di Antonella Filippi
Alfredo Vachet
Il piccolo Alfredo
Vachet tra la mamma Angela, a destra, e la maestra Matilde Chareun.
Per
ogni soldato l’unico momento di serenità nell’orrore della guerra era quello in
cui arrivava la posta da casa: le lettere della mamma o della fidanzata erano
le più attese perché portavano il calore degli affetti in quel mondo di morte.
I soldati leggevano e rileggevano quelle parole e non si staccavano mai da
quelle lettere. Per Alfredo Vachet non era così, a lui non scriveva nessuno perché
non aveva più nessuno. Ricordò sempre l’immensa tristezza che invadeva il suo
cuore così tremendamente solo nella guerra, senza alcun sentimento a cui
appigliarsi. Alfredo nacque il 9 settembre 1898 a Melezet.
Quando
aveva solo due anni suo padre Placido morì: era tornato accaldato dai campi e
aveva voluto andare in cantina a preparare le patate per la semina. Si ammalò e
una polmonite se lo portò via.
Alfredo
rimase solo con la mamma Angela Bernard; frequentò le scuole del Melezet fino
alla
Alfredo Vachet, soldato nel 3° reggimento alpini. |
Quando
nel febbraio del 1917 giunse anche per lui la chiamata alle armi per
mobilitazione,
Alfredo
era in Francia dove faceva il manovale nella fonderia di La Praz:2 aveva
sperato che la sua condizione di orfano lo potesse esentare dalla leva, ma così
non fu. Il 3 giugno 1917 arrivò in Italia, si presentò al distretto di Pinerolo
e fu arruolato nel 3° reggimento alpini, battaglione Exilles. Il 1° settembre
1917 giunse in territorio in stato di guerra e nel novembre passò al 1°
reggimento alpini, battaglione Mondovì, nella 9ª compagnia. Erano i giorni in
cui il battaglione veniva spostato nell’alta valle dell’Isonzo, a Jama Planina
nel settore di Caporetto, proprio alla vigilia dell’attacco austro-tedesco. Il
24 ottobre 1917, quando si scatenò il violento fuoco delle artiglierie nemiche
nel settore di Plezzo, il battaglione Mondovì ricevette l’ordine di ripiegare a
ovest di Caporetto, sul Monte Stol, che difese con una violenta lotta, dovendo
infine capitolare e riprendere la ritirata fino al Tagliamento. In quei terribili
giorni le truppe si sbandarono, fuggendo insieme ai civili, e il battaglione
Mondovì si ricostituì a Corteno, in Val Camonica, per istruzioni.
Alfredo
fu inviato in licenza e tornato a Melezet, preso dalla disperazione del prossimo
ritorno in trincea, decise di passare ad un atto estremo. Costruì un congegno
rudimentale con una carrucola fissata a un balcone e a cui legò un masso; sotto
c’era la sua gamba appoggiata su due tronchi di legno, ma quando stava per
azionare la corda che avrebbe fatto cadere la pietra spezzandogli la gamba, gli
mancò la forza e rinunciò. E meno male, perché sarebbe stato facilmente
scoperto dai medici militari e mandato sotto processo per autolesionismo. E se
si fosse salvato dalla guerra sarebbe rimasto storpiato per tutta la vita.
Alfredo
rientrò al fronte con il battaglione Mondovì che nel gennaio del 1918 era stato
spostato a S. Caterina Valfurva e mandato in prima linea sulle trincee del
Monte Forno. Per il nostro Alfredo Vachet iniziava una nuova guerra, quella
sulle alte cime dello Stelvio. Quando arrivò in linea gli alpini avevano appena
finito di scavare nel ghiaccio una galleria con la quale avevano raggiunto e
sconfitto una postazione austriaca: Alfredo fu messo di vedetta all’imbocco del
tunnel nella neve. Visse quelle due ore di guardia nel terrore che da un
momento all’altro potessero sbucare gli austriaci e ucciderlo; contava i minuti
sull’orologio di suo padre, così quando fu il momento di dare il cambio tanta
era la voglia di fuggire da quel luogo che dimenticò l’orologio e lo perse.
Alfredo ricordava che anche lassù sulle vette vivevano torturati dai pidocchi e
quando potevano scendere a Santa Caterina di Valfurva si toglievano le divise e
le mettevano a bollire in un gran pentolone. La 9ª compagnia del Mondovì l’11
maggio 1918 si arrampicò sulle pendici della Cima San Giacomo di 3281 metri,
superando con vere e proprie prodezze di alpinismo le enormi difficoltà del
terreno di alta montagna, e riuscì a conquistare la cima.
Nell’agosto
il battaglione scese a 2000 metri, in prima linea ad Albergo del Forno, dove
continuò l’aspro combattimento. Nell’ottobre fu trasferito sul Piave e il 1°
novembre passò il fiume sul ponte di barche di Vidor e giunse a S. Stefano dove
fu raggiunto dall’annuncio dell’armistizio.
Anche
per Alfredo la guerra era finita ma non la mobilitazione: fu lasciato in
congedo illimitato il 26 ottobre 1920 e ritornò al suo paese. Alla fine della
guerra il Vachet fu autorizzato ad apporre al nastrino per le fatiche di
guerra, due stellette per i due anni di campagna di guerra.(3
Maria Rosa Guy.
1
Matilde Chareun (1865-1953) fu un’istituzione per la scuola elementare di
Bardonecchia. Diplomata a 18 anni presso il Collegio S. Giuseppe di Susa,
iniziò subito ad insegnare e dedicò tutta la vita all’educazione e
all’istruzione dei bambini di Bardonecchia. Fu una grande educatrice, legata ai
suoi allievi anche al di fuori delle aule scolastiche: li preparava alla Prima
Comunione, teneva il catechismo in Parrocchia e in inverno li ospitava nella
sua casa dove aveva messo in piedi un piccolo oratorio per i piccoli che potevano
giocare sotto il suo occhio vigile di educatrice. Donna di grande fede, fondò
l’Associazione delle Donne Cattoliche della Parrocchia di Bardonecchia. (“La
maestra Chareun”, Bollettino parrocchiale di Bardonecchia, 1954, p. 8.)
2
Molto probabilmente Alfredo Vachet lavorò a La Praz insieme ad Augusto Gendre.
I due rimasero legati da amicizia fino alla vecchiaia: entrambi del 1898 furono
anche compagni d’arme nello stesso battaglione Mondovì, ma Gendre dopo la
sconfitta di Caporetto cadde prigioniero.
3
Il nastrino per le fatiche di guerra fu istituito con il R.D. del 21 maggio
1916 per gratificare con un distintivo coloro che stavano combattendo; con il
R.D. del 5 aprile 1918, per differenziare i soldati che avevano trascorso più
anni nelle zone delle operazioni, si diede l’opportunità di apporre sul
distintivo una stelletta per ogni anno passato al fronte. Il distintivo fu
assorbito dalla “Medaglia Commemorativa della Guerra Italo-Austriaca 1915-1918
per il compimento dell’unità d’Italia”, coniata con il bronzo del nemico e
istituita con R.D del 29 luglio 1920
Quando
giunse a Melezet era ormai maggiorenne e potè liberarsi della tutela e prendere
possesso della casa dei suoi genitori. Ricominciò da zero la sua vita facendo
il contadino e vivendo da solo nella sua grande casa. Conobbe una ragazza del
paese, Maria Rosa Guy, nata nel 1897, e si sposarono nel 1923. Dal loro
matrimonio nacquero tre figli: Erminia nel 1924, Ines nel 1928 e Renato nel
1935.
Alfredo
nel 1927 entrò in Ferrovia e lavorò per quasi quarant’anni alla centrale della
manutenzione ferroviaria di Bardonecchia, si occupò sempre con grande
competenza del controllo della linea elettrica.
Era
un gran lavoratore, capace ed esperto, si dedicava con passione al suo lavoro:
stimato da tutti, a lui ci si rivolgeva sempre se c’era un problema da
risolvere, ed era diventato il punto di riferimento per i colleghi e i
superiori.
La
ferrovia era diventata la sua seconda casa, ma il suo lavoro non si esauriva
sulle linee elettriche e sui binari, c’era la campagna da portare avanti: in
estate Alfredo si svegliava all’alba e andava a tagliare il fieno fino al
Chesal e alle Sellette, poi lasciava la falce nel prato e a piedi andava in
stazione, alla sera saliva in alto a riprendere la falce e ricominciare il
lavoro interrotto. Come tutti in paese aveva gli animali nella stalla, due
mucche, un mulo, le pecore e le galline: la moglie con le figlie lo aiutavano a
mungere e a fare il burro e i formaggi.
Dopo
una vita di lavoro e fatiche morì nella sua casa di Melezet il 14 gennaio 1970.
Il
fenomeno dell’autolesionismo andò crescendo fin dal primo anno di guerra, in
particolar modo sul fronte del Carso. Giungere razionalmente a mutilare
irrimediabilmente una parte del proprio corpo pur di poter uscire
dall’ingranaggio dell’immane carneficina è del tutto inconcepibile per chi non
abbia vissuto la Grande Guerra. Alcuni di quegli uomini incastrati nelle
trincee per mesi senza possibilità di uscirne, arrivarono a pensare di privarsi
di un arto, di un occhio, dell’udito, pur di scampare alla morte. I metodi
usati furono tanti e tutti tremendi, frutto di una disperazione senza limiti:
ci si iniettava pus nelle ferite per ammalarsi di cancrena, ci si infettava gli
occhi col pus della blenorrea per causarsi congiuntivite che in alcuni casi
portava la cecità, si utilizzavano punteruoli per bucarsi il timpano delle
orecchie, alcuni si iniettavano sotto la pelle dei piedi olio di vaselina,
petrolio o essenza di trementina procurandosi tremende piaghe e finendo per
camminare zoppi per tutta la vita, altri si schiacciano i piedi sotto le rocce.
Il metodo più frequente era quello di spararsi nel palmo della mano o in un
piede, ma i medici capivano subito dal percorso del proiettile, dall’interno
verso l’esterno, che si trattava di automutilazione. Nelle buche del Carso,
dove i cecchini sparavano a qualunque cosa che uscisse allo scoperto, bastava
però alzare un braccio fuori dal riparo per essere colpiti ad una mano nella giusta
direzione. Il più delle volte l’ufficiale medico scopriva che il soldato aveva
fatto tutto da solo e lo mandava sotto processo. Pene severissime furono
previste per cercare di fermare questo fenomeno di resistenza alla guerra: nel
corso del conflitto ci furono 10.000 processi per autolesionismo con condanne
fino a 20 anni di galera e in alcuni casi anche esecuzioni capitali.
Per
saperne di più: E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi
della 1ª Guerra Mondiale, Laterza, Bari, 1968. A. Frescura, Diario di un
imboscato, Mursia, Milano, 2015, capitolo XIII, “Il buon giudice”.
FONTI Testimonianza del
figlio Renato Vachet.
Archivio di Stato di
Torino, foglio matricolare di Vachet Alfredo.
Documentazione
e fotografie della famiglia Vachet
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