L’ANGOLO FILATELICO 2017
Dal 12 al 19 agosto è stata allestita
presso la Biblioteca comunale, Viale Bramafam 17, a Bardonecchia una Mostra
Filatelica sul tema del centenario della Grande Guerra. La rassegna dentellata
ha presentato la collezione, sviluppata su 60 fogli, di Roberto Gottardi: “Trentino-Alto
Adige: da Provincia asburgica a Provincia italiana”. La mostra, curata
dall’Associazione dei Circoli e sezioni filateliche di Torino e provincia in
collaborazione con la Biblioteca comunale, è rimasta visitabile tutti i giorni,
tranne la domenica, secondo gli orari di apertura della Biblioteca. Poste
Italiane inoltre, il solo 14 agosto, in occasione del tradizionale mercatino di
Sant’Ippolito, ha allestito un ufficio postale distaccato dotato di annullo
speciale. La postazione di vendita, grazie alla preziosa collaborazione della
Pro Loco di Bardonecchia, era ubicata in Piazza Monsignor Bellando (Borgovecchio,
fronte Parrocchia) e ha osservato l’orario 10,00-16,00. Cartolina ed annullo speciale,
disponibili in loco, sono stati dedicati a tutti i caduti bardonecchiesi del
primo conflitto mondiale e al centenario del sacrificio del S.Ten. Camillo
Masset, medaglia d’argento al valor militare.
Massimo Mancini
L’Angolo della Cultura
A 25 ANNI DALLA MORTE
MONSIGNOR BELLANDO
amico dei peccatori perché amico dei
santi
Amico dei peccatori
Più di una volta monsignor Bellando, con quelle
confidenze che lasciavano trasparire la finezza spirituale del suo animo
sacerdotale, confessava che la definizione che più gli piaceva di Gesù era
quella che si trova nel Vangelo, seppure indiretta, quando lo si chiama “amico
dei peccatori”1. Non che Gesù fosse amico dei
peccatori nel senso inteso da coloro che lo accusavano di intendersela con
loro, quasi ne fosse complice. Tutt’altro. Nel Vangelo, infatti, Gesù mostra la
sua strategia nell’accostare i peccatori e lo contempliamo in questa azione
soprattutto attraverso sette incontri che hanno segnato per sempre i
destinatari: Pietro, Levi, la donna peccatrice, Zaccheo, l’adultera, la
Samaritana troppo maritata, il buon ladrone. Sette volti trasfigurati dal
perdono, perché pentiti. Sette volti attraverso i quali contemplare lo stesso
Gesù, quello che più piaceva a don Bellando. Don Silvio Bertolo che celebrò la
Messa di novena in suffragio del Parroco (di cui era stato collaboratore come
vice parroco a Bardonecchia) nella stupenda omelia rilevò: «Per mons. Bellando il sacerdote era soprattutto il segno della
misericordia di Cristo, che accoglie i peccatori con carità instancabile e
pazienza infinita. Gli dicevo talvolta scherzosamente: “Voi siete il prete dei
peccatori!”. Se infatti venivano in Parrocchia persone lontane dalla Chiesa o
lontane da Dio che conducevano una vita peccaminosa e immorale, allora quelle
trovavano tutta la sua attenzione e disponibilità. Per loro non aveva orari né
limiti di sopportazione, in qualunque momento venissero. Una volta una giovane
toccata da tanta bontà e comprensione, dichiarò che non avrebbe mai pensato che
la Chiesa fosse così misericordiosa e la Chiesa l’aveva incontrata avvicinando
don Bellando»2.
Fu veramente così da sempre don Bellando, fin da
giovane seminarista al Capranica a Roma, poi in Accademia dei Nobili
Ecclesiastici dove studiò per la vita diplomatica e in Segreteria di Stato. In
quegli anni romani conobbe e fu frequentato sovente da gente del gran mondo
dell’arte, del cinema, della politica, del patriziato e della classe dirigente.
Diversi di questi personaggi che vivevano mondanamente avevano in don Bellando
un confessore o un consigliere spirituale, comunque si sentivano da lui
compresi e attratti e ne facevano un trait d’union con la Chiesa. Non credo di
rivelare nulla di nascosto se cito solo qualcuno di questi: Anna Magnani,
Luchino Visconti, Massimo Serato, Léonor Fini, Fabrizio Clerici e parecchi
altri. D’altra parte gli veniva facile stabilire rapporti d’amicizia essendo
per temperamento molto portato alle relazioni per cui non sapeva e non poteva mai restare solo.
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1 Cfr.
Mt. 11,19
2 Don
Silvio Bertolo, Fecisti nos Domine ad te, Omelia Messa di novena in suffragio di Mons.
Francesco Bellando in Numero Unico Mons. Francesco
Bellando Parroco di Bardonecchia, a cura della Parrocchia di S. Ippolito in
Bardonecchia, marzo 1993, Opera Diocesana Buona Stampa di Torino, pag. 14.
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Lo stesso ruolo don Francesco però lo esercitò
anche con tanta povera gente, semplici persone che trovarono in lui
comprensione e incoraggiamento e si riconciliarono con Dio magari dopo vite
intere trascorse nel disordine o lontano dal Signore. Fin dai primi passi del
ministero che mosse nella parrocchia di S. Francesco Saverio alla Garbatella –
allora periferia romana – e poi certamente con parrocchiani e villeggianti a
Bardonecchia, dove in 46 anni di ministero ha potuto accompagnare tante anime
alla riconciliazione e ad una fede più profonda e vissuta. Quante volte gli
abbiamo sentito ripetere quello che aveva imparato dal Santo Curato d’Ars suo
grande modello: «Il confessionale è la pazienza di Dio» o «Se fossi triste
andrei subito a confessarmi».
Santi conosciuti
Monsignor Bellando ha conosciuto personalmente
parecchi “santi”, alcuni già dichiarati tali ufficialmente, altri che hanno in
corso il processo di canonizzazione. Lui stesso ne diede un elenco, anche se
incompleto, nel senso che altre cause si sono aperte in seguito alla sua morte
di amici o persone conosciute da lui personalmente, alcuni anche canonizzati o
beatificati. Era molto interessante leggere i suoi articoli sul Bollettino in
cui raccontava i suoi rapporti con questi “santi” conosciuti. Iniziò con Don
Orione oggi canonizzato, P. FeliceMaria Cappello gesuita suo professore e
relatore della tesi di Diritto Canonico, P. Giuseppe Spoletini dei Frati minori
suo confessore, don Pirro Scavizzi del clero romano e capranicense, oggi tutti Servi di Dio, mons. Pasquale Uva del
Cottolengo di Bisceglie oggi Venerabile, il Cardinale Elia della Costa
Arcivescovo di Firenze da pochi mesi riconosciuto Venerabile dalla Chiesa, il
Cardinale Ildefonso Schuster beato Arcivescovo di Milano, mons. Francesco
Paleari beatificato nel 2011 a Torino, don Alberione beatificato a Roma nel
2003,Madre Tecla delle Paoline Venerabile dal 1991, il Servo di Dio P. Ribero
Superiore del Cottolengo, Madre Teresa di Calcutta Santa dal 2016, Santa
Elisabetta Hesselblad canonizzata nel 2016, la Serva di Dio Madre Benedetta
Rigon fondatrice del Cenacolo Domenicano, la Venerabile Madre Luigia Tincani
fondatrice delle Missionarie della scuola. Di ciascuno di essi don Bellando ha
scritto articoli curiosi e interessanti,
molto personali nell’arco di alcuni anni sui
Bollettini parrocchiali di Bardonecchia e chi volesse potrà ricercarli in
archivio. Non ha potuto scrivere di Pio XII divenuto Venerabile il 19 dicembre
2009, di Paolo VI oggi Beato e presto santo (nel 2018) e del Beato Alvaro del
Portillo Prelato dell’Opus Dei che affiancò e con cui impose lemani
all’Ordinazione sacerdotale di chi scrive, da parte di Giovanni Paolo II,
anch’esso oggi santo.
Santi amici
Il Beato Luigi Novarese. |
Di altri, invece, don Bellando è stato amico, ha
cioè coltivato rapporti più stretti e costanti, durati nel tempo. È il caso del
Vescovo Enrico Bartoletti, Vescovo di Lucca e Segretario Generale della C.E.I.,
o di mons. Divo Barsotti che è pronto per attivare il processo di canonizzazione,
e dei quali abbiamo scritto su questo Bollettino negli anni passati. Uno di questi
santi amici, recentemente beatificato, ci pare degno di nota, in questa nostra
riflessione a 25 anni dalla morte di don Francesco (7 ottobre 1992): il Beato
Luigi Novarese.
Lui stesso ne scrisse nell’ultimo Bollettino
prima della malattia. In questi mesi stanno girando le sue Stampelle definite
“della speranza” in alcune parrocchie e Diocesi piemontesi, per fare conoscere
il suo carisma e le fondazioni da lui sorte come il Centro Volontari della
Sofferenza.
Leggiamo quanto mons. Bellando ricordava
perfettamente: «Era l’ottobre del 1935 quando Luigi Novarese entrò al Collegio
Capranica. Il chierico seminarista Bellando Francesco si trovava al Capranica
già prima di lui. Il Novarese si manifestò subito allegro, faceto, pieno
d’iniziativa. Apparve come un elemento necessario perché portava un’onda di
gaiezza per le sue esibizioni come organizzatore di canti, di giochi, tanto da
creare intorno alla sua persona un’aura di popolarità. Giungeva con esperienze
particolari da Casale Monferrato. Una malattia grave, la coxite tubercolare,
l’aveva provato per otto anni ed era guarito, come lui asseriva, per
intercessione dell’Ausiliatrice e di Don Bosco che sarebbe stato poi
canonizzato. L’Azione Cattolica aveva orientato poi la sua vivacità naturale ad
un grande spirito di apostolato. Aveva sempre nuove iniziative: gruppi di
preghiera per intenzioni speciali, libretti e fogli di spiritualità, riunioni
più o meno segrete.
La fede semplice e profonda che l’animava si
esprimeva in una particolare devozione per il Sacro Cuore e per l’Immacolata.
Ricordo che, allora, come sacrestano, mi raccomandava di non preparare l’altare
dopo la solenne celebrazione del 1º venerdì del mese perché il giorno dopo era
il 1º sabato dedicato al Cuore diMaria. Venne ordinato sacerdote nel 1938.
Scoppiata la guerra, entrò nell’Ufficio Informazioni della Segreteria di Stato.
Io che vi ero entrato prima di lui, ebbi la strana ventura di portare
personalmente la sua domanda all’allora Sostituto della Segreteria di Stato
Mons. Montini. In Segreteria resterà molti anni, ma la sua attività era
rivolta, come per vocazione speciale, ai malati, ai sofferenti. Per la riuscita
della sua opera nulla lo tratteneva. Cercava infatti gli appoggi necessari, con
insistenza che poteva sembrare eccessiva, nei superiori, nella gerarchia.
Appaiono così nel suo cammino l’Arcivescovo Mons.
Carinci Segretario dei Riti, P. Leiber della Gregoriana e Capo della Segreteria
privata di Pio XII, P. Roschini dei Servi di Maria, vari prelati della Curia e
Vescovi di varie Diocesi. Dal suo zelo presero vita le iniziative che da tempo
portava in cuore: la Lega Sacerdotale Mariana, i Volontari della Sofferenza, i
Silenziosi Operai della Croce, i Fratelli degli ammalati, organizzando incontri
spirituali,
Esercizi spirituali, pellegrinaggi di sacerdoti
ammalati e di ammalati a Lourdes, a Fatima, a Loreto, a Paray-le-Monial e ad
altri Santuari mariani. Memorabile fu l’Udienza di 7.000 ammalati nel cortile
del Belvedere in Vaticano in cui Pio XII lo chiamò: «generoso sacerdote della
Curia romana». Nel 1972 “L’Osservatore Romano” portava la notizia della sua nomina
ad Assistente religioso degli Ospedali. Lo rividi ad Oropa dopo tanti anni,
dovemi presentò la sua preziosa collaboratrice Sorella Myriam, dedicata
soprattutto alle varie case di ospitalità dell’Opera. Chi l’aveva conosciuto
restava stupito di tanta attività»3.
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3 Bardonecchia, Echi di Vita Parrocchiale Anno LXXIX - n. 1 - Gennaio 1991, pagg. 41-42.
Scherza con i fanti ma lascia stare i santi
Il Parroco di Bardonecchia chiude l’articolo sul
suo personale rapporto con mons. Novarese con un’osservazione ironica, che va
colta nel contesto della loro relazione, soprattutto come compagni di Collegio
che mons. Bellando mi rivelò quando io, stuzzicandolo, volevo sapere di più di
questa storia. Nell’articolo infatti si dice che fra le tante cose il Novarese
organizzava «riunioni più o meno segrete», seppi infatti da don Bellando che il
Novarese selezionava chi, secondo lui, poteva partecipare a questi circoli
mariani, una specie
di Legio Mariae, mentre altri non venivano
coinvolti, e capii che don Bellando era giustamente ferito perché non invitato,
si sentiva in un certo senso non ritenuto degno, ma non volle andare a fondo
della questione.
C’era un po’ di gelosia forse tra compagni con
belle doti e di belle speranze come erano entrambi? Può darsi e sarebbe molto
umano, specie in un Collegio, anche se così illustre come il Capranica. In realtà
c’era stato un episodio che aveva creato un po’ di frizione, che rimase fra i
due e che don Bellando non scrisse per delicatezza nel suo articolo, ma che mi rivelò
su mio stimolo. Poiché del tutto innocente possiamo ora, a distanza di tanti
anni rivelarlo, e poi ormai il Novarese è Beato e mons. Bellando sicuramente è
in Cielo, anche lui.
Il Vescovo di Avellino Pasquale Venezia e il Beato Novarese. |
Era successo che per le schermaglie tra giovani
compagni il Novarese avesse mal sopportato uno scherzo ritenuto pesante da
parte del compagno Pasquale Venezia. Per ricambiare (che vendicare non s’addice
a un santo) lo scherzo il Novarese con la complicità di un paio di chierici
afferrarono lo studente Pasquale Venezia e lo scaraventarono nella vasca piena
d’acqua del cortiletto, fra lo sbigottimento dei Superiori. Bellando ci finì in
mezzo e ne fu punito, non ho mai capito bene perché.
Questo rivela il caratterino del Novarese e creò
ruggine cameratesca anche con don Bellando che del Venezia era molto amico. Lo
rimarrà per tutta la vita anche quando sarà Vescovo di Avellino, in tempi
difficili, perché ci fu il terremoto del 1980 e già prima come Vescovo di
Ariano Irpino affrontò là il terremoto del 1952, morì nel 1991, un anno prima di
don Bellando.
In verità le cose poi si ripararono bene e il
Vescovo Venezia fu grande amico del Novarese alla cui opera affidò nel 1957 il
Santuario della Salus Infirmorum di
Valleluogo, e andando poi a ritirarsi a Rocca Priora presso la casa dei
Silenziosi operai della Croce, fondati dal Novarese e dove anni prima il Beato
morì. Dunque era soltanto un’ombra.
Mons. Bellando tiene l'omelia (29.06.1983). |
I due particolari accennati, le riunioni segrete
e lo scherzo pesante, spiegano un po’ la chiusa dell’articolo in cui mons.
Bellando con ironia interroga il Cardinale Traglia che ordinò sacerdoti
entrambi: don Bellando il 25 marzo 1938 nella Cappella dell’Almo Collegio con mons.
Antonio Jannucci poi Arcivescovo di Pescara Penne, e don Novarese al Laterano il
17 dicembre 1938. Erano entrambi presenti alle rispettive Ordinazioni uno dell’altro,
saldando così un vincolo sacramentale, oltre che collegiale e capranicense.
Ecco la conclusione, a proposito del Novarese e
della fama che andava crescendo: «Un giorno dissi al Cardinale Traglia la mia meraviglia.
Mi rispose scherzosamente come sempre: “Vedi lui ha la fama di santità, mentre
né io né te l’abbiamo”. Aveva ben ragione il Cardinale Vicario di Roma... Non
era solo una battuta romanesca cui era solito il Cardinale, ma una finissima
notazione teologica e giuridica, da antico sotto promotore della fede come era
stato mons. Traglia da giovane sacerdote alla Congregazione dei Riti (così si
chiamava allora): la fama di santità è la base su cui si fonda e che mette in
moto la beatificazione e la canonizzazione di un Servo di Dio. E questo don
Bellando lo sapeva bene.
Predicare con i santi
Mons. Bellando aveva la buona abitudine di
scrivere le sue prediche che poi non leggeva ma pronunciava così a memoria, con
arte oratoria e appassionatamente. Così si conservano migliaia di fogli
manoscritti – alcuni, ma pochi in realtà, scritti a macchina – con le sue
prediche. Questo ha permesso al sottoscritto di svolgere un paziente e lungo
lavoro di lettura e di analisi di questi testi per arrivare ad una
pubblicazione delle Omelie, tanto apprezzate, del Parroco di Bardonecchia.
Tra le caratteristiche una dominante è la
presenza dei santi. Si può dire che non c’è neanche una predica senza la
citazione di almeno un santo, frequentemente ci sono diverse citazioni e spesso
di diversi santi. Sono episodi, riflessioni, aneddoti, pensieri, scritti,
considerazioni varie che ravvivano il discorso e certamente attiravano
l’attenzione dell’uditorio, imprimendo meglio le verità di fede trasmesse. In
occasione del 25º della morte di don Francesco il lavoro è arrivato a buon
punto e si profila la possibilità di una pubblicazione,
speriamo fra non troppo tempo, che metta in mano
ai lettori interessati un materiale utile a ravvivare le virtù cristiane e a
seguire l’esempio dei santi.
Si può dire in verità che don Bellando ha fatto
quello che la Didaché già consigliava ai primi cristiani e che don Giussani ha
insegnato come un ritornello ai suoi di C.L.: «Cercate ogni giorno il volto dei
santi e trovate riposo nei loro discorsi» (Didaché
IV, 2).
Mons. Claudio Jovine
fra nuovi assetti territoriali e
romanticismo
Vittorio Amedeo II. |
«Sua Maestà Cristianissima ... cede e trasporta a
Sua Altezza Reale di Savoia ... irrevocabilmente e per sempre, le Valli che
sieguono, cioè la Valle di Pragelato con li forti di Exilles e di Fenestrelle e
le Valli d’Oulx, di Sesana, Bardanache...», con queste parole dell’articolo 4
del Trattato di Utrecht, nella lontana Olanda, si liquidava la questione delle
alte valli; secondo un triste modello, quasi coloniale, si segnava il confine
fra ciò che doveva stare da una parte o dall’altra, al di là delle radici
perdute per chi quelle terre abitava.
Per i Savoia, coinvolti in un continuo gioco di
vittorie e sconfitte, la pace di Utrecht prevedeva la restituzione da parte
della Francia di Nizza e Savoia, l’attribuzione del Regno di Sicilia, inoltre
sulla base del principio delle cosiddette eaux
pendantes, ovvero di portare i confini fino al displuviale
alpino, il neo-regno incamerava anche le alte valli di Susa,
Chisone e Varaita cedendo alla Francia la valle
di Barcellonette. In questo modo le vallée cédées
sia pur con labili confini – infatti solo nel
1761 e 1764 i confini verranno definiti in modo preciso e definitivo –
entravano a far parte del nuovo Regno di Sardegna. In realtà nell’agosto del
1708, nel momento in cui il Duca di Savoia occupava la fortezza di Exilles, per
pacificare gli animi proclamava, fra l’8 e il 12 settembre, il rispetto degli usi
locali per le valli di Oulx e Pragelato. Il 2 gennaio 1709 Vittorio Amedeo II
riceveva dalla comunità di Bardonecchia il giuramento di fedeltà e in cambio i
bardonecchiesi si aspettavano il riconoscimento dei cosiddetti “privilegi
brianzonesi.”
In effetti il Trattato di Utrecht verrà concluso
solo l’11 aprile del 1713 e ratificato il 6 maggio dello stesso anno. L’alta
valle verrà annessa alla Provincia di Susa, creata dallo stesso Vittorio Amedeo
II nel 1622. Questo passaggio fu per l’Escarton dell’alta valle di Susa un
momento estremamente triste, infatti il Re di Sardegna bloccò i tradizionali
accessi del Monginevro dirottando i commerci verso il Moncenisio che collegava
la Savoia e il Piemonte; ovviamente questo significò
troncare scambi commerciali, culturali, matrimoni e legami familiari che da
secoli univano le terre del “Gran Escarton”,
mentre la nuova unione con la bassa valle era quanto mai innaturale nonostante
le apparenti logiche e naturali frontiere orografiche delle “eaux pendantes”, in quanto il
confine di Gravere segnava ben più della divisione fra alta e bassa valle, ma
piuttosto divideva mondi diversi sul piano linguistico, culturale, ed
economico.
Di questo stato di cose se ne rese conto
immediatamente Antoine Jaquet, sotto-prefetto della Provincia di Susa, che
nella relazione dal titolo “Memoire sur la
statistique de l’arrondissement de Suze”, indirizzata al
generale Jourdan del Consiglio di Stato, dirà: «… esiste una marcata differenza
fra gli abitanti della parte superiore e quelli della parte bassa della
Provincia. … Gli abitanti delle montagne hanno dei modi dolci, dell’affabilità,
dell’istruzione…; all’esterno, anche se molto poveri, in entrambi i sessi vi è
una estrema pulizia, quelli della pianura hanno una tinta di carattere molto
meno felice: più ignoranti, e di conseguenza più creduloni e più
superstiziosi…». L’intendente di Susa sottolinea ancora come il Collegio di
Oulx fosse un vivaio di insegnanti per il «midi de la France» grazie «alla loro
doppia nazionalità francosarda » e alla conoscenza della lingua francese, mentre
il resto del Piemonte «regnava l’ignoranza più profonda».
Francobollo celebrativo del Trattato di Utrecht. |
In questo contesto di grandi differenze fra alta e
bassa valle, gli abitanti dell’Escarton
di Oulx si riunirono già sin dal 26 maggio del
1713, e quindi pochi giorni dopo la ratifica del Trattato di Utrecht, con il
preciso intento di redigere e inviare a Torino una supplica per mantenere gli
antichi privilegi concessi dal Delfino con particolare riferimento a: sgravi
fiscali di vario genere, libertà di assemblea e di eleggere i propri Sindaci,
possibilità di costruire liberamente canali di irrigazione, fare tagli di
boschi, poter commerciare con relativa facilità nel brianzonese i vini di
Chiomonte ed Exilles, il mantenimento delle libertà del clero gallicano, al di
là della inevitabile soppressione della Prevostura di Oulx, e soprattutto la
possibilità di parlare e redigere atti amministrativi in francese per evitare
interpretazioni fallaci e fuorvianti.
In realtà, nonostante l’articolo 18 del Trattato
prevedesse il riconoscimento degli antichi usi, i privilegi degli escarton concessi dal Delfino del 1343
furono disattesi e quindi si moltiplicarono le richieste rivolte a Vittorio
Amedeo II per ottemperare a quanto promesso.
Il 7 dicembre l’Assemblea degli Escarton incarica Joseph Barbier, medico a
Bardonecchia, di perorare incessantemente la causa delle valli di Oulx e di
Pragelato presso il conte Mellaréde e presso l’intendente generale delle
finanze di Torino. Purtroppo le varie sollecitazioni non ebbero i risultati
sperati e quindi l’Assemblea degli Escarton
decise il luglio 1714 di inviare a Parigi un loro
rappresentante per far elaborare un cabaret
d’argento e un calamaio da tavolo anch’esso in
argento da donare al sovrintendente di Susa in modo da attirare la sua
benevolenza.
Nel 1719 Ippolito Des Ambrois di Rochemolles,
membro influente all’interno nelle deliberazioni degli escarton di Oulx e Pragelato verrà inviato
l’11marzo a Torino con il medico Juget di Chiomonte per vedere a che punto
erano le pratiche per la confermazione dei diritti delfinali come promesso sin
dal giuramento 12 settembre 1708. Nel 1734 troviamo una analoga supplica ad
opera del Comune di Bardonecchia.
In pratica, nonostante le suppliche, le
molteplici richieste da parte dell’escarton
di rispettare quanto promesso, i vari tentativi
di captatio benevolentie con
doni di prodotti tipici come formaggi e cacciagione od oggetti preziosi,
Vittorio Amedeo II e la Corte si dimostrarono insensibili e indifferenti alle
istanze provenienti dal basso, per di più da dei montanari con i quali vi era
una durevole inimicizia e diffidenza. Inoltre Vittorio Amedeo II «per la prima
volta introdusse il principio di una sorveglianza statale sui percorsi di formazione»
e «... sulla classe degli insegnanti ... Suscettibili di licenziamento in
tronco qualora non avessero corrisposto alle sue aspettative», è quindi
evidente che concedere alle alte valli la possibilità di scegliere e gestire
autonomamente corsi e insegnanti era quanto mai inopportuno.
Analogamente Vittorio Amedeo II si rivolse alle
municipalità per ottenere l’assoluta subordinazione delle Amministrazioni
locali al potere centrale emanando nel 1733 un editto nel quale i consiglieri
comunali si riducevano a sette che a turno avrebbero occupato la carica di
Sindaco, introducendo inoltre la figura del segretario comunale che si configurava
come un rappresentante dello Stato presso le comunità. Anche in questo caso
appare evidente che la nomina inmodo autonomo di un Sindaco, con pieni poteri,
da parte degli escarton cozzava con la ferrea volontà regia di controllo dei
territori delle terre alte.
Lo stato delle cose iniziò a prendere un nuovo
risvolto per una serie di fattori: anzitutto vi fu un’azione importante di
Luigi Latourette, appartenente a una potente famiglia di notabili castellani di
Oulx e Cesana, che riuscì ad ottenere copia del documento con cui Luigi XV
aveva confermato i privilegi ai due escarton
francesi unitamente all’azione del nipote Bernard
che sottopose, ancora una volta, alle gerarchie sabaude la conferma degli antichi
privilegi.
Carlo Emanuele II, più attento, rispetto al
padre, a smorzare le ostilità con le comunità degli escarton coinvolgendo i maggiorenti
locali, confermò, dietro pagamento dei tributi dovuti al Delfino, gli impegni
di Utrecht, il rispetto di franchige e delle tradizioni locali attraverso le
“Reali patenti” del 28 giugno 1737.
Il rinnovo dei privilegi brianzonesi era in
realtà un atto formale, in quanto i suddetti privilegi delfinali non dovevano
pregiudicare i diritti regi del patrimonio ed essere compatibili con le
disposizioni delle Reali Patenti. Emblematiche e in aperto contrasto con quanto
previsto dalle libertà delfinali, sono infatti le infeudazioni in alcune zone
dell’alta val Susa operate dai Savoia, che non esitarono a distribuire titoli
nobiliari come quelli di conti di Clavières, Exilles, Oulx, Salbertrand, San
Marco a chi aveva servito fedelmente o poteva pagarselo.
I due escarton
francesi e i tre italiani continuarono a riunirsi
come sempre ma separatamente e le loro decisioni sul piano economico e
culturale furono sempre meno efficaci proprio per la separazione
dall’importante centro di Briançon. I capifamiglia si riuniranno ancora nelle
piazze, nelle chiese per decidere in merito ai boschi o ai bandi campestri o
per eleggere i propri rappresentanti ma sempre più controllati da parte dei funzionari
regi o degli intendenti.
Che sotto i Savoia tutto sarebbe stato diverso lo
si era già capito sin dal dicembre del 1717 quando l’intendente di Susa
Guillier emette un divieto dei tagli boschivi senza consultare le autorità
locali. Furenti i delegati dell’alta valle si presentarono a Susa il 21marzo del
1718 rivendicando le «concessions des princes Dauphins en
faveur desdites communautés dans lesquelles elles ont été jusque á présent
maintenues».
Il 21 settembre 1737 a Bardonechia per la
riapprovazione degli statuti e dei bandi campestri si riunirono Consoli e
Consiglieri e il Castellano di Exilles, Pierre Syord, che però non si limitò ad
agire come semplice notaio ma intervenne profondamente nelle decisioni diffidando
del comportamento dei Consoli e sospettando ad ogni piè sospintomalversazioni e
inganni, anzi inviterà Sua Maestà a tenere d’occhio i maggiorenti degli escarton ancora troppo fedeli alla
Francia.
L’ultima riunione dell’escarton di Oulx avverrà nel maggio del
1791 e come sempre si discusse di viabilità, acque e boschi ... ma tutto rimase
senza seguito.
Le aspirazioni alla riunione delle “valli cedute”
con Briançon e Queyras sembrarono improvvisamente trovare una risposta nel
1796, sotto la spinta della Rivoluzione francese, con la nascita dell’effimera
Repubblica Piemontese, ma la furia iconoclasta ed egualitarista giacobina
cancellò ogni distinzione al di qua e al di là delle Alpi. Dopo Marengo il
Piemonte veniva finalmente annesso alla Francia senza però tornare alla realtà
amministrativa degli escarton, infatti i
territori delle valli cedute finiranno nei cosiddetti “dipartimenti
alpini” e precisamente negli arrondissements di Susa, Pinerolo e
Saluzzo: tutti rigorosamente al di qua delle Alpi!
Il Congresso di Vienna chiuse l’esperienza
napoleonica e con la “restaurazione” sancì, almeno nella facciata, il ritorno
all’ancient regime,
ma senza che venissero riconosciuti i privilegi delfinali e anche l’ultimo
appello delle “valli cedute” rivolto a Carlo Felice sarà destinato a rimanere
inascoltato.
Oggi sappiamo che le cose sono andate come
sappiamo, soltanto perché si è affermata una delle possibili soluzioni
storiche, non necessariamente la migliore. Resta sul campo il tema delle
“radici perdute” del legame al mondo degli escarton
o meglio al loro mito. Facile è immaginare che si
sarebbe potuto avere un mondo fatto di terre alte appartenenti a uno spazio per
così dire “italico” sul piano territoriale, ma dotato di ampi spazi di
autonomia, anche se poi i movimenti risorgimentali che di lì a breve
coinvolgeranno l’Italia e più in generale l’Europa con i vari moti
indipendentisti e il nazionalismo ad esso connesso, avrebbero spazzato
facilmente le autonomie locali.
Ripensare in questo modo la Storia non è mai
facile, anzi a volte è estremamente pericoloso e fuorviante, quindi è difficile
dire che la perdita dei privilegi per le alte valli fu una falsa partenza, o un
debutto sbagliato nella storia dell’Italia unita; certo in un’Europa omologatrice
e lontana così come a volte lo è l’Italia, il mondo degli escarton ci pare un’isola dove seppellire
il nostro cuore.
In ultimo, siccome in fondo la Storia è sempre
solo una e trasversale a tutti i popoli della terra,mi vengono inmente le
parole di Alce Nero dopo l’eccidio compiuto dagli Stati Uniti aWounded Knee: «Non sapevo che in quel momento era la fine di tante cose.
Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia,
ancora vedo [i massacri]
… E posso vedere che lassù morì un’altra
cosa lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sotto la tormenta. Lassù morì il
sogno di un popolo. Era un bel sogno…»1.
Roberto Borgis
1 D.
Brown, Seppellite il mio cuore a
Wounded Knee, Milano 2017, ed. orig. 1970, p. 421.
IL PELLEGRINAGGIO A ROMA (1ª PARTE)
vedi
https://bardonecchiasantippolito.blogspot.com/2018/09/il-pellegrinaggio-roma-1a-parte.html
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IL CASTELLO DEL BRAMAFAM
Ben conosciuto a chi dimora in Bardonecchia o la
frequenta è il forte del Bramafam che sovrasta l’abitato con la sua rilevante
estensione. Forse meno nota è l’esistenza di un castello omonimo i cui resti
(alcune rovine ed una torre individuata come “torre Bramafam”) sono ancora
evidenziati nelle mappe militari ottocentesche oltre che nei progetti per la
costruzione del forte e negli stati d’avanzamento dei lavori. Il castello era
collocato sul dosso dove attualmente vi è il forte omonimo.
Torre Bramafam - rilievo del 1889. |
Non occupava tutto lo spazio del forte recente ma
era posto verso la località denominata “quattro strade”. Scarse sono le notizie
sulle origini del castello di cui il toponimo “Ciatiau” (castello) ne ricorda ancora
oggi l’esistenza. Era probabilmente più piccolo, pur ricordandone la struttura,
rispetto al castello consortile che si ergeva sopra le abitazioni del “borgo
vecchio”. Per la sua posizione dominante la conca ed il suo accesso “in codammonte alticimo”, lungo
un’antica strada “alta” che portava dal Bersac verso Les Arnauds ed il Melezet, assolveva alle esigenze di controllo sia militare
sia commerciale.
Non si conosce quale membro della famiglia de
Bardonnèche lo abbia costruito, né in che periodo. Presumibilmente era
abbastanza mal ridotto quando, nel 1330, Pietro e Costanzo de Bardonnèche, in
non buone condizioni finanziarie, lo vendettero al Delfino Guigo VII assieme ai
loro diritti di cosignori. Entrambi i de Bardonnèche, divenuti soldati di
ventura, morirono poi a Poitiers combattendo contro gli inglesi.
L’acquisto di una porzione di cosignoria
rientrava nelle mire dei D’Albon che, affermato oltralpe il loro predominio,
tendevano ad estenderlo anche nell’alta Valsusa. Il loro potere era ben diverso
sui due versanti alpini. La realtà cisalpina nei primi secoli del secondo millennio
era assai più complessa e sfumata di quella oltralpe, con un insieme di diritti
eterogenei che comportavano una evidente difficoltà da parte dei Delfini ad
imporre la loro supremazia. In particolare incontravano la forte resistenza dei
cosignori di Bardonecchia che non volevano veder messa in discussione l’origine
autonoma e più antica dei loro diritti.
Il Delfino, divenuto con questo acquisto “parerius” (ovvero cosignore di
Bardonecchia) volle fare del castello di Bramafam il segno visibile della sua
presenza provvedendo al suo ripristino, dotandolo di una piccola guarnigione
permanente ed adibendolo a residenza di un suo vice-castellano.
Era usanza che quando il Delfino «vult hedifficare in castro» provvedeva a
sue spese al materiale («collidere sablonem
seu arenam») mentre agli abitanti del luogo spettava fornire
la manodopera («dictum sablonem facere deprotari in dicto
castro»). La
manovalanza mediante “corvées” era obbligatoria anche se regolarmente
retribuita; l’esecuzione dei lavori era riservata a maestranze specializzate: “magistri lapidici” e “carpentarii”. Nei rendiconti del
1333, fatti da Maurinet Maure, segretario del balivo di Briançon Guillome de
Bessignac, sono riportate le spese per la ricostruzione del castello.
Dobbiamo ad alcuni aspetti di natura economica le
prime descrizioni del castello.
Infatti il Delfino Umberto II, per far fronte ai
numerosi debiti di cui era gravato, propose al Papa Benedetto XII, allora in
Avignone, la cessione di parte dei suoi territori per 450.000 fiorini. Il Papa
ne offerse 150.000 riservandosi di ritirare l’offerta se la richiesta del
Delfino fosse risultata troppo alta. Nel 1339 commissari del Papa e del Delfino
ispezionarono le terre oggetto dell’offerta di vendita. Le due commissioni
lavorarono cinque mesi per stabilire il valore dei beni e visitarono tutte le
castellanie del brianzonese. Le perizie sono state conservate negli archivi
vaticani e delfinali. L’elaborato delle commissioni fornisce una
particolareggiata descrizione della vita trecentesca nelle Alpi poiché riporta,
oltre alla descrizione dei castelli, la natura dei censi e delle decime,
l’enumerazione dei magazzini per i cereali e dei profitti degli alpeggi, i
diritti su forni e mulini, gli emolumenti di giustizia e di tutto ciò che
comportava l’amministrazione della signoria.
Aspetto ipotetico del castello di Bramafam
(modello di Aldo Pettigiani).
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Nella valle di Bardonecchia i commissari giunsero
il primo maggio 1339 per visionare i due castelli: quello consortile e quello
di Bramafam che nel documento viene così descritto: «Il castello di Bardonisca, detto di Bramafam, è situato su un
monticello assai alto ed è nella forma quasi quadrato ... due torri merlate di
nove tese d’altezza sul lato occidentale ... una cinta merlata a difesa del
portale d’ingresso».
Le torri erano alte sedici metri, di cui una
rinforzata da una massicciata di cinque tese (nove metri). Una delle due era
rotonda e quindi costruita in epoca successiva rispetto all’altra. Le torri
rotonde, che offrivano minor superficie ai colpi, rappresentavano una soluzione
più avanzata rispetto a quelle quadrate e furono adottate più tardi rispetto
quelle tradizionali. Tra le torri si trovava un edificio a due piani composto
da una sala e due camere, tutte munite di camino, al piano terra, ed altrettante
camere a quello superiore. Completavano la struttura un mulino a braccia, un
forno e la cisterna per l’acqua piovana. Un minuscolo recinto esterno, di circa
30 metri, delimitava lo spazio destinato a “basse cour” e serviva come difesa primaria.
Nel castello vi era anche una prigione dove nel 1446 venne segregato Marcellin Barbier
di Nevache che si era rifiutato di prestare giuramento al Delfino Luigi II, il
futuro re Luigi IX.
Si tramanda che sotto il castello delfinale fossero
collocate tre forche in località che ancor oggi ne ricorda la loro posizione nel
nome “la Fourcia”.
Non risulta però che siano state utilizzate. Un’inchiesta del 1375 riporta le
sentenze capitali attuate in Bardonecchia di cui si era tramandato il ricordo.
Sono citati solo due casi: uno di un ladro e vagabondo, che fu impiccato al
Colle della Scala, l’altro di un “ribaldo”, che fu annegato nella Dora alla
presenza di Guillaume de Bardonnèche quale cosignore del luogo. Secondo alcuni
autori il toponimo non starebbe ad indicare la presenza di forche ma
deriverebbe dal termine “furcia”, che nel Medioevo indicava la casaforte od un
edificio fortificato e quindi il castello delfinale.
Dall’inchiesta papale risultò l’esosità della
richiesta per cui l’offerta di vendita del Delfinato al Papa non ebbe seguito
ed il territorio fu successivamente acquistato nel 1349 dalla Corona di Francia
divenendo appannaggio degli eredi al trono che assunsero il titolo di Delfino.
Nell’atto di cessione Bardonecchia è citata due
volte: nell’elenco dei feudi, per il castello inferiore, ed in quello dei
castelli di patrimonio del delfino per il superiore. Nel 1377 il delfino Carlo
III ottenne dal Cardinale Anglic di ricorrere ad una tassa sugli ecclesiastici
che permise di ristrutturare diversi castelli tra cui quello di Bramafam. Nel
1417-18 a causa della crisi anglo-borgognona il castello, che disponeva solo di
due bombardelle petriere, fu completamente riarmato. Comparirono così in
Bardonecchia per la prima volta le armi da fuoco come dotazione difensiva. Su
ordine del balivo Goffréy d’Arces il castellano ClaudeMolet, con la consulenza
delmastro ingegnere Guigue Richard, acquistò le armi d’asta a Pinerolo, le asce
da guerra a Lione, le armi da getto a Thonon ed Avignone, e le artiglierie a
Grenoble. Il castello divenne così un avamposto a protezione e controllo dei
passaggi minori verso la Moriana.
Il 10 luglio 1484 Pierre de l’Eglise, detto
Forme, vice-intendente per le fortificazioni del Delfinato, «... adcessit ad castrum delphinale loci, dictum Bramafam, pro
eundem castrum visitandum». Era accompagnato dal magistrato
Antoine Monachi, segretario della Corte dei Conti del Delfinato, da Gabriel de
Bardonnèche, daMichel, Jean e George Roude, carpentieri delMelezet, e dal
notaio Blanchard che redasse il processo verbale conservato negli Archivi
dipartimentali dell’Isère. Dovevano rendersi conto dello stato dei lavori,
eseguiti dagli Roude, ordinati il 12 ottobre 1481 da Anthoine Richard a quel
tempo incaricato delle opere del Delfinato, per un importo di 76 fiorini e 4
grossi. Dalla relazione si deduce trattarsi soprattutto di rifacimento dei
tetti. Il sopralluogo dette buon esito. Si approvarono i lavori compiuti e si
ordinò ai carpentieri di finire ogni cosa fissando la conclusione dei lavori,
pena una multa di 100 marchi d’argento, per la festa di San Giovanni Battista dell’anno
seguente.
Durante le guerre di religione, nel pieno
Cinquecento, i castelli di Bardonecchia finirono per costituire posti avanzati
di difficile ed oneroso presidio, col rischio di essere conquistati dalle
fazioni ugonotte. Mentre è noto il fatto d’arme riguardante la “tur d’Amun”, non
si conoscono simili episodi che abbiano coinvolto il castello di Bramafam.
Tuttavia l’aumento delle potenzialità delle artiglierie ne ridusse
sensibilmente l’importanza rendendolo inadeguato alle esigenze delle nuove
strategie militari tanto che, per evitarne la conquista da parte delle forze
avverse, Carlo IX con regio decreto del 1574 ne ordinò la demolizione eseguita
dal Mures, luogotenente di Monestier, ed i ruderi diventarono cava per
materiali.
Guido Ambrois
BARDONECCHIA SULL’ONDA DEI RICORDI
Certamente tante persone come me, non più giovani,
ricordano una Bardonecchia diversa da quella di oggi sia perché precedente alle
innumerevoli nuove costruzioni sia per mentalità ed usanze. Negli anni del
dopoguerra la villeggiatura, a differenza di oggi, durava parecchi mesi e,
poiché le macchine erano poche, i villeggianti giungevano in treno, favoriti
dalla fermata obbligatoria di tutti i treni, anche i rapidi, per il controllo
doganale.
La mamma di una mia amica mi raccontava che era
arrivata a Bardonecchia dalla Sicilia non per le vacanze ma perché il marito
era stato mandato come Direttore della Dogana a Modane e lei, giovane sposa,
l’aveva seguito. Lasciata la sua isola solatia, senza conoscere il francese, si
era ritrovata sola fra le montagne in una località spesso innevata e fredda.
Preferì, quindi, trasferirsi dalla Francia a Bardonecchia da cui ogni mattina
il marito si recava a Modane.
Tanti erano gli impiegati alla Dogana e così
tanti i ferrovieri per i quali c’era la “Casa dei ferrovieri”. Alla Stazione
era presente una figura ormai scomparsa: il facchino, che indossava pantaloni,
casacca e berretto neri. Data la lunga durata della villeggiatura, il bagaglio era
considerevole e spesso il necessario era spedito in un baule che il facchino portava
a destinazione.
Il portabagagli di Bardonecchia vive in uno dei
“Racconti del Maresciallo”, pubblicato nel 1967 e presentati in televisione,
scritti da Mario Soldati, che soggiornò spesso nella nostra bella conca. Il
racconto intitolato “Un sospetto” lascia il caso insoluto. Anche se i personaggi
sono inventati, l’ambiente appare reale con la stazione, i binari dello scalo merci,
la Cantina d’Asti (una vecchia bottiglieria attigua al caseggiato dei
ferrovieri) dove
si giocava a scopone e tressette o al bigliardo e
si centellinava un po’ di vino. Il maresciallo del racconto si era recato a
Bardonecchia (che è indicata solo con la B. ma non ci sono dubbi che si tratti
della nostra Bardonecchia) per rimpiazzare durante le feste natalizie il
collega in licenza. Per così pochi giorni non ebbe il tempo di risolvere il
caso. Racconta:
«B., come sai, è un vecchio e grande paese che è
diventato un centro di prim’ordine per gli sport invernali, ed è anche un paese
di frontiera. Chi ci ha più da fare, là, specialmente nella buona stagione, è
la Finanza. Avevo cenato in caserma col brigadiere, ed ero uscito a fare
quattro passi. Conoscevo benissimo B.,ma erano passati molti anni dall’ultima
volta che c’ero stato. Insieme al brigadiere, feci un giretto a vedere le nuove
costruzioni. Tra le pinete, in mezzo alle “giaire” dei torrenti, sono venuti
su, come funghi, veri e propri grattacieli!
Era la settimana prima di Natale ed era, se ben
ricordo, un sabato sera. Sciatori e villeggianti invernali andavano su e giù
per la lunga strada diritta tra Borgovecchio e Borgonuovo, passeggiando e
chiacchierando e pareva Via Roma».
E ricordo pure che la neve durava quattro o
cinque mesi ogni anno. In quei tempi sovente si trascorreva il dopocena in
chiacchiere con i vicini e in alcuni periodi, noi che abitavamo in Borgonuovo, uscivamo
per recarci alla Cappella di Maria Ausiliatrice, la “Chiesetta” di Via
Montenero, per partecipare alla Benedizione. Erano numerosi i fedeli e i
ragazzini si recavano per tempo per potersi accaparrare alcuni incarichi
considerati di prestigio nel servizio all’altare. Tra gli altri ricordo Luigi
De Nicola, chiamato comunemente Gigi, divenuto farmacista come il padre, che
morì prematuramente per una grave
malattia. La fede, semplice e sicura, era ben
radicata, prima degli anni in cui si mise tutto in discussione, creando
disorientamento e il “vuoto” in cui purtroppo viviamo oggi: i valori del
passato, criticati ed annullati, non sono stati sostituiti con nuove certezze.
Anche l’aspetto di Via Montenero era diverso
poiché le costruzioni erano graziose ville immerse in ampi parchi. Gli eredi le
trasformarono negli edifici di oggi, più grandi e privi di quell’aura romantica
che aleggiava nel passato. Non esistevano le strade che fiancheggiano il
torrente, né quella pedonale che va dal ponte della Stazione alla Piazza del Municipio
né quella per le macchine sull’altra sponda, dalla rotonda davanti alla caserma
della Polizia, fino al ponte più in alto a Borgovecchio. Il torrente è stato
arginato e il ponte presso la chiesetta è stato rifatto dopo che era stato
distrutto dalla forza dell’acqua durante un periodo di piogge intense.
Nel libro “Ultime conversazioni” dedicato al
grande Papa emerito Benedetto XVI, il Pontefice elogia il padre carmelitano
Swoboda, viennese. Il nome mi ricorda la signora Sofia Swoboda che, pure di
Vienna, portata in Italia dalla guerra, aveva sposato il Maggiore Attillo
Pegoraro, che aveva salvato a rischio della propria vita. Profondamente
religioso, il Maggiore fu Presidente degli uomini di Azione Cattolica e Priore
di Sant’Ippolito.
Come la signora Swoboda anche unmedico austriaco
fu portato dalla guerra nella nostra Valle. È il dott. Kreiner, che,
sopravvissuto alla terribile campagna di Russia, fu mandato a Oulx presso
l’ospedale divisionale. Poiché egli curava tutti, anche civili e sacerdoti, fu
allontanato dal Comando tedesco. Dopo la guerra si stabilì a Oulx con la sposa
Nilde. Fu stimato e apprezzato da tutta la Valle.
A Bardonecchia ricordo anche altre figure del
passato: il calzolaio Brogio che vendeva il latte, Luigina che portava i
telegrammi, l’accalappiacani che durò poco, il Cav. Meduri e Suor Anselmina.
Il calzolaio Riccardo, prima di trasferirsi al di
là del passaggio a livello, abitò nel cortile della casa di Via Medail presso
Via Montenero. Era gentile e ben utile, in quanto le scarpe si facevano
riparare e in quelle di noi bambini metteva dei ferretti sulle punte e sui tacchi,
nei punti di maggior consumo. In giardino avevamo un grande melo centenario e Riccardo,
agilmente, usando una lunga scala, ci aiutava a raccogliere le “ranette” così
gustose che ame piacevano soprattutto quando diventavano “rupie”, cioè
grinzose, in quanto avevano una dolcezza particolare, non dolciastre.
La nonna mi raccontava che un tempo c’era anche
una grossa vite che fruttificava. Non era l’unica poiché leggo in “Bardonecchia
e il suo Pé du Plan” di Augusta Gleise Bellet che in un «piccolo giardino
adiacente ad una trattoria non lontana dall’imbocco del Traforo ferroviario del
Frejus, cresceva una vite di uva bianca dolcissima».
Brogio aveva una stalla al Borgovecchio, dove,
prima di stabilirsi in Via Medail al Borgonuovo, due sorelle avevano aperto il
ristorante “Etable”, nome che significa “stalla”. Brogio mi appare come un
personaggio scolpito nel legno: era vestito di velluto marrone, di corporatura
asciutta, con il naso lungo un po’ rubizzo. Andavo da lui per comprare il latte
quando non esistevano le confezioni attuali.
La donna che portava i telegrammi era Luigina,
piuttosto piccola e robusta, sgraziata nei modi ed esplicava il suo incarico
con grande solerzia e precisione.
Il Cav. Francesco Meduri, quando era aiutante di
battaglia, nel 1941, era stato decorato dal Principe Umberto di Savoia, come
appare in una foto del libro “Il vallo Alpino nella conca di Bardonecchia” di
P.G. Corino. Era chiamato “il marescial d’la côa” (della coda) poiché in alcune
occasioni portava l’elmo ornato da una coda di cavallo. Nell’opera citata “Bardonecchia
e il suo Pé du Plan” il Cavaliere è ricordato come abitudinario del dehor
dell’Albergo Sommeiller in Piazza Statuto, dove si incontrava con il
Commissario dott. Messina, per disputare diatribe accese in quanto di idee
politiche opposte, monarchico l’uno e repubblicano l’altro. Io invece, in anni
meno lontani, lo ricordo da solo seduto al dehor dell’Albergo Tabor, nella via
della Stazione.
E rammento Suor Anselmina, la Suora francescana
che faceva tanti passi per recarsi a fare le iniezioni. Era anche venuta dalla mia
mamma che, mentre l’aspettava, faceva bollire la siringa, poiché non esistevano
le attuali monouso. Avevamo un cagnolino. Alla suora piaceva stuzzicarlo, ma
era un divertimento che lui non gradiva, tanto che abbaiava animatamente ogni
volta che la vedeva, anche da lontano.
Il cane, un bastardino vivace, simpatico ed
ubbidiente, ci era stato dato dalla signora Bassi che abitava presso il
“Laghetto”, dove, al posto dell’attuale, esisteva una costruzione in legno
dotata di bar con calciobalilla e dove d’estate affittavano le barche,
veramente dei barconi così pesanti che, pur remando in due con un remo
ciascuno, ci venivano le vesciche alle mani. D’inverno il laghetto si
trasformava in una splendida pista per pattinare. Il pattinaggio mi piaceva
tantissimo e lo preferivo allo sci.
In quegli anni nevicava più di oggi. C’era una
pista per lo sci da fondo che si snodava da Oulx a Beaulard, al Bramafam, tra
radure e pinete, lungo l’antico tracciato della strada che passava sul versante
opposto dell’attuale, toccando le Cappelle del Coignet, dell’Ausiliatrice e di
San Sisto al Pian del Colle. È superfluo descrivere il fascino, la bellezza e
la ricchezza spirituale della montagna.
Mi piace ricordare l’amore di Papa Giovanni Paolo
II e desidero anche accennare l’amore per il Creato da parte di Papa Benedetto
XVI. Ho letto che il Papa emerito, secondo il suo segretario, è una persona
straordinaria, di elevatissima cultura, un gigante di profondità e di
sensibilità rara e ama la Natura. Passeggiando nei giardini vaticani, recitando
il Rosario, aveva notato un merlo bianco, lo fece fotografare e le foto furono
pubblicate su “L’Osservatore Romano”. Secondo Papa Ratzinger il rispetto per
l’uomo ha come logica conseguenza anche il rispetto per la natura.
Un’attenzione al Creato condivisa anche dal Papa attuale nell’Enciclica Laudato si’.
A proposito del merlo bianco ho letto che è una
rarissima eccezione anche se qualche caso di albinismo si trova. Nel mio
giardino di Susa vive un merlo che ho chiamato “Juve” poiché è bianco e nero.
Anche i passeri, sebbene più timorosi deimerli,
ci rallegrano. Ricordo gli uccellini che in gran numero si radunavano sul
balcone in cui la signorina Laura Bizzarri metteva il becchime. Per i
bardonecchiesi Laura non ha bisogno di presentazione, sappiamo che amava e
conosceva la natura: i monti, gli animali, i fiori, i minerali. Gli uccellini
le procuravano gioia, forse perché, come scrive il Leopardi, sono essi lieti,
come dimostrano con il loro canto e la loro vivacità.
Non ci rimane che ringraziare il Signore per il
dono inestimabile del Creato e di tanta Bellezza.
Giulia Tonini
LA STRADINA DELLE ROSE
La prima volta me ne avevano parlato con paura e
pena. Di lassù, parecchi anni prima, lungo quel grande tubo aperto in cui
l’acqua scorre fino al torrente in basso, era caduta una bambina per recuperare
la bambola sfuggitale dalle braccia. La madre le si era gettata dietro a sua
volta per salvarla: così l’acqua aveva trascinato giù tutte e due al torrente, così
che erano morte entrambe battendo la testa sulle pietre.
Sulla strada piana che si appoggiava alla
montagna erano nate tante piante di rose.
Così mi raccontava la zia Melania che aveva fatto
per tanti anni la maestra di sci, consigliandomi di portare a spasso su quel
viottolo la mia bambina che era piccola piccola e incominciava a fare i primi
tentativi per camminare. Sempre la stessa zia Melania (aveva sposato uno zio di
mio marito, professore all’Università) mi aveva suggerito di passare il mese di
agosto alla Genzianella, in Borgo Vecchio, che è la parte più antica e più
bella, a mio avviso, della cittadina, quella dove si erano stanziati i primi
abitanti, sotto la protezione della montagna, e perciò usufruiva di maggior
sicurezza.
Io avevo seguito questi consigli. Dopo essermi
sistemata nella pensione (che non è cambiata di molto), un giorno col
passeggino avevo attraversato il fiume e avevo iniziato a percorrere la
stradina prima della quale non esistevano le costruzioni attuali, e che in quei
mesi caldi era particolarmente asciutta. I noccioli incominciavano ad elevarsi
a destra e a sinistra, anche se erano più bassi di oggi. All’inizio della via
non esistevano ancora le costruzioni di oggi, ma solo qualche pianta fiorita.
Si attraversava un ruscelletto – non
ancora il tremendo corso d’acqua di cui mi
avevano parlato – e non si incontrava quasi nessuno. Gli alberi, benché più
bassi di oggi, ombreggiavano bene. Su un alto nocciolo, anni dopo, mia figlia,
ormai cresciuta, avrebbe contribuito a costruire una bella casetta, dove
cominciavano i rami: una casetta con porta e finestrina, in cui lei e i suoi
amici si sarebbero divertiti a lungo.
Allora mi era parso il luogo ideale in cui
cominciare a farla camminare. La tenevo saldamente con una sorta di briglia che
poi mi avrebbe rimproverato, quando avevo sbadatamente incominciato a
parlargliene. Incominciò ad appoggiarsi al passeggino, provando a mettere un
piede dopo l’altro, e pian piano mi pareva si facesse più sicura. Quando si
fermava le facevo annusare un petalo di quelle rose che avevano dato il nome al
viottolo, facendo attenzione perché non lo mangiasse.
Non c’erano certo panchine, allora. Quando si
raggiungeva qualche masso, si considerava comodo sedercisi sopra, mentre la
bambina si riposava nel passeggino. Sugli alberi maturavano le nocciole. Sulla
stradina, solo le piccole rose.
Con gli anni sarebbe passata attraverso varie
fasi, come quella di percorso ginnico atletico: avrebbero piantato numerosi
attrezzi da palestra. La gente provava ad esercitarsi sulle parallele, sugli
assi di equilibrio, su delle specie di spalliere. Vociavano, si incoraggiavano
fra loro.
Ma in quei giorni lontani regnava solo un dolce
silenzio, in mezzo ai profumi dei fiori.
Neppure si potevano immaginare le statue lignee
che sarebbero state scolpite in vari concorsi annuali e che adesso accompagnano il percorso. Si possono
leggere quasi tutte le targhe con nomi e date applicati alle opere. Ma io
ricordo solamente che proprio là, in mezzo ai fiori, mia figlia ha
pacificamente imparato a camminare.
Elena Cappellano