo (il primo di M’baïki, nella Repubblica Centrafricana) trovo un
biglietto del 3 febbraio 1996, dove leggo: «Carissimo Signor Maestro Angelo, mi ha commosso ricevere gli auguri da lei che,
posso dire, non mi ha mai dimenticato. Posseggo ancora la piccola sveglia che lei
mi ha regalato alla mia ordinazione sacerdotale a Pomaretto. Non so se avremo modo
di incontrarci ancora, ma le posso assicurare che un certo legame continua a mantenerci
uniti (…)». E segue la
benedizione… a distanza. Si tratta di quello che in casa conoscevamo come Padre
Perin, missionario comboniano, alunno di papà negli anni Cinquanta a Perosa Argentina,
che all’epoca della consacrazione episcopale aveva 52 anni.
Altri alunni
sono venuti a trovarlo da Perosa in occasione del suo 95° compleanno, portandogli
in dono una targa su cui avevano fatto incidere parole di ringraziamento: «Al caro Maestro Angelo Masset. Con riconoscenza
e affetto per gli insegnamenti di vita. La classe elementare di Perosa Argentina
1965 1970». Papà dava
quegli insegnamenti di vita facendo scrivere tutte le mattine una frase, che qualcuno
ha allegato ad un mazzo di fiori inviato per il suo funerale: «Un buon scolaro e
un buon figlio e un buon cristiano vive nel rispetto della libertà degli altri.
Sii buono». E poi continuava attraverso la spiegazione delle varie materie.
Infine, quando è arrivato all’età della pensione,
ha fatto fatica ad abbandonare quello che soleva definire «il mestiere più bello
del mondo», ma si è dato immediatamente un nuovo programma per la lunga distesa
di settimane e di mesi che gli si apriva davanti. Accarezzava da tempo, infatti,
un progetto sul quale avevamo più volte scherzato in passato: la compilazione del
Dizionario e della Grammatica del patois di Rochemolles, parlato dai suoi genitori. Vi ha
lavorato instancabilmente per più di cinque anni, con un ritmo di almeno 8 ore giornaliere,
producendo un’opera così dignitosa che avrebbe dovuto risarcirlo della laurea mai
raggiunta, apprezzata da docenti universitari italiani e stranieri, ora presente
in alcune importanti biblioteche. Non contento, si è dato alla traduzione dei
Alcuni ex alunni venuti a trovarlo da Perosa in occasione del 95° compleanno (foto A. Masset). |
Il Maestro Angelo Masset: «L’ultima foto che gli ho fatto di nascosto, mentre leggeva è del luglio 2017...» (foto A. Masset)
Dopo aver ultimato anche questi lavori (e aver combattuto
qualche battaglia perché alcuni fossero pubblicati), aveva ancora energie da vendere
e necessità di dare uno scopo alle sue giornate. Iniziò quindi a raccogliere, ordinare
e fotocopiare materiali su Bardonecchia, Rochemolles e la cultura occitana. Il risultato
di questa fatica certosina fu una serie di volumi sulla Val Susa e un altro di mole
maggiore su Rochemolles, ottenuti rilegando quanto aveva trovato, tutti consultabili
presso la biblioteca Comunale di Bardonecchia. A quel punto, poiché non gli restava
molto altro da fare “sul fronte occitano”, cambiò drasticamente direzione e si dedicò
per almeno dieci anni allo studi dell’astronomia. Ogni mese acquistava la rivista
omonima e poi leggeva ogni articolo ricavando decine di quaderni pieni di appunti,
che periodicamente faceva rilegare in volumetti.
Nei primi quindici anni di “quiescenza”, come si dice in gergo
tecnico, è stato anche volontario all’Ospedale San Bassiano di Bassano del Grappa.
Insomma, papà sembrava non invecchiare mai, curvo sui libri
(l’ultima foto che gli ho fatto, di nascosto, mentre leggeva è del luglio 2017);
ma ad uno sguardo più acuto e meno offuscato dall’affetto erano già visibili da
molto tempo i segni del degrado cerebrale, tanto più insidioso perché nascosto sotto
l’aspetto florido di un fisico in ottima salute e sotto un grado di istruzione e
di cultura notevolmente superiore a quello di numerosi suoi coetanei. In famiglia
ce ne siamo accorti davvero molto tardi. Appariva l’uomo di sempre, ma non lo era
più. Così ha subìto talvolta ferite ed umiliazioni, dalle quali non siamo riusciti
a proteggerlo perché non sapevamo di doverlo difendere da se stesso. La mia speranza,
oggi, è che quanti si sono accidentalmente imbattuti nelle sue intemperanze abbiano
anche saputo cogliere, almeno in un secondo tempo, la malattia che si celava dietro
di esse e la dignità che lui ha sempre cercato di mantenere, così come poteva. Per
comprendere la sua statura morale basti un esempio tra tutti: mai una volta, in
tutta la mia vita, ha preteso da me una presenza più assidua di quella che ero in
grado di assicurargli. Nemmeno dopo la morte di mia madre, nel 2006, quando la solitudine
gli è certamente pesata di più e lui ha iniziato a chiamarmi tutte le sere per un
breve saluto. Andavo da lui tutti i fine settimana e, quando ho capito che si trattava
di una necessità che non osava confessare, mi sono preoccupata di chiamarlo per
prima ogni sera. Non era molto, ma era tutto ciò che riuscivo a garantirgli abitando
e lavorando lontano. Quando mi chiedeva cosa stessi facendo e gli rispondevo di
essere in compagnia di amici, era felice e commentava: «Sono proprio contento che tu abbia delle belle
amicizie. Devi coltivarle! Prima devi fare la tua vita e poi, se ti avanza un po’
di tempo, vieni qui da me». Talvolta, anche chi è vicino
riesce a sentire quel che dice l’interlocutore dall’altro capo del telefono, così
capitava che al termine della conversazione non fossi la sola ad avere gli occhi
lucidi.
Questa fedeltà al suo compito di padre, che deve spingere
i figli nella vita e non tenerli stretti a sé, insieme alla grande passione per
la cultura e lo studio sono senz’altro due tra i grandi doni che papà mi ha lasciato.
E chi sa che dal Cielo, dove lo immagino finalmente soltanto gioioso, insieme a
mia madre, possa vedere che tutto quanto ha stimato prezioso e ci ha donato in questa
vita lo è, in realtà, molto, molto di più. Sia per me che per mio fratello Emanuele.
(Amalia Masset)
Stagioni
La carrareccia che sale alla Rhô è percorribile con le ciaspole
anche in inverno: una passeggiata che inizialmente alterna alle visioni consuete
sulla conca di Bardonecchia i rintocchi delle campane o lo sferragliare dei treni.
Da questa angolazione, la stessa autostrada occulta gran parte del suo cemento mostrandosi
come innocuo nastro di prova.
Poi due o tre larghi tornanti recidono i legami con l’abitato
dando all’ambiente una svolta decisiva.
Ora si può ascoltare il ticchettio del picchio che, indisturbato,
sta costruendo il suo nido. Dentro l’albero cerca riparo e, chissà, qualcos’altro.
Poco distante, in corrispondenza di un incrocio, all’improvviso
il bosco arricchisce la propria composizione, popolandosi inaspettatamente di imponenti
betulle, le cui cime si perdono nel fitto bosco puntando al cielo, mentre i tronchi
ricordano le colonne di un tempio.
A partire dall’autunno la loro corteccia appare come imbevuta
di pioggia dorata, ricordando i mosaici che impreziosiscono le chiese.
Avvicinandosi, ci si rende conto che una mano ignota ha lasciato
la sua impronta sui tronchi.
Come se quegli alberi avessero dialogato con le montagne all’intorno,
non di rado sulla corteccia si vedono incisi non pochi profili di monti.
Non solo funghi e spore, ma la stessa vitalità degli alberi
hanno disegnato sulla corteccia infiniti cerchi, avvolgendola di punti e linee che
compongono una scrittura; quasi fossero notazioni musicali. Altri tronchi sono macchiati
dai tasselli di un puzzle tanto da ricordare le nuvole che percorrono i cieli. In
altri casi gli stessi microrganismi si sono sparsi come fiori prediligendo la severità
del grigio,
anche se non mancano macchioline gialle o arancio; colori
che evocano la primavera.
A fine autunno e in inverno l’intero sito si confonde nell’oro,
tanto da far naufragare il senso dello spazio e del tempo; quasi a formare una basilica
nel bosco, rallegrata dai cori degli angeli.
Qualche settimana prima, al contrario, il medesimo ambiente
esaltava il trascorrere del tempo e delle stagioni. Infatti l’attenzione veniva
a focalizzarsi sulle foglie adagiate lungo la scarpata delle betulle: sopra la falsa
neve di ottobre formavano un tappeto saturo di rosso, giallo, arancio, verde; sì,
qualche foglia era rimasta tale.
L’uomo, si sa, non si accontenta di un paradiso terrestre
e più di una volta ho voluto raggiungere la meta del sentiero: il villaggio della
Rhô. Se la salita non presenta alcuna difficoltà, in pieno inverno il sito respinge.
Muoversi nella neve alta è difficile sotto il vento implacabile, mentre le luci
del tramonto creano chiaroscuri inquietanti; in realtà protagonista dello scenario
è un sorbo radicato appena sopra al paesino: quell’intrico di rami contorti, scurissimi
in controluce oppure velati di nebbia, appare il set perfetto di un film drammatico.
Sentendo il peso della solitudine, ho deciso di tornare indietro, rimpiangendo l’oro
delle betulle.
Rivedendo a casa le foto scattate quel pomeriggio al vallone
della Rhô ho notato un compagno la cui presenza mi era sfuggita: un camoscio che
tranquillo (anche se da una certa distanza) mi osservava. Lì era a suo agio, non
si sentiva solo né pativa il freddo. Non ho potuto fare a meno di invidiarlo. Finchè
a fine febbraio ho avvistato una mamma camoscio mentre assisteva i suoi
capretti che belando piangevano penosamente; nel frattempo salivano un pendio roccioso
che li avrebbe messi al sicuro dai lupi.
Nello stesso periodo la doratura delle betulle tende a sbiadire
e i tronchi si presentano biancheggianti, quasi volessero evitare competizioni col
verde delle foglie e con la fioritura nei prati.
Consapevoli della sacralità che racchiudono, quegli alberi
vogliono mantenersi fuori dalle stagioni e dalla mutazione dei colori, quasi in
controtendenza rispetto al fluire del tempo. Soltanto così le incisioni intraducibili
che appaiono sulla corteccia possono essere lette come messaggi, invocazioni, preghiere.
(Guido Alimento)
In
ricordo della Maestra Augusta Gleise
Il 25 maggio 2019 ci ha lasciati all’età di 94 anni Augusta
Gleise, storica maestra di Bardonecchia, donna di cultura che insegnò ad intere
generazioni e che ricoprì anche la carica di vice-sindaco della Conca.
Augusta era nata a Millaures nel 1925, in una stalla, all’interno
di una famiglia numerosa composta da dieci fratelli.
Fiera delle sue origini, ha da sempre cercato di valorizzare
la cultura alpina e la storia di una popolazione troppo spesso e a torto definita
ignorante.
Aveva iniziato la sua attività di maestra nel 1944, mentre era in corso la Seconda
Guerra Mondiale e Rochemolles, frazione di Bardonecchia in cui fu chiamata ad insegnare,
era invasa dai soldati tedeschi.
L’anno dopo insegnò a Cesana in una pluriclasse, modello scolastico
spesso utilizzato a quei tempi.
In quel periodo difficile, i mezzi a disposizione erano pochi,
mancavano libri e materiale scolastico, ci si doveva arrangiare con quel poco che
c’era. Anche raggiungere le aule si dimostrava spesso difficile, erano pochi i mezzi
di trasporto e non di rado la maestra doveva percorrere lunghi tratti a piedi, il
tutto si dimostrava ancora più difficile nel periodo invernale a causa della neve
e del freddo che rendevano il percorso più impervio.
In seguito la maestra lavorò in altri paesi dell’Alta Valle
tra cui Oulx, Exilles, Thures, Desert, la sua Millaures ed infine Bardonecchia dove
rimase attiva fino al 1985.
Come premio per la sua lunga carriera di insegnante e di educatrice,
ricevette anche la Medaglia d’Oro dal Ministero della Pubblica Istruzione.
La maestra Augusta Gleise
in un fotogramma tratto da un video della Chambra d’oc di qualche anno fa.
Oltre al suo
mestiere d’insegnante, è doveroso ricordare la sua attività di studio di storia
locale. Ha pubblicato infatti diversi libri in cui racconta con orgoglio la storia
dei territori in cui è nata.
In un’intervista
spiegava come il suo scopo fosse quello di documentare i fatti affinchè non venissero
dimenticati e di raccontare la storia di una popolazione montanara, forte e piena
di dignità. Tra le sue più importanti pubblicazioni ricordiamo: “L Caie D’ La Mètre”
(“II quaderno della Maestra” in cui è illustrata la grammatica del patois), “Bardonecchia
e il suo Pé du Pian” ed il volume dedicato a Millaures in cui si parla della Chiesa,
delle borgate e della gente del luogo. Con la pubblicazione di quest’ultimo elaborato
aveva anche raccolto i fondi necessari per l’antica Chiesa.
Augusta ha inoltre svolto un importante lavoro di trasmissione
del patois, dialetto occitano parlato nell’Alta Valle di Susa. Con lo scopo che
questa lingua non andasse persa nel tempo, l’insegnante ha anche tenuto dei corsi
per perseguire tale finalità.
Augusta è stata anche la prima bardonecchiese a recarsi a
Lourdes in veste di dama, a supporto dei malati in pellegrinaggio. (Alessia Bellet)
In ricordo del diacono Antonio Piemontese
Di lui, talvolta, qualcuno mi domandava: “Non c’è più quel Diacono di Roma?”. Infatti da oltre due anni il Diacono Antonio Piemontese che, nei mesi estivi, dalla sua residenza di Roma, con la consorte Elena, si trasferiva nell’abitazione di villeggiatura in montagna, e compiva il suo ministero diaconale nella nostra Parrocchia, non si vedeva più.
Una grave malattia invalidante l’aveva gradualmente reso non più autonomo e bisognevole di continua assistenza. Ha vissuto questo tempo di infermità abbandonandosi totalmente alla volontà di Dio, con fiducia e con viva fede, nella preghiera e ricevendo a casa quotidianamente la Comunione. Aveva tenuto per parecchie estati consecutive, nei mesi di luglio e di agosto, delle apprezzate catechesi sui Vangeli domenicali, denominate “Cenacoli del Vangelo” e, ogni giorno, prima della Messa, nella Cappella del Santissimo, guidava la preghiera del Vespro, per un gruppo di persone. È pure stato fedele, ogni giovedì, all’adorazione eucaristica che lo vedeva presente per l’intera mattinata, a guidare i fedeli nella preghiera davanti al Santissimo. Prese parte a vari nostri Pellegrinaggi, soprattutto non mancava allo Charmaix, coincidente la data dell’8 settembre con il suo compleanno. A lui, nella Messa, era riservata la lettura del Vangelo e collaborava alla distribuzione della Comunione.
Era stato Ordinato Diacono permanente al termine di una lunga
e impegnativa preparazione, quando, lasciata l’Arma dei Carabinieri con il grado
di Antonio Piemontese, diacono colonnello, volle mettersi a servizio del Signore
e della Chiesa. Nel suo parlare compariva l’amore per la Chiesa e il suo desiderio
di poterla vedere davvero santa e ricca di zelo apostolico. Era giunto a Bardonecchia
tanti anni addietro per le vacanze ospite del locale Soggiorno Militare e restò
affascinato dalla natura e dalla montagna. Da allora continuò a frequentarla regolarmente
decidendo, negli anni, di rendersi autonomo, con un appartamento di proprietà. È
tornato a Dio il giorno martedì 25 febbraio 2020 all’età di 73 anni e i funerali,
celebrati il giorno seguente nella sua Parrocchia romana, hanno visto la partecipazione
di innumerevoli sacerdoti e diaconi. In Sant’Ippolito, nello stesso giorno, si è
celebrata la Messa in suo suffragio. Alla consorte Elena, ai figli Marco, Michaela
e familiari giungano le nostre condoglianze e la nostra amicizia.
(foto E. Allia).
È mancato
il dott. Bava
per oltre 50 anni medico stimato di Bardonecchia e conosciuto
in tutta l’Alta Valle
La notizia
della scomparsa del Dott. Piergiorgio Bava, avvenuta martedì 17 marzo è immediatamente rimbalzata di casa in casa suscitando in tutti profondo
dispiacere. Non c’è famiglia che,
nel tempo, non abbia beneficiato
della sua competenza medica. Sempre
pronto per mettersi a disposizione di tutti, sia nel suo Studio che a domicilio.
Non è stato unicamente un ottimo odontoiatra, oppure, nei mesi invernali, un esperto traumatologo ma, anche, e direi soprattutto, uno stimato medico chirurgo consultato da molti per le sue competenze. A questo riguardo, già parecchi anni
or sono, un suo collega,
già scomparso, gli rivolse un grande complimento dicendomi: “... il Dott. Bava: dove lo tocchi lui suona ...”, per dire che era preparato ad ampio raggio.
Originario di Meana
di Susa aveva compiuto gli studi liceali
al Norberto Rosa di Susa e, di quegli
anni, amava ricordare che era stato
compagno di banco
del dott. Alessandro Gibello, futuro
Sindaco di Bardonecchia, col quale, più avanti, aveva proseguito l’amicizia. Conseguita la maturità liceale si iscrisse alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino, dove si laureò il 12 dicembre 1961 specializzandosi in pediatria, odontoiatria, medicina del lavoro e anestesiologia. Dopo
una prima esperienza presso l’Ospedale di Susa, ai tempi dei
Primari dott. Pagano e Raimondo, nell’anno 1964 approdò
a Bardonecchia con il compito
di sostituire come medico condotto
il Dott. Calligaris. Si fece subito
conoscere e apprezzare. Dopo qualche anno, lasciata la condotta, scelse di proseguire la carriera con la libera
professione.
A suo tempo, è stato l’ideatore della sezione di Bardonecchia dell’Avis, che giustamente considerava una sua creatura
e ne fu presidente per vario tempo, per ricoprire, poi, in seguito,
la carica di Presidente Onorario
e medico di sezione. Iscritto al Gruppo locale
degli Alpini è stato fedele
ai raduni annuali nelle
varie località italiane. Per un mandato
donò la sua
collaborazione come Consigliere Comunale. Per i suoi molteplici meriti in data 11 novembre
2007 gli venne
conferita l’onorificenza di “Ufficiale della
Repubblica” dell’ordine al merito della
Repubblica Italiana. Dalla
sua professione medica riusciva
a ritagliare degli spazi per assecondare i suoi svariati
interessi, come apicoltore, nella cura della vigna a Meana, delle castagne, del giardino e dei fiori, della caccia.
Senza dimenticare la passione per la musica.
Nelle occasioni festose
sapeva stupire gli amici con brani allegri
eseguiti con la fisarmonica. Bravo
pianista, all’occorrenza anche
organista e si cimentava con il violino.
Puntuale, con la consorte, ogni domenica alla prima Messa delle ore 8,30 per essere, poi, a disposizione durante il giorno nel suo Studio
medico. Una fede,
la sua, testimoniata e vissuta anche
nella difesa e nella promozione della vita, come medico obiettore
di coscienza nei riguardi dell’aborto. Fu Priore di
Sant’Ippolito nell’anno 2001.
In tempi ancora
abbastanza recenti la sua energia
e la sua vitalità, furono improvvisamente troncate da un grave malore
che lo limitò molto nella
sua autonomia. Credo che la sofferenza più grande l’abbia
provata in quella
impossibilità a comunicare con la parola.
Già in quella circostanza il paese fu in apprensione per la sua salute. Sembrava impossibile che il Dott. Bava
non potesse più essere là, nel suo Studio con il camice
bianco, a ricevere tutti, ascoltare tutti,
per curare e suggerire i rimedi necessari per ognuno. È mancato all’età
di 84 anni, dopo avere
ricevuto l’Unzione degli
infermi, vegliato dalla
consorte prof. Anna
Calda, con la quale ha condiviso i 48 anni di matrimonio, dagli
stupendi figli Dott.
Antonello e Dott.sa
Emanuela con i loro familiari. A motivo dell’epidemia virale in atto e delle rigide norme imposte
dalle Autorità, essendo
vietati gli assembramenti e le cerimonie civili e religiose, non è stato
possibile compiere la celebrazione esequiale pubblica, con il dispiacere di tutti. Lo abbiamo salutato
con un breve Rito al Cimitero, alla presenza degli stretti familiari
e del Sindaco in rappresentanza di tutta Bardonecchia. Grazie infinite Dott. Bava!
Si fa sera
Da «Si fa sera
e il giorno ormai volge al
declino» (Ed. Cantagalli)
Si tratta di un Libro-intervista scritto a due mani: dal Card.
Robert Sarah Prefetto del Dicastero Vaticano che si occupa della liturgia,il quale
risponde alle domande di Nicolas Diat, giornalista e scrittore, a lungo consulente
per la comunicazione e le strategie di vari ministri francesi. Qui si propone un
breve e significatico passaggio che riguarda la vita della Chiesa.
Domanda di Nicols Diat
“Spesso lei afferma che la crisi della Chiesa non sia un problema
istituzionale. Potrebbe spiegare il suo punto di vista?”.
Risposta del Card. Robert Sarah
Ho assistito a molte riforme istituzionali. Si creano spesso commissioni e consigli di ogni tipo. Abbiamo riscontrato molti risultati? Non si corregge un pessimo libro sostituendone la rilegatura o la carta. Scriveva il cardinale Ratzinger in Introduzione al cristianesimo: «I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. Essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa realmente sia la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita. Solo chi ha sperimentato come la Chiesa, al di là del mutare dei suoi servitori e delle sue forme, dia coraggio alle persone, offrendo loro una patria e una speranza, una patria che è speranza, vale a dire una vita che conduce alla vita eterna, solo costui sa che cosa sia la Chiesa, in passato e anche oggi». Urge ritrovare uno sguardo di fede su tante cose. Nell’accanirsi nella riforma delle istituzioni, si alimenta l’illusione per la quale l’importante è ciò che facciamo, la nostra azione umana, che consideriamo l’unica efficace. Questo tipo di riforma non fa altro che spostare il problema. Credo che sia essenziale e urgente discernere la vera natura della crisi e prendere coscienza che il male non si trova soltanto nelle istituzioni ecclesiastiche. Le piccole modifiche apportate all’organizzazione della Curia non potranno risanare le mentalità, i sentimenti e i costumi. Che cos’è una «riforma» nel vero senso del termine? Si tratta di una riformazione. Un ritorno alla forma pura, quella che sgorga dalle mani di Dio. La vera riforma della Chiesa consiste nel lasciarsi nuovamente plasmare da Dio (...).
Si devono trovare i mezzi concreti per non ostacolare più
l’azione divina. Finché, però, le nostre anime saranno tiepide, qualunque mezzo
risulterà vano. L’abitudine rappresenta una terribile minaccia. Indurisce. Rende
ciechi. Rende sordi a qualunque appello. Sbarra porte e finestre rendendole impenetrabili
alla luce divina. Impedisce di comprendere gli errori che si sono commessi. Impedisce
di reagire, di correggersi, di convertirsi e di progredire. Impedisce soprattutto
di andare controcorrente. Non si possono realizzare grandi imprese con uomini abitudinari
che hanno acconsentito per sem-pre alla mediocrità. Con i tiepidi e gli smidollati
non si può realizzare nulla di consistente. La tiepidezza conduce alla vigliaccheria
e al tradimento. (...)
Finché non prenderemo coscienza della gravità della nostra
decadenza non potremo reagire. La recente scoperta delle ignobili turpitudini di
alcuni ecclesiastici riuscirà a svegliarci? Forse era necessaria questa umiliazione,
questo schiaffo per permetterci di prendere coscienza del nostro profondo bisogno
di riforma, cioè di conversione. Come si può non reagire davanti a tanto cinismo
da parte di uomini consacrati a Dio? Come non ricercare la causa profonda di questi
umilianti abusi perpetrati su minori? Si tocca qui la punta più estrema e ripugnante
di una vita che è a poco a poco scivolata via per trasformarsi in una vita senza
Dio, in una vita caratterizzata dall’ateismo pratico, in una vita che è precipitata
dal sacro al profano, fino alla profanazione. È necessario assumere contromisure
– e in questo la Chiesa ce la mette tutta – per proteggere i bambini che sono l’immagine
sacra dell’innocenza divina. (...) C’è un problema che nessuna riforma strutturale
potrà risolvere: l’ignoranza di Dio. La tiepidezza, il rifiuto delle esigenze evangeliche,
la perdita del senso del peccato, l’attaccamento al denaro trovano nella perdita
del senso di Dio la loro radice comune. Il degrado della liturgia trasformata in
spettacolo, la negligenza nelle celebrazioni e nelle confessioni, la mondanità spirituale
ne sono solo i sintomi. Non sono le strutture o le istituzioni a essere in crisi,
ma la nostra fede e la nostra fedeltà a Gesù. (...) Ciò che deve radicalmente cambiare
è il nostro rapporto con Dio.
Più che di parole abbiamo bisogno di fare ancora esperienza
di Dio. Questa è forse il cuore di ogni riforma. Nel discorso al clero della Diocesi
di Roma, del 22 febbraio 2007, Benedetto XVI diceva: «Solo se c’è una certa esperienza
si può poi anche capire». Dobbiamo, dunque, domandarci: come possiamo fare esperienza
di Dio? Dobbiamo ripetere l’esperienza della Chiesa come luogo in cui Dio si dona.
In tale prospettiva, voglio rilevare due priorità. Anzitutto,
esiste un luogo in cui possiamo fare questa esperienza di Dio e della Chiesa, ed
è la liturgia. Qui, non è possibile sottrarsi a Dio. Scriveva Benedetto XVI nella
sua Prefazione all’edizione russa del volume della sua Opera omnia dedicato alla
Teologia della liturgia: «II vero rinnovamento della liturgia è una condizione fondamentale
per il rinnovamento della Chiesa». Infatti, «l’esistenza della Chiesa vive della
giusta celebrazione della liturgia e che la Chiesa è in pericolo quando il primato
di Dio non appare più nella liturgia e così nella vita. La causa più profonda della
crisi che ha sconvolto la Chiesa risiede nell’oscuramento della priorità di Dio
nella liturgia». Supplico umilmente i vescovi, i sacerdoti e il popolo di Dio di
curare di più la santa liturgia, di porre Dio al centro, di chiedere di nuovo a
Gesù Cristo di insegnarci a pregare. Abbiamo desacralizzato la celebrazione eucaristica.
Abbiamo trasformato le nostre celebrazioni eucaristiche in uno spettacolo folkloristico,
in un evento sociale, in un intrattenimento, in un dialogo insipido tra il sacerdote
e l’assemblea cristiana. C’è ancora posto per l’Altissimo nelle nostre liturgie?
In esse è ancora possibile fare esperienza di Dio? A volte si trovano dei laici
che rivendicano una funzione durante la Messa in modo tale da sentirsi partecipi
e attivamente implicati. Meditiamo un po’ sulla natura della partecipazione attiva
di Maria e di san Giovanni sul Golgota. Essi erano là, si lasciavano penetrare silenziosamente,
impregnare e plasmare dal mistero della Croce. Non dovrei, a mia volta, preoccuparmi
piuttosto di sapere come morire con Gesù in ogni Eucaristia, e di chiedermi se accetto
di morire al mio peccato? La mia vita cristiana è costruita sulla preghiera e su
una vera intimità con Dio? Che posto occupano la preghiera e la parola di Dio nella
mia vita? In ciascuna delle nostre celebrazioni eucaristiche dovremmo poter
dire con san Paolo: «Ogni giorno io affronto la morte [...] in Cristo Gesù nostro
Signore!» (1 Cor 15,31).
C’è un altro luogo in cui possiamo fare l’esperienza di Dio
che si dona nella Chiesa: i monasteri. In essi troviamo una concreta realizzazione
di ciò che tutta la Chiesa dovrebbe essere. L’ho già detto molte volte e non ho
paura di ribadirlo. Il rinnovamento verrà dai monasteri. Invito tutti i cristiani
a sperimentare per qualche giorno l’esperienza della vita in un monastero. Si potrà
«in piccolo» fare esperienza di ciò che la Chiesa è «in grande». Nei monasteri si
potrà sperimentare il primato dato alla contemplazione di Dio. Visitate i monasteri!
In contrasto con un mondo di squallore e tristezza,
113questi luoghi sacri sono delle vere e proprie oasi di bellezza,
di semplicità, di umiltà e di gioia. Nelle abbazie i fedeli potranno comprendere
che è possibile mettere Dio al centro di tutta la vita. Questo primato della contemplazione
è stato proclamato dallo stesso Cristo quando ha affermato che «una sola è la cosa
di cui c’è bisogno» e che «Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà
tolta» (Lc 10,42). (...)
Dobbiamo proteggere questi luoghi preziosi della contemplazione.
Sono il presente e l’avvenire della Chiesa. Dio vi abita: riempie il cuore dei monaci
e delle monache con la sua presenza silenziosa, e tutta la loro esistenza è liturgica.
Essa si nutre della fede e dell’officio divino, ed è infiammata dall’amore e dal
roveto ardente della presenza divina. (...)
Deve essere possibile «percorrere questa strada che il Vangelo
non come un’utopia, ma come la forma piena e reale dell’esistenza», come affermava
Benedetto XVI in occasione dell’apertura del Congresso ecclesiale della Diocesi
di Roma, il 13 giugno 2011. Le nostre comunità devono diventare oasi in cui si può
fare l’esperienza della vera natura della Chiesa. Ora, nella vita ecclesiale, afferma
ancora nell’Udienza Generale del 14 maggio 2008, «c’è un’esperienza di Dio che è
più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa tocchiamo realmente
il cuore di Dio». (dalle pagine 120-126)
Il pero di Piazza Suspize
Nei pressi di Piazza Suspize, all’angolo tra Viale Capuccio,
il primo tratto di Via Medail e Via Giolitti, vive un pero di ragguardevoli dimensioni,
stimato di circa 300 anni, classificato nella specie “Pyrus communis” (pero comune)
e inserito nell’elenco Regionale degli alberi monumentali con Determinazione num.
3932 del 28 dicembre 2015. Per le sue caratteristiche, altezza di circa 17 mt.
e circonferenza di circa 3, rappresenta un’autentica rarità.
Originariamente era posto nel giardino di Casa Suspize che fu demolita nel dicembre
1994 e si salvò solo il grande pero del cortile interno.
Casa Suspize sorgeva infatti nello spazio divenuto parcheggio.
L’edificio realizzato tra il 18° e 19° sec. apparteneva all’Avv. Carlo Suspize,
autore del libello Bardonecchia antica e moderna, edito nel 1949, nonché segretario
comunale. Sulla facciata della casa era posta una lapide che ricordava i soggiorni
bardonecchiesi dello statista Giovanni Giolitti; “Qui dimorò in piena serenità familiare
dal 1903 al 1926 nelle ricorrenti vacanze estive, Giovanni Giolitti, mente eccelsa
di statista, aperta a tutte le libertà nell’ordine, al progresso e alla previdenza,
creò l’età dell’oro dell’Italia nostra col lavoro e la giustizia sociale, Bardonecchia
ricorda il suo illustre concittadino”.
Piazza Suspize e il suo pero storico, (come segnalato dalla
Dott.sa Eva Moncassoli che, da vario tempo, si occupa per la salvaguardia e la valorizzazione
dell’antico albero),
hanno ricevuto un finanziamento dal Gal Escartons
e Valli Valdesi per procedere, a interventi di “riqualificazione degli elementi
tipici del paesaggio e del patrimonio architettonico-rurale”. “Siamo soddisfatti
per il buon esito del bando – spiega il Sindaco Francesco Avato – ed ora vorremmo
dare una nuova immagine alla Piazza con il rifacimento dei posti auto e l’abbellimento
dell’area ecologica; la valorizzazione del pero sarà affidata ad una suggestiva
illuminazione notturna”. Il Gal ha stabilito di elargire la cifra di 80 mila euro
e il restante di 65 mila euro è a carico del Comune.
Attribuite due nuove De.Co.
Il Miele della Conca
e il Grappolo ligneo della
scuola del Melezet con la Soupe grasse
Due nuove eccellenze vengono attribuite della certificazione
DE.CO. si tratta del miele della conca di Bardonecchia e del Grappolo della scuola
del Melezet. È quanto viene reso noto dal Comune che specifica come, la Giunta Comunale
di Bardonecchia, su indicazione dell’apposita Commissione DE.CO., presieduta da
Maurizio Gonella, consigliere comunale, nella sua seduta di fine agosto, ha deliberato,
al termine di un lungo percorso, di attribuire al Miele della Conca di Bardonecchia
e al Grappolo della Scuola del Melezet la Denominazione Comunale (DE.CO), istituita
per valorizzare le eccellenze produttive, con particolare riferimento ai settori
agro-alimentare, ed artigianale del territorio della Conca, denominazione già attribuita
lo scorso anno alla Soupe Grasse. Contestualmente sono stati deliberati i relativi
loghi.
Le DE.CO. sono una certificazione con la funzione di legare
un prodotto o le sue fasi realizzative ad un particolare territorio comunale. Vengono
disciplinate a livello comunale e sono pertanto alla portata di iniziative di valorizzazione
locale di prodotti e ricette tipiche del territorio. Dare valore economico alle
DE.CO. creando un giusto marketing intorno ai prodotti per rilanciare i territori,
potrebbe costituire un’occasione per contrastare disoccupazione, spopolamento e
promuovere tutte quelle iniziative che attingono dall’esperienza e dalla conoscenza
delle persone più anziane, affinchè il nostro patrimonio culturale, di inestimabile
valore, non vada perduto ma, anzi, venga salvaguardato e ancora più valorizzato
per le generazioni future. Il prodotto DE.CO. può far rinascere l’economia di un
territorio e l’amininistrazione ha intrapreso seriamente questa strada. Dove c’è
Denominazione comunale c’è storia, cultura, il gusto e l’arte dell’Italia, ma soprattutto
c’è la gente, quella che emoziona, che si fa sentire, all’ombra delle cime delle
nostre montagne.
Il Miele della Conca di
Bardonecchia è un prodotto unico che nasce da nettare bottinato
al di sopra dei 1300 metri, in un ambiente incontaminato, che permette di ottenere
mieli puliti, salubri, freschi, con caratteristiche organolettiche eccezionali e
grande ricchezza aromatica che rispecchia la biodiversità della flora, degli ecosistemi
naturali e del fattore antropico. Millefiori e monoflora che richiedono impegno
e costi elevati, la loro produzione non è costante a causa delle instabili condizioni
meteorologiche: siamo in montagna, il periodo di raccolta, nell’annate favorevoli,
è limitato ai soli mesi di giugno, luglio e agosto. Non bisogna dimenticare infine
l’importanza della presenza delle api per l’ambiente, in un momento di importanti
cambiamenti climatici, con la loro incessante attività di impollinazione, Albert
Einstein affermava che “Se l’ape scomparisse dalla faccia della terra, all’uomo
non resterebbero che quattro anni di vita”. Altro fattore favorevole alla concessione
è stata la volontà politica di favorire sinergie virtuose, al fine di ampliare il
numero dei produttori, in particolare rivolgendosi all’imprenditoria giovanile.
Il Grappolo della Scuola
del Melezet è il riconoscimento di un manufatto dell’artigianato
locale che affonda le sue radici nel XV secolo, sculture in legno che si estrinsecano
in elementi decorativi, pannelli in legno, intagliati con rilievi diversi, che rappresentano
vere proprie cascate o ghirlande di fiori e frutti, ulteriormente valorizzati dalla
vivace decorazione policroma e dalla doratura. L’attribuzione della DE.CO. è il
riconoscimento alla Scuola del Melezet della preziosa opera che tra le sue finalità
ha anche quella di mantenere viva la tradizione della lavorazione artistica del
legno. Importante segnalare che la verifica dell’accuratezza di esecuzione e la
qualità delle opere prodotte, nel rispetto del Disciplinare, sono demandate alla
“Scuola del Melezet”; solo le opere ritenute idonee sono soggette all’apposizione
di un marchio a fuoco identificatìvo della DE.CO.
La Soupe Grasse di Bardonecchia, un piatto della tradizione locale che utilizza gli ingredienti
poveri della montagna: burro, formaggio, pane di segale, cipolla, cavolo verza.
Una zuppa, che nella sua semplicità, è ricca di storia. Nel passato, è stata uno
dei pochi piatti che le famiglie potevano permettersi nei giorni di festa, riportarla
all’attenzione dei consumatori è un omaggio anche alla biodiversità gastronomica
del territorio che non deve essere dispersa e dimenticata. (L.V.)
Riceviamo e pubblichiamo
Invio alla redazione una lettera “aperta” perché
penso che le considerazioni espresse
dall’Ing. Franco Barneaud sull’ultimo bollettino del 2018 a pag. 123 meritino
di essere evidenziate per l’insegnamento che ci offrono.
Da sinistra:
l’ing. Franco
Barneaud,
la prof. Giulia Tonini (con il costume tradizionale)
e i coniugi Gado (foto collez. G. Tonini).
Senza alcuna retorica
o sentimentalismo o vittimismo ne riassumono l’esistenza, che non fu facile neppure
da ragazzo. Egli ricorda
il lavoro nei campi iniziato in giovane età, che come rivela la fotografia
del 1951, non era leggero: la mietitura è faticosa, anche per gli adulti, tanto più per chi deve “farsi le ossa”. Non accenna
alla propria fatica ma a quella dei genitori
e dei nonni, che egli voleva alleviare.
Gli studi, prima liceali e poi universitari, lo impegnarono al massimo. Li affrontò con grande forza di volontà
e spirito di sacrificio e, io aggiungo,
anche con capacità.
Conosco studenti che, pur non dovendo viaggiare e potendo
dedicarsi unicamente allo studio, non sono riusciti
a laurearsi al Politecnico, neppure fuori corso. Franco a 24 anni era ingegnere. Chissà, che soddisfazione e che gioia per i suoi cari!
Esemplare pure la serietà nella scelta della sposa, la quale ha condiviso e condivide tuttora le difficoltà
incontrate, soprattutto per la grave malattia che ha colpito la primogenita. Franco accenna soltanto
a quello che è un vero dramma,
di carattere pratico oltre che di sentimenti. Il suo scritto,
espressione della spiritualità degli studi umanistici
e della chiarezza degli studi scientifici, è un valido messaggio di serenità
e di saper cogliere
il bello che ci circonda, come le nostre montagne
e la conquista delle cime. La serenità gli deriva dalla fede, dall’accettazione degli imperscrutabili disegni di Dio, un Dio che egli sente come una presenza su cui poter sempre contare, specie nei momenti difficili.
Grazie a Franco
per la sua testimonianza e per l’invito
rivolto in particolare a noi non più giovani ad affrontare
con fiducia gli anni che il Signore ci concederà.
(Giulia Tonini)
Da sinistra:
l’ing. Franco
Barneaud,
la prof. Giulia Tonini (con il costume tradizionale)
e i coniugi Gado (foto collez. G. Tonini).
Mondo
scuola • Il giorno martedì 19 marzo
2019 si è concluso il ciclo del progetto “Libera
contro tutte le mafie”, organizzato dall’associazione Liberamente (Alveare) e Istituto Des Ambrois. Esso
si è svolto a Bardonecchia per le cinque classi
della scuola Media.
Il progetto era suddiviso in tre lezioni:
Storia di tutte
le Mafie in Italia Storia
dell’arrivo della Mafia a Bardonecchia Consenso
della Mafia nel nostro territorio piemontese.
I nostri ragazzi si sono dimostrati molto attivi ed interessati alla spiegazione delle
due giovani Volontarie di Libera ed hanno senza
dubbio acquisito conoscenze fondamentali per il loro futuro ruolo
di onesti cittadini italiani.
Prof. Nadia Tria Bompard
Il gruppo di prima media anno scolastico 2018-2019 |
MARCELLA
Avevo sette anni quando feci la prima uscita importante fuori
casa e fu quasi profetica. Vennero a prendermi la cugina prima di mio padre, Marcella,
e suo fratello Pinin; mi portarono via sulla seicento grigia, nuova di zecca.
Il momento del distacco dai miei genitori fu annebbiato da
un po’ di malinconia, ma il desiderio di vedere Torino, di scoprire cose nuove mi
incuriosiva. Avevo una valigetta marrone con poche cose di buon gusto per far bella
figura: qualche vestito cucito in fretta da mia zia Giuseppina, un paio di scarpe
nuove per la città e le immancabili ciabatte di panno comprate al mercato del paese,
di mercoledì.
Mi dispiaceva lasciare i miei familiari, ma anche gli animali,
cani e gatti. Cari, dolci ed inseparabili amici d’infanzia ai quali però non risparmiavo,
per abitudine, qualche dispetto!
II viaggio fu lungo: attraversammo parecchi paesi, viali alberati
che delimitavano prati e campi dai colori estivi. Finalmente Torino: strade ampie,
edifici imponenti, il Lingotto dove Marcella e suo fratello avevano lavorato. La
mia fantasia cercava di entrare nelle mura profonde della fabbrica, la prima in
Italia, dove quasi per magia, “si facevano” le automobili. Ne avevo sentito parlare
a scuola dal mio maestro. Ad ottobre avrei potuto raccontargli di aver visto davvero
la Fiat. Quel pensiero mi inorgogliva.
Poi, la casa di Marcella in Corso Piero Maroncelli: la scala
stretta in pietra scura, la ringhiera di ferro battuto, le porte severe sui pianerottoli;
io leggevo i cognomi incisi sulle mostrine di ottone lucido. Marcella era piccola,
di corporatura non proprio esile, sorrideva volentieri e parlava con calma.
La casa profumava sottilmente di cipria, era semplice e curata,
abbellita dai tanti lavori all’uncinetto, ideati da lei che aveva le mani d’oro.
Si era anche prodigata per 36 anni alla Fiat. Era rimasta sola ancora giovane: un
male cattivo l’aveva privata del suo sposo, mio cugino Giuseppe, un ragazzo volitivo
venuto dalla campagna per lavorare in fabbrica.
Conobbi le amiche di Marcella: Maria, Marta e Rita, e le sue
cognate, entrambe di nome Caterina. Mi vollero bene e per me ebbero attenzione e
gentilezza. Di loro non è rimasta nessuna, da parecchi anni. Mia cugina, tutti i
giorni cucinava per me cibi diversi, si preoccupava dei miei gusti e della salute,
come una mamma piena di garbo e delicatezza. Andammo in villeggiatura a Villar Pellice
in un alloggio al primo piano di una villetta.
Mi affascinò subito la montagna: i colori, i profumi, l’acqua
trasparente; l’incontro con la gente semplice mi rendeva serena. Amavo passeggiare
con il volto verso il sole, il mio animo gradualmente si apriva alla luce.
Un giorno con Vincenzo, l’altro fratello di Marcella, salimmo
al colle del Sestriere... tante volte poi sono tornata con mio marito nelle diverse
stagioni ed ho percorso i faticosi sentieri in alta quota! Mi piacque subito quel
posto brullo e ventoso, dove allora c’erano solo alcune case e due torri misteriose.
Tanti altri ricordi dilatati ormai nel filtro del tempo sfiorano
le immagini statiche che la mente recupera quando si ritorna bambini, anche solo
per pochi istanti.
Passarono tanti anni prima che riabbracciassi Marcella. La
incontrai nel parco senza tempo delle Ville Roddolo, la bella casa di riposo per
gli anziani Fiat, a Moncalieri. Il suo fisico era segnato dal naturale evolvere
delle stagioni che ella aveva visto scorrere, ma gli occhi ed il sorriso sembravano
più espressivi e dolci. Dopo la morte di mio padre, Marcella seppe consolarmi parlando
al cuore con la bontà e la saggezza proprie di chi ha vissuto consapevolmente una
vita onesta e laboriosa.
Le mie visite erano sempre di poche ore per la premura convulsa
del nostro affannoso inutile correre. Tuttavia quel breve, intimo tempo, sulle panchine
del giardino mi suggerivano calma: dentro di me stanca sentivo energia fresca e
la mente sapeva trarre qualche buona ispirazione per le situazioni a venire.
In un luminoso giovedì di fine inverno tornai da Marcella.
La trovai in un lettino di una camera al pianterreno: era pallida, dimagrita e sofferente.
Provai pena. Il sole entrava nella stanza e si spegneva sul suo sorriso stanco.
Rimasi a lungo seduta accanto a lei nella luminosità opaca
che sapeva di medicamenti e di eucaliptus.
In quella immobilità la fantasia disegnava paesaggi e figure
surreali.
La primavera si annunciava sicura nel cielo ormai sgombro
e con altri segnali, oltre quella finestra trasparente dove il passato trasaliva
nella dimensione già virtuale del nostro inarrestabile divenire.
Fu quello l’ultimo incontro con Marcella. Dopo qualche tempo
mi telefonarono che all’alba di un giorno di sole non si era più risvegliata. Era
maggio dell’anno 1988, ormai primavera avanzata. Per l’ultimo saluto tornai alle
Ville Roddolo. L’estate imminente si preannunciava con il profumo dei fiori che
con dolcezza accompagnavano una creatura sensibile e tenera. Ancora oggi le conversazioni
e i suggerimenti in tanti anni di frequentazione, persino le ricette di cucina del
vecchio Piemonte, sono presenti nei miei pensieri e nelle scelte di vita, come se
Marcella ancora ogni tanto tornasse ad incoraggiarmi, tenendomi un po’ di compagnia.
(Racconto presentato al 12° Premio letterario “Myo-Sotis” il 13 aprile 2019 che ha conseguito il Diploma d’Onore Premio della Presidenza)