20/10/20

Angolo della cultura - 2019



Il pellegrinaggio a Roma (3 parte)

 Il pellegrinaggio a Roma dal VI al XIII secolo.

 La Chiesa di Roma, fin dal suo sorgere, aveva affermato la sua primazia su tutte le altre Chiese, per il fatto di essere l’erede della potestà che Cristo aveva conferito a s. Pietro: nel periodo in cui la parte occidentale dell’impero romano stava inesorabilmente decadendo, la Sede romana aumentava la sua influenza sulla Cristianità, fino a proporsi come scrigno della spiritualità universale, una seconda Gerusalemme. L’immenso patrimonio costituito dai corpi di s. Pietro e di s. Paolo, di cui era dotata, fu ulteriormente arricchito per volere dei papi, che fecero raccogliere il maggior numero possibile di reliquie apostoliche.

 Roma, lontana da Costantinopoli e dall’influenza della sua corte, sul finire del secolo VIII, al termine delle lotte iconoclastiche, ottenne l’affrancamento politico da Bisanzio. In quel periodo, i pontefici diedero a Roma la possibilità di aumentare la sua influenza sulle regioni settentrionali d’Europa, favorendo l’insediamento di numerose scholae peregrinorum, cioè sedi religiose nazionali, dei Sassoni, Franchi, Alemanni, Longobardi e di altri ancora, che scelsero per i loro ospizi, i luoghi il più possibile vicini alla basilica vaticana, divenuta la meta principale dei pellegrini che accorrevano dai luoghi più lontani, per venerare la reliquia più preziosa, la tomba dell’apostolo Pietro.

Il pellegrinaggio a Roma, allora, non era legato ad una indulgenza maggiore di quella di altri luoghi, come avverrà in seguito all’indizione del Giubileo del 1300, ma rappresentava una visita che i fedeli compivano spontaneamente, come atto di fede.

 Soprattutto ad opera dei papi del VI secolo, si ebbe una stabilizzazione del culto dei martiri per i quali si sviluppò una liturgia specifica; il possesso di reliquie, che allora era ritenuto di così fondamentale importanza che il furto ne veniva giustificato come un atto religioso, fu scoraggiato. Papa Gregorio Magno (a.590-604) infatti, stabilì che un oggetto, venuto a contatto con una reliquia, ne assumesse il valore 1).

 La nuova liturgia ed il disciplinato culto delle reliquie, resero necessarie delle modifiche delle aree absidali delle chiese urbane, in cui erano state traslati i corpi dei martiri; a s. Pietro, fu abbassato il livello di calpestio del presbiterio e rialzata la zona che attorniava l’altare costantiniano, formando così un ambiente sotterraneo, di forma semicircolare 2). Con la costruzione di un muro interno, parallelo a quello perimetrale dell’abside, si ebbe un corridoio semianulare, che al centro aveva un vano, detto della “confessio” 3); qui fu eretto un altare, formato da un blocco di muratura, dotato all’interno, di un pozzetto per le reliquie, la cui la lastra di chiusura anteriore, presentava un’apertura, la fenestella confessionis.

1)      Reliquiae ex conctactu.

2)      Il livello di calpestio della parte absidale, fu abbassato di circa un metro, mentre la parte presbiteriale, fu rialzata di cm 145.

3)      Confessio fu chiamata la zona che racchiudeva i corpi dei martiri, che erano anche detti “confessori”, perché avevano affermato (confessato), la Resurrezione di Cristo, fondamento della religione cristiana.

 

 I pellegrini entravano dalla navata di sinistra e, percorsa la metà del corridoio, si trovavano vicini alla confessio; qui, venerate le spoglie di s. Pietro, potevano introdurre nella fenestella, un pezzetto di stoffa 4), una chiave o un oggetto che, ex conctactu, diveniva esso stesso una reliquia; percorrendo poi, l’altra metà del corridoio, uscivano nella navata di destra. In questo modo veniva disciplinato il flusso dei fedeli e garantita una maggiore sicurezza per la conservazione della memoria petrina, esposta al fervore spesso eccessivo, dei fedeli.

Con i lavori di rialzamento dell’area absidale, il blocco marmoreo, fatto costruire da Costantino, per contenere la tomba di S. Pietro, venne infine a trovarsi per tre quinti della sua altezza, al di sotto del pavimento del nuovo presbiterio 5). La parte che emergeva, di un metro circa, fu utilizzata da papa Gregorio Magno, come altare permanente, ut super corpus beati Petri missae celebrarentur”. In seguito, su di esso venne eretto un ciborio d’argento; le colonne tortili, che formavano la pergula, furono disposte sul davanti, in un’unica fila e collegate tra loro, alla sommità, da un epistilio e alla base, da amboni marmorei ; in questo modo, si creò una reale separazione tra gli officianti e l’assemblea v. fig.1.

Queste modifiche, attuate nel presbiterio della basilica di s. Pietro, furono poi prese a modello nelle altre chiese di Roma, in cui erano state traslate le reliquie dei martiri.


4) I cosiddetti brandea.


Fig. 1: La confessione e il presbiterio della basilica vaticana nella sistemazione effettuata tra la fine del secolo VI e l’inizio del secolo VI (da “Esplorazioni” 1951).

5)L’altare costantiniano, alto in origine, circa cm 275, dopo questi lavori, si trovò ad emergere, nel presbiterio, per circa un metro, altezza ideale, per un altare; anteriormente, nel presbiterio, vi era un tavolo, una mensa, che non aveva un posto fisso, ma lo cambiava a seconda della liturgia del momento.

Dal secolo VII, divenne una consuetudine, che i vescovi metropolitani, appena nominati, venissero a Roma, per la visita ad limina apostolorum, durante la quale veneravano le reliquie degli Apostoli, rendevano omaggio al papa e celebravano la Messa sull’altare che racchiudeva le spoglie di s. Pietro. Ricevevano, come simbolo della concordia con il pontefice e della loro autorità, il pallium 6), una stola di lana bianca, con delle crocette nere, eguale a quella indossata ancora oggi dal papa, durante i pontificali, v. fig. 2.

6) I palli sono tessuti con la lana delle pecore, allevate dalle monache del monastero di santa Agnese; la sera precedente alla loro imposizione, vengono posti nella nicchia, v. Fig. 3; per la vicinanza alle reliquie di S. Pietro, cui vengono a trovarsi, diventano “ex conctu”, reliquie dell’Apostolo. 

Fig. 2:Papa Gregorio Magno che indossa il pallium.

 








Fig.3: Parte inferiore dell’altare papale. I palli, la sera precedente alla loro imposizione, vengono posti nella cassetta che si vede inferiormente all’immagine del Cristo benedicente; rimanendo a contatto con le spoglie di san Pietro, ex conctactu, ne assumono il valore.

Nell’anno 990, Sigerico, neoeletto arcivescovo di Canterbury, si recò a Roma per ricevere il pallium e la benedizione papale. Dopo essere stato ricevuto dal papa Giovanni XV e aver visitato le principali basiliche e i luoghi sacri, fece ritorno in patria, annotando, come in un diario di viaggio, le 79 tappe percorse da Roma a Calais. Questo “Itinerario”, che ci è giunto in un manoscritto di epoca successiva 7), è una fonte preziosa, dalla quale sappiamo che, sul finire del X secolo, la via più frequentata, per raggiungere Roma, dal Nord della Francia, passava per l’Artois , la Champagne, il Giura, l’alta valle del Rodano; superava le Alpi al valico del Gran San Bernardo e seguiva il corso della Dora Baltea; poi da Vercelli si dirigeva a Piacenza, dove attraversava il Po. Superati gli Appennini al Passo della Cisa (il monte Bardone), passava per la Lunigiana, la Toscana, il Viterbese e terminava a Roma. Era la cosiddetta “via Francigena”, ben definita nel suo percorso di base, cui facevano capo una serie di punti nodali, quali strutture ricettive, valichi montani, attraversamenti di corsi d’acqua.

 7) La copia si conserva presso il British Museum di Londra.

 Verso il 1124, l’abate islandese Nikulas di Munkathvera, partì dalla sua isola, per compiere il pellegrinaggio a Roma e a Gerusalemme; lasciò un resoconto del suo viaggio 8), in cui descrisse accuratamente le strade percorse e quelle alternative, indicando i tempi di percorrenza di ogni singola tappa; inoltre fornì una serie di dati e notizie sui luoghi visitati, la presenza di ospizi, di chiese e di sedi episcopali. Lasciato il suo monastero di Thingor, in Islanda, dopo sette giorni di navigazione, giunse in Norvegia, poi percorse la Danimarca; seguendo la valle del fiume Reno, si inoltrò nella Germania, e, oltrepassato il Giura, arrivò a Ginevra; di qui, superato il passo del Gran San Bernardo, giunse ad Aosta. Da questa città, riprese il suo itinerario, seguendo il percorso della via Francigena, secondo il tracciato descritto dall’arcivescovo Sigerico, centosessant’anni prima. Lungo il suo viaggio, a Fiorenzuola, sostò presso l’ospizio fondato sul finire del sec. X, dal re di Danimarca, Enrico il Buono 9); attraversando la Tuscia, si fermò ad Altopascio, presso l’Ospizio di S. Jacopo, che chiama “Matilldar spitali” 10). Proseguendo, vide Roma dalla collina chiamata “Mons Gaudii”, la “collina della gioia”, perché di qui i pellegrini godevano nel vedere la città nella bellezza dei suoi monumenti, gioivano perché avevano portato a termine il viaggio e adempiuto al voto 11).L’abate islandese trascorse qualche giorno a Roma, ammirando i monumenti antichi, che nominò, con qualche inesattezza: per esempio, le Terme di Caracalla, sono dette il “Palazzo di Diocleziano”; si recò  nelle varie chiese ed enumerò le reliquie che vi si conservavano; descrisse con particolare cura la basilica di s. Pietro, visitando la quale, precisò, si otteneva l’indulgenza plenaria. Terminato il suo soggiorno romano, percorrendo l’Appia, si diresse verso la Puglia, per poi imbarcarsi alla volta della Palestina.

8) Questa memoria, scritta in norvegese antico, di difficile lettura, costituisce una delle fonti più ricche di notizie, per gli studiosi delle vie di pellegrinaggio.

9) Questo re, verso la fine del sec. XI, aveva fondato a Fiorenzuola d’Arda, un ospizio che accoglieva esclusivamente i pellegrini che provenivano dall’Europa settentrionale.

10) Questo ospizio si trova in Toscana, nelle terre di cui fu feudataria la contessa Matilde di Canossa (1046-1115).

11) Cfr. Dante: La Divina Commedia, Paradiso, canto XXXI, vv. 31-36: [...]Se i barbari venendo di tal plaga/…/veggendo Roma e l’ardua sua opra,/stupefaciensi, quando Laterano/a le cose mortali andò di sopra […] I pellegrini che giungevano a Roma, dalle regioni settentrionali, giunti alla collina detta Mons Gaudii, rimanevano stupefatti nell’ammirare i monumenti, simboli della grandezza dell’impero Romano, ma nello stesso tempo, si compiacevano nel considerare la vittoria e l’universalità del Cristianesimo (Laterano) di cui Roma era il simbolo.

I resoconti dei viaggi verso Roma, dell’arcivescovo Sigerico e dell’abate Nikulas da Munkathvera, furono di grande aiuto a coloro che provenendo dal Settentrione, si dirigevano a Roma.

 Dalla fine del XII secolo, molti pellegrini che provenivano dalla Francia, preferirono i valichi a sud del Gran San Bernardo e in particolare il Moncenisio, che si raggiungeva risalendo la val Moriana; poi scendevano, attraverso la valle di Susa, e, arrivati a Torino, proseguivano per Piacenza; anche il passo del Monginevro era praticato: di qui iniziava la via Domizia, che si dirigeva verso il sud della Francia.

La città di Roma, attraeva sempre molti pellegrini, sia per il grande patrimonio di reliquie, sia per il ricordo del suo passato glorioso. Per orientare i visitatori, dalla metà del XII secolo, furono redatti dei testi, chiamati “Mirabilia Urbis Romae”, che sono l’equivalente delle moderne guide di viaggio. Furono diffusi in numerose copie in latino ma anche tradotti nelle lingue nazionali dei pellegrini che provenivano dalle varie parti d’Europa. Vi si descrivono sia le chiese, in cui erano presenti le reliquie della Passione di Cristo e dei martiri, che le rovine del periodo imperiale 12). Contengono elementi fantasiosi e molte inesattezze: erroneamente vi si dice, per esempio, che la statua dell’imperatore Marco Aurelio è quella di Costantino 13).

Nel Duecento, con la fioritura della vita economica e sociale dell’Europa, ripresero gli scambi commerciali a grande distanza, determinando un notevole scambio di uomini e di merci. Accanto ai passi delle Alpi Occidentali, vanno ricordati i passi del San Gottardo e del Brennero, utilizzati sia dai mercanti che dai pellegrini, che provenivano dalle città anseatiche e dai paesi scandinavi.

12) La compilazione dei Mirabilia, continuò fino al secolo XV; dal XVI secolo ne iniziò la stampa; furono gli incunabuli più antichi stampati dai tipografi tedeschi.

13) Nel periodo in cui, per la scarsezza dei metalli, si fondevano le statue in bronzo, questa erronea attribuzione, salvò quella statua equestre dalla fusione.

Anche per il superamento degli Appennini, verso Roma, oltre alla via di Monte Bardone, si evidenziarono altri passi che permettevano poi, di utilizzare parti del tracciato della via Flaminia; Bologna e Firenze furono direttamente collegate mediante il percorso che utilizzava il passo dell’Osteria Bruciata 14), abbreviando notevolmente il percorso per Roma. 

I pellegrini che provenivano dalla Sicilia e dalle regioni meridionali, utilizzavano itinerari diversi che poi confluivano nella via Appia, di cui alcuni tratti, erano ancora in buono stato 15).

14) La più antica notizia dell’uso del passo dell’Osteria Bruciata, si trova negli appunti di viaggio del patriarca di Aquileia, Wolfger, che lo utilizzò più volte, per recarsi a Roma, negli anni a cavallo tra il XII e il XIII secolo.

Dall’XI secolo, si hanno notizie sicure della presenza a Roma, della reliquia del Santissimo Sudario, comunemente detta della “Veronica”: il drappo nel quale, si riteneva che, durante la Passione, si fossero impressi i tratti del volto di Cristo v. Fig.4. Era collocata in un ciborio, posto nell’estrema navata di sinistra, vicino all’oratorio del papa Giovanni VII. Papa Innocenzo III (a. 1198-1216), che ne era particolarmente devoto stabilì che chiunque vi pregasse dinnanzi, ottenesse un’indulgenza; inoltre nel 1208, istituì, nella domenica dopo l’ottava dell’Epifania, la processione, con la quale, il drappo, dalla basilica vaticana, veniva portata in processione, al vicino ospedale di Santa Maria in Sassia. Da allora, questa reliquia, esposta in s. Pietro, in determinate festività e il Venerdì Santo, attrasse sempre di più i devoti, tanto che ebbe inizio la pratica di riprodurla in “quadrangulae”, pezzetti di tela che i pellegrini appuntavano sul loro cappello, come simbolo del viaggio compiuto, v. fig. 5). Dal Duecento, divenne la più venerata tra le reliquie romane, e la sua ostensione, faceva accorrere moltissimi fedeli, che provavano una grande commozione nel vederla15).

fig.4
Fig. 4: L’Ostensione della “Veronica” ai fedeli, da “Mirabilia Urbis Romae, xilografia riportata in Mirabilia urbis Romae, a.1475, circa.

15) Cfr. F. Petrarca, “Canzoniere”, 16, vv. 9-11:[…] et viene a Roma, seguendo’l desio/ per ammirar la sembianza di colui/ ch’ancor lassù nel ciel vedere spera […].

 Nella seconda metà del XIII secolo, lo sviluppo della dottrina dell’onnipotenza del papa, in materia di indulgenze, fece apparire Roma, già indubbiamente favorita dalla sua storia, dalla presenza di importanti monumenti del suo passato, dalla sua posizione geografica, ma soprattutto per essere dotata di un grandissimo patrimonio di reliquie, come depositaria di una fonte inesauribile della grazia del perdono; per questi motivi, attraeva un numero sempre maggiore di pellegrini. La basilica vaticana, grazie alle sue indulgenze, divenne la meta più agognata, ancora di più, da quando i pontefici del XIII secolo, dichiararono la sua superiorità, su tutte le altre chiese; ma già nel secolo VIII, papa Adriano, aveva dichiarato Roma “città santa”, il che comportò, nel volgere dei secoli successivi, ad identificarla con la Chiesa stessa. 

fig.5

Fig. 5: Pellegrini che portano appuntato sul cappello il simbolo della Veronica; particolare del Trionfo della Chiesa militante, (a. 1366-67), affresco di Andrea di Bonaiuto, Cappellone degli Spagnoli, Chiesa di Santa Maria Novella, Firenze. 

Verso la fine del Duecento, si assistette all’intensificarsi l’affluenza dei romei, che raggiunse dimensioni eccezionali, in occasione del passaggio dal XIII al XIV secolo, quando si sparse la voce che, recandosi in pellegrinaggio nella basilica di s. Pietro. si sarebbe potuta ottenere una “pienissima remissione dei peccati”, cioè la stessa indulgenza che si otteneva partecipando ad una crociata.

Nella basilica di s. Pietro, il 1° gennaio 1300, Ottava del Natale e Circoncisione del Signore, il predicatore, nel sermone della celebrazione del mattino, parlò de centesimo seu iubileo , usando un’espressione che fu immediatamente collegata al Giubileo ebraico e quindi interpretata come un anno di remissione totale.

I fedeli presenti, ritennero che, visitando la basilica vaticana, si sarebbe potuto ottenere l’indulgenza totale. Questo rumor si diffuse rapidamente, tanto da far pensare ad una certezza. Il miraggio della straordinaria indulgenza, superiore a qualsiasi altra, fino allora concessa dai papi alla basilica 16), si diffuse in tempi incredibilmente brevi e originò un eccezionale e sempre crescente movimento di pellegrini, che si aggiungevano a quelli già in cammino, per raggiungere Roma. Il 17 gennaio, giorno dell’ostensione della Veronica, il pontefice non smentì quel rumor, né arrestò, come avrebbe dovuto, quell’ immenso afflusso, di fedeli, avidi di ottenere l’indulgenza; egli assunse invece, un atteggiamento di attesa e di disponibilità, confermato dalla sua partecipazione alla processione con l’ostensione della Veronica, che, agli occhi dei fedeli, apparve come una tacita approvazione dell’indulgenza del centenario. Il 22 febbraio dell’anno 1300, papa Bonifacio VIII, con la bolla Antiquorum habet fida relatio, indisse il primo Giubileo della Cristianità; questo non fu un atto affrettato, compiuto sotto la spinta delle folle smisurate, ma ponderato e concesso, dopo essere stato presentato in concistoro, in cui fu discusso dai cardinali 17). I fedeli, per ottenere la totale assoluzione, dopo essersi confessati e comunicati, dovevano recarsi a pregare, per trenta giorni consecutivi, se abitanti di Roma e per quindici giorni, se forestieri, nelle basiliche di San Pietro e di San Paolo fuori le Mura, nella cattedrale di San Giovanni in Laterano e offrire un obolo 18). 

Fig. 6; Bonifacio VIII (si noti il diadema a doppia fascia), affiancato da un cardinale e da un chierico, indice il Giubileo del 1300 e benedice la folla dall’alto della Loggia Lateranense. (Affresco frammentario attribuito alla scuola di Giotto; attualmente si trova in un’edicola addossata ad un pilastro della basilica di s. Giovanni in Laterano).

 16) Superiore a qualunque altra fino ad allora concessa dai papi alla basilica, che a quei tempi, non superava i sette anni.

17) Il Concistoro ”De fratrum nostrorum consilio”. L’inizio dell’anno giubilare, fu retrodatato al 24 dicembre del 1299 e si stabilì che sarebbe stato poi indetto, ogni cento anni.

18) La totale remissione, poteva essere applicata ai defunti. Dante, nella seconda Cantica, incontra l’amico Casella (cfr. Canto II, vv 93-99), morto nel dicembre precedente e si stupisce che non sia ancora entrato in Purgatorio; ma questi gli spiega che c’è stato un grande afflusso di anime, a causa dalla remissione dei peccati, lucrata con il Giubileo.

 La promessa dell’assoluzione plenaria, ebbe un effetto smisurato, che superò ogni aspettativa; Roma, da più secoli quasi spopolata, con il popolino misero e straccione, aveva un aspetto squallido; molti dei monumenti antichi, non più restaurati, erano in rovina; si presentava irta di torri e di castelli, roccaforti da cui le famiglie nobili si facevano la guerra; pochissime erano le locande, prive di bagni e di ogni comodità. La città venne invasa da una tale moltitudine di persone, da sembrare un esercito e per un anno intero, brulicò di pellegrini. Si dice che, ogni giorno ne fossero presenti trentamila: gente dai costumi e dalle lingue differenti, formava interminabili processioni, così fitte e incalzanti che, se qualcuno cadeva, veniva inesorabilmente calpestato dagli altri che seguivano. Secondo le stime dell’epoca, per il Giubileo, giunsero in trecentomila, provenienti da ogni parte del mondo allora conosciuto. I pellegrini, percorrendo le vie della città, si stupivano nel vedere così tante chiese e le grandi ricchezze che contenevano.

 I cronisti dell’epoca, e in particolare Giovanni Villani 19), che fu a Roma nell’anno giubilare, ci diedero la testimonianza diretta dell’importanza che, per i contemporanei, ebbe il grande avvenimento religioso del 1300.

L’amministrazione pubblica provvide in modo esemplare a mantenere l’ordine, all’approvvigionamento dei viveri e a calmierare i prezzi; non si verificarono pestilenze e tutto procedette con ordine. Si stabilì la circolazione a destra; sul ponte tra s. Pietro e Castel Sant’Angelo, fu posta una transenna, che separava il flusso dei pellegrini che andavano alla Basilica, da quelli che ne ritornavano, lo stesso modo in cui, come Dante dice, nel Canto XVIII dell’Inferno, si muovono i dannati della prima bolgia dell’VIII girone 20).

 Vi fu un notevole apporto di denaro, di cui beneficiarono soprattutto le finanze papali; infatti, i pellegrini, dopo aver pregato presso le tombe di San Pietro e di San Paolo, lasciavano cadere un obolo, che due diaconi, raccoglievano con la pala.

Il primato e il prestigio del papa furono rafforzati; Bonifacio VIII si mostrava con un diadema composto da due corone sovrapposte, simbolo del potere del papa, superiore a quello degli altri sovrani. Però nessuno dei regnanti europei venne a Roma a lucrare il Giubileo e a rendergli omaggio; questo gli dispiacque molto.

Molti si domandano se Dante abbia partecipato al primo Giubileo e in quale periodo dell’anno; alcuni fanno risalire la sua presenza in Roma, ai primi mesi, in coincidenza del suo viaggio ultraterreno, che forse avvenne, tra il giovedì e il venerdì santo (tra il 7- l’8 aprile), del 1300; altri pensano che sia avvenuto nella seconda metà dell’anno, terminati i suoi impegni politici, come Priore 21). Va comunque ricordato che in ognuna delle tre Cantiche, ci sono dei rifermenti al Giubileo del 1300. Qualcuno potrebbe dire che queste informazioni, potrebbero essergli state raccontate da Fiorentini, che come si sa, accorsero numerosi a Roma. Ma non si deve dimenticare che Dante visse nel periodo in cui il pellegrinaggio ai luoghi santi, era molto diffuso e permeava la vita delle comunità; per questo, potrebbe essere stato uno dei pellegrini, da lui definiti come “le genti che vanno a servigio dell’Altissimo” 22), che si erano messi in viaggio verso Roma v. fig. 7.

Fig 7: Pellegrini del Giubileo del 1300: Miniatura della Cronica di G. Sercambi, su disegno dello stesso Autore (Ms107Archivio di Stato di Lucca, Biblioteca. Cfr. Cronache delle cose di Lucca, dal 1164 al 1424).

19) Giovanni Villani, cronista fiorentino (1280 1348), durante il suo soggiorno a Roma, decise di scrivere la sua “Nuova Cronica”, in cui esordiva dicendo che: ”Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare, mentre Roma era nel suo calare”.

20) Cfr. Inferno, canto XVIII, vv. 28-33 […] come i Roman per l’esercito molto/l’anno del giubileo su per lo ponto/hanno a passar la gente in modo colto/che d’un lato tutti hanno la fronte/verso’l castello e vanno in santo Pietro/da l’altra sponda vanno verso il monte […].

21)Il Priorato di Dante si svolse tra il 15 giugno e il 15 agosto del 1300.

22) Cfr. “Vita Nuova”, XI.

Monte Porzio Catone, 25 Dicembre 2019.

Graziella Bava.

Il 112º corso di Artiglieri e Genio in Valsusa


Il 112º corso di Artiglieri e Genio in Valsusa

Bardonecchia prima della guerra era già rinomata stazione turistica ma per la posizione era pure zona militare importante, dotata di numerosi forti che gli Allievi dell’Accademia Militare di Torino erano inviati ad ispezionare con le visite di istruzione.

Il 112° corso di Artiglieria e Genio (collezione G. Tonini).

 

Nel 1931 era stata la volta del 112° Corso di Artiglieria e Genio. Nel Diario dell’Accademia è scritto che il 16 luglio dalla Stazione Porta Nuova salgono sulle carrozze riservate in testa al treno per Bardonecchia (distante 88 km) il quale parte in perfetto orario alle 8,44. Bel viaggio e bei panorami. Arrivo a Bardonecchia alle 11 e sistemazione in locali piuttosto stretti con la mensa lontana e scomoda. Nel pomeriggio visita al forte Bramafam che domina tutta l’ampia conca di Bardonecchia ed il Frejus. L’indomani partenza alle 5,50 e, passando per Melezet e Pian del Colle, salita al confine francese al Colle della Scala. Risulta subito chiaro il perché del nome del Colle: l’ultimo tratto è realmente una scala parte artificiale e parte scavata in roccia. Conversazione con due gendarmi francesi e alle 9,20 rientro a Bardonecchia con arrivo alle 11,25. Complessivamente 15 km di marcia.

Il 18 al confine francese al Colle della Rhô. Questa escursione è faticosa a causa del terreno pietroso e del ghiaione finale sferzato da un forte vento gelido. Marcia di circa 20 km. Il 19 è domenica e si fa una visita interessante e minuziosa all’imbocco della galleria del Frejus ed alle opere difensive approntate dal Genio per la sua difesa ed interruzione in caso di guerra.

Il 20, lasciata Bardonecchia, gli accademisti, sempre a piedi, scendono ad Oulx per risalire a Cesana, e l’indomani al Colle del Monginevro. Il 22 giorno indimenticabile per la marcia da Claviere alla sommità del M. Chaberton, dove il forte a 3.130 m. domina su tutta Briançon e la zona circostante con i forti francesi. Ammirevole l’ingegnosità delle postazioni dei pezzi, protetti da un gradino naturale del terreno ricavato proprio in vetta e quindi pressoché imprendibili. [Così sembrava allora]. Poi, in un tripudio di sole, con fresca e gradevole temperatura, si mangia di gusto un’ottima pastasciutta e cibi caldi della mensa provenienti dalla sottostante Cesana tramite teleferica.

L’indomani riposo a Cesana e il 24 marcia al col Bousson costeggiando il Lago Nero. Il 25 marcia di trasferimento piuttosto faticosa da Cesana ad Exilles passando per Oulx. I 24 km sono percorsi in 5 ore e 40’. Alloggiati (si fa per dire) nei sotterranei del forte, maleolenti ed impregnati di muffa a causa della scarsa circolazione d’aria, si dorme male su paglia, a ridosso gli uni degli altri. La domenica mattina è dedicata alla visita, molto interessante, del forte. Nel pomeriggio liberi di andare in giro per Exilles. Il 27 è la volta del Moncenisio dove si è accantonati in modestissime casermette site sulla riva del lago dove fa freddo ed enormi topi da fogna passeggiano indisturbati malgrado le scarpate. Una marcia, di 6 ore, è inutile poiché non c’è visibilità a causa della nebbia, che diventa nevischio e poi tormenta, che rimane tale pure il giorno dopo. All’alba del 30, sempre a piedi, discesa per Susa, dapprima lungo la nazionale poi sulla mulattiera che passa per Ferrera Cenisio e da Novalesa. È l’antica strada del valico, ridotta tutte pietre e pietroni, orribile di aspetto e piuttosto disagevole. Ma che importa... è l’ultima marcia! A Susa si sale sul treno per Torino e si è felici perché è concluso il 1° anno di Corso!

Certamente tale viaggio di istruzione non è stato di tutto riposo, ma abitualmente l’Accademia era impegnativa, con sveglia alle 5,30, che diventava 6,45 nei giorni festivi; con tali orari e studi che, dopo le vacanze di Natale in cui gli allievi avevano potuto andare a casa, non tutti ritornavano all’Accademia, sebbene avessero superato la dura selezione per entrarvi.

Il Corso, divenuto Scuola di Applicazione, torna a Bardonecchia il 1° febbraio 1934 per il consueto breve campo invernale. Alloggiamento all’Hotel Frejus. Nel pomeriggio escursione e visita al Forte Bramafam (armato da cannoni da 120/21 in torri corazzate e di una batteria in barbetta) già visto da Accademisti nel 1931. Il 2 marcia con neve alta in Valle Stretta e nel pomeriggio esercitazioni di sci al Campo Principe di Piemonte. Il 3 marcia comoda di 3 ore per la Selleria e pomeriggio altre esercitazioni di sci. Il 4 escursione al Monte Colomion con le racchette insostituibili per la neve molle e alta. In vetta si mangia con un vento terribile ed un freddo intenso. Il 5 esercitazioni e gare di sci tra i più abili, alla presenza del Generale Comandante. Il giorno della partenza per Torino schieramento per la deposizione di una corona ai caduti di Bardonecchia. Alla presenza del Podestà brindisi di commiato. L’arrivo a Torino è alle 17, ovviamente in ferrovia (a piedi non si sono proprio sentiti di imporlo).

 

Esercitazione di sci a Campo Principe di Piemonte (collezione G. Tonini).














Il Gen. Mario Galanti (collezione G. Tonini).

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Cosa fu di quei baldi giovani, pieni di salute, di allegria, di saldi principi, di fiducia in un futuro radioso, che, quando sfilavano in Via Roma, banda in testa, con le loro belle divise, suscitavano le simpatie dei “bugianen” e delle “tote” torinesi? Bardonecchia fu “fatale” per uno di loro poiché, inviatovi da ufficiale, ad una serata danzante al Palazzo delle Feste conobbe la futura sposa, segusina. Durante il viaggio d’istruzione del ’31 era venuto per la prima volta nella nostra Valle e dal treno un compagno gli aveva indicato in basso Susa. Allora il giovane, nato a Trieste sotto la protezione di San Giusto, non immaginava che la sua vita sarebbe stata per sempre legata a quella località, protetta da un altro San Giusto, dove si sposò e rimase finché visse. Durante la guerra fu uno dei pochi superstiti della mitica “Ariete” dell’Africa Korp. Il Generale di C.A. Aldo Hengeller, che, malgrado il cognome, era napoletano “verace”, nel ’43, quando era capitano in s.p.e., riuscì a sopravvivere all’eccidio di Cefalonia perché, colpito al viso e all’avambraccio destro, si finse morto fra i compagni uccisi. Riuscì a tornare in Italia prima su un battello da pesca fino a Patrasso e poi su una nave-ospedale fino a Trieste. Il Generale Mario Galanti, ricordato come fedelissimo villeggiante di Bardonecchia nel Bollettino Parrocchiale 2019, era stato amato e stimato istruttore del 112° Corso. Scrisse un Diario della guerra che dovette combattere nella Campagna di Russia nel 1942-43. Ne emergono le sue  doti militari e l’umanità, che culminò nel decidere di rimanere in quell’inferno con i suoi soldati quando avrebbe potuto tornare in Italia con un treno-ospedale e pur consapevole dei sacrifici a cui andava ancora incontro e malgrado il desiderio di rivedere i suoi e il bisogno di cure. Nella prefazione al Diario pubblicato nel 1983 non esclude che ci siano ancora guerre e chiede a Dio di aiutare coloro che vi si trovassero come aveva aiuto lui. (Giulia Tonini)


II registro dei conti 
della Cappella della Madonna delle Grazie

Nell’archivio storico della Parrocchia sono conservati tre fascicoli che riguardano la Cappella della Madonna delle Grazie: il registro dei conti, il registro del tesoriere e la memoria di un furto compiuto nella Cappella. Questi ultimi due sono stati oggetto di un articolo comparso sul Bollettino parrocchiale di alcuni anni fa. Con queste note sul registro dei conti si concludono pertanto le osservazioni riguardanti gli eventi accaduti nel passato relativi alla Cappella.

Il volume ha una copertina pergamenacea, probabilmente ricuperata da qualche atto notarile, che reca l’intestazione del libro, ripetuta poi nelle prime pagine.

 

Ce livre appartient a La Chappelle De Notre Dame de Grace Sime De Ville de Bardonneche fait En L’année 1752. Gerard procureur.

 

L’arco di tempo delle annotazioni riportate sul libro va dal 1742 al 1849. In esso sono registrate i ricavi e le spese sostenute dai procuratori della Cappella, inizialmente membri della famiglia Gerard, quindi dal 1827 sostituiti da Benedetto Tournour.

Le entrate erano costituite dalle offerte; dagli affitti dei terreni di proprietà della Cappella pervenuti a seguito di lasciti testamentari, di cui sono presenti i dati del catasto comunale con relativa tassazione; dagli interessi di somme che i procuratori prestavano a privati. Era uso, infatti, utilizzare le eccedenze di cassa per prestiti a persone del luogo; un caso a parte è costituito dal prestito di trecento lire alla “Communaute de Chaumont”, restituito nel 1771.

Le uscite riguardano gli acquisti per: dotare la Cappella degli arredi necessari; la manutenzione; la celebrazione di Messe; pagare le tasse e le forniture obbligatorie in caso di eventi bellici.

Si tratta quindi di un elenco abbastanza arido di somme da cui, tuttavia, si possono trarre alcune considerazioni.

 

Nel registro compaiono solo un paio di volte le spese per dotare la Cappella di oggetti per il culto. Il Parroco Agnes, il 13 novembre 1752, annota l’acquisto per “septante cinq livres de france qui fait argent du piemont soixante cinq livres deux sols six deniers…… d’une chazuble de toutes couleurs etosse de persienne et Galon faux, que j’ai fait venir de Lion p(our) l’usage de la Cappelle.” La seconda nota riferisce che Matteo Faure aveva fornito nel 1755, a sconto parziale degli interessi da lui dovuti per un prestito, “un benitier pour la chappelle qui a ete evalue a la somme de

sept livres”.

Più frequenti sono gli interventi per la manutenzione della Cappella:

                          Nel 1815 Giuseppe Ponchier fu Luigi effettua «des reparations … fait à la Chapelle … a refaire le couvert, blanchir au dedans de la Chapelle et repiecer les murs à l’entour” il tutto valutato a sessanta lire.

                          Due anni dopo il procuratore Giovanni Gerard provvede lui stesso, dietro pagamento di tre lire, a fare un “devant d’hotel et couverture du dt hotel en bois blanc” con materiale fornito, l’anno precedente, da Giuseppe Ponchier, che per due lire e quindici soldi provvede “une demy douzeine planche bois blanc… pour faire le devant d’hotel et couverture du dt hotel de la dte Chapelle” .

                          Nel 1819 il sig. Laurencon di Plampinet per settanta lire esegue lavori “en dorure et peinture à la Chapelle”.

                          Infine, nel 1827 si pagano al falegname Giovanni Pascal sette lire e cinquanta centesimi “pour refaire la porte de la chapelle laquelle etoit en très mauvais etat et presque hors de Service”.

Malgrado questi interventi, a metà Ottocento si decide di rifare, “più grande e più appropriata”, la cappella che era “un semplice oratorio di sette piedi quadri (pari a circa cinque metri quadri) e chiusa sul davanti da un tramezzo in legno, già degradata ed impropria al servizio divino” (dal libro del tesoriere della Cappella 1859).

Tracce degli eventi bellici di fine Settecento/inizio Ottocento, che portarono alla proclamazione della Repubblica Subalpina e successivamente all’annessione del Piemonte alla Francia, si trovano nelle forniture ai magazzini militari e nella prestazione di mano d’opera per la manutenzione di strade: “Le 20me avril 1793 j’ay fourni au magazine de Bardonneche un rup de foin et quinze li-

vres (libbre) de foin et neuf livres (libbre) de paille à Raison de six sols chaque rup … fait 1 lt”. “Le 23me janvier 1794 payè à Elizabet Chareun de ce lieu, la somme de sept livres (lire) deux

sols six deniers pour prix de huit rups vingt une livres (libbre) six onces foin qu’elle à fourni au magazine de ce lieu au nom de la dte Chapelle à raison de seize sols le chacun”.

“Le 26me aoust 1799 fourni dans la maison de cette Commune une quarte bled au prix de deux livres (lire) dix sols pour le compte de la dte Chapelle … plus la meme annee fourni deux javedons avoine au prix de 7 sols le chacun pour le compte de la dte Chapelle fait 14 s”.

“Le 20me janvier 1801 fourni un javedon (5,75 litri) avoine au prix de sept sols et payè seize sols aux administrateurs de cette Commune pour fourniture en foin due en l’année precedente fait en tout une livres trois sols”.

“Le 5me juillet 1801 payè à Jean Chalier feu Joseph de ce lieu la somme de trois livres (lire) Piemmont pour travail de trois journées qu’il a employè au chemin qui tend de Suze a Briançon pour le compte de la dte Chapelle le 1er 2me et 3me juillet même année d’apres requisition du dits jours par la Municipalitè de ce lieu”.

Con il nuovo regime è imposto l’uso del franco ed il sistema decimale, adottato in Francia nel 1795 per il sistema monetario. Cominciano a circolare contemporaneamente la nuova moneta e le “vecchie” Lire di Piemonte, pur mantenendo la consueta suddivisione in soldi e denari. Ma la novità sta nella presenza anche della carta moneta: “assegnati” ed obbligazioni, biglietti al portatore pagabili a determinate scadenze.

“Le 3 aoust 1794 Reçu de Pierre Guillaume feu Joseph de Rochemolle la somme de cent vingt francs en obliguats de cinquante et de dix francs à compte des jnterests que Marie Durand sa femme doit à la dte Chapelle prevenant d’un acte obligatoire de trois cent livres sous sa datte … cy 120 lt de France”.

“Le 29octobre 1794 Reçu de Mathieu Yves feu Pierre la somme de soixante francs en obliguats de cours à compte des jnterests qu’il doit à la dte Chapelle prevenant d’un acte obligatoire de cent vingt cinq livres sous sa datte … cy 60 lt de France”.

“Le 30me 8bre 1794 Reçu de François Yves feu Hipolite la somme de six livres en obliguats de France à compte des jnterests qu’il doit à la dte Chapelle … cy 6 lt de France”.

“Le 12me mars 1795 payè à Antoine Tournour, exacteur en l’année 1794, la somme de six livres cinq sols en assignat de France pour taille Royale et trois livres huit sols monnoye Piemmont pour la negotiale”.

(La taglia reale era l’imposta che si pagava allo stato ripartita in quattro rate: marzo, giugno, settembre, dicembre. Quella negoziale è paragonabile alle nostre tasse comunali; serviva infatti a sostenere le spese inerenti alla comunità: stipendio degli amministratori e dei maestri, manutenzioni di strade, ponti, case, mulini, forni appartenenti alla collettività, eventi straordinari).

“… un billet de cours de 50 lt monoye de Piemmont que ja reçu de Pierre Guillaume feu Joseph de Rochemolles le 29me 8bre 1793 … que j’ay changé … pour soixante francs en assignats en l’année 1794 lors de l’entrée des françois”.

L’assegnato era inizialmente un titolo di prestito, il cui valore era assegnato sui beni nazionali, emesso dal Tesoro nel 1789 per far fronte alle catastrofiche finanze statali. Il 17 aprile 1790 fu trasformato in carta-moneta e lo Stato, sempre a corto di liquidità, lo utilizzò per tutte le sue spese correnti. Nel 1791 divenne una moneta cartacea e le assemblee rivoluzionarie ne moltiplicarono le emissioni, causando una forte inflazione. L’assegnato continuò a perdere valore; nel periodo dal 1790 al 1793 gli assegnati si deprezzarono per il 60%. Il 18 marzo 1796 gli assegnati furono ritirati e sostituiti da un nuovo biglietto, il “mandat territorial”. Il suo deprezzamento fu ancora più rapido del suo predecessore; il 4 febbraio 1797 fu ritirato dalla circolazione.

Tracce delle svalutazioni monetarie si trovano anche in questo libro a seguito del decreto del 4 gennaio 1799:

“La somme de 72 lt 18 s 4 d qui se trouvent à present en la caisse de la dte Chapelle, en piece de 15 s 7 s 6 d, par consequent cette somme par diminution de la dte monnoye sur l’edit du 4me janvier 1799 revient à celle de 29 lt 3 s.”.

Le presant Capital de quatre cent cinquante livres à etè reduit à trois cent cinquante deux livres au moyen de proportion par Edit du 4me janvier 1799.”.

La somme de 72 lt 18 s 4 d qui se trouvent se jour d’huy en la caise de la dte Chapelle en piece de 15 s 7 s 6 d par consequent cette somme de 72 lt 18 s 4 d revient en diminution de celle monnoye par l’Edit du 4e janvier 1799 à Celle de 29 lt 3 S ”.

Una piccola rivalutazione, almeno per le monete da sei soldi, si può presumere dalla nota:

“Noter que la susdte somme de 29 lt 3 s … … se trouvant en bourse de la dte Chapelle l’augmente d’un tier Ce jourdhuy 1er 9bre 1799, par proclamation du meme jour, vu qu’elle se trouve en piece de six sols qui valent à present huit sols par consequent celle Somme fait 38 lt 17 s 4 d”.

Un ulteriore forte deprezzamento è decretato l’8 settembre 1800:

“Nota que la susdte somme de cent trente huit livres quinze sols en billet de credit vers les finances de l’ancienne et nouvelle creation à eté reduite a celle de trente quatre livres treize sols neuf deniers pour quart de valeur des dts billets … 8me 7bre 1800 …”.

“Noter que la somme … de trois cent livres en Billet de Credit vers les finances … à eté reduite a celle de huitante sept livres dix sols pour quart de valeur en monnoye des dts Billets en leur vente de 8me 7bre 1800”.

Le 8me 7bre 1800 payè à François Vallory, exacteur en l’année dernière, la somme d’une livre un Sol huit denier en monnoye et trois livres quatre sols en Billet reduits au quart (del loro valore) font seize sols”.

Con la Restaurazione il vecchio standard monetario non venne mai ripristinato e nel 1816 fu ufficialmente confermato il sistema decimale di stampo francese. Poiché la lira sarda decimale derivava dal franco francese e non dalla lira sarda settecentesca, probabilmente per distinguere la nuova lira da quella prenapoleonica, essa veniva chiamata anche “franco”. Questo uso si è mantenuto a lungo nei dialetti. Le due lire, settecentesca e decimale hanno convissuto per un certo periodo come si può riscontrare anche nelle registrazioni che compaiono nel libro.

Dopo la parentesi napoleonica, i Bardonecchiesi dovettero affrontare un grosso problema: la ricostruzione della Chiesa parrocchiale che comportò un grande utilizzo di manodopera, cui fece fronte la popolazione locale, e l’impiego di notevoli somme di denaro coperte solo in parte da elargizioni. Furono impiegate tutte le risorse disponibili. A partire dal 1829, molte annotazioni sono relative al rientro dei capitali dati in prestito ed al loro utilizzo per la fabbrica della chiesa.

In precedenza, Giuseppe e Giovanni Antonio Gerard, figli del fu Giovanni procuratore della Cappella, stilano un elenco dei crediti della Cappella:

 

“1° Promesse de Piere Suspize du 1er  juillet 1801 pour

100

2° Promesse de Nicolas Yves du 11 mars 1815 pour

50

3° Promesse de Joseph François Ponchier feu Louis du 28 mars et 1er 8bre 1815

300

4° Promesse de Jean Moutoux feu Joseph du 4 juin 1815 pr

65

5° Promesse de Joseph Ponchier feu Jean du 10 mars 1816 pr

40

6° Promesse de Louis et jean Ponchier feu Piere du 19 mars 1816

60

7° Promesse de Louis Garnier feu piere du 18 juin 1817 pr

24

8° Promesse de françois yves feu hypte du 15 Avril 1821                        107 50

Total des creances  .  .  .  .  .  .  776 50

 

9° Arrentement a Louis et Jean Ponchier du 26 juin 1821 pour Six ans portant la rente annuelle de Treize livres

à Bardonneche le 18 Septembre 1822 Joseph Gerard Jeanantoine Gerard

… presentent encore un billet du 20 8bre 1822 souscrit par Michel Charlier de ce lieu pour treize livres qu’il doit à la Chapelle… ils presentent en relevation qu’il ont due a la chapelle par Joseph François Gerard fils Joseph de ce lieu la somme de seinquante deux livres pour rente des fonds de la Chapelle pendant quatre ans”.

A questo elenco seguono, dopo poche pagine, le note del Parroco Vachet:

“Je curè de cette paroisse Recteur des chapelles cy erigè declaire d’avoir reçu de Joseph Gerard feu Joseph François de ce lieu la somme de quarante livres pour toutes les rentes due à la chapelle de notre Dame de Grace de cime de ville par feu Joseph François Gerard son père. La quelle somme sera par moi employè pour autant aux frais de reconstruction de l’Eglise … à Bardonneche 26 Avril 1829”.

“Joseph François Ponchier feu Louis de ce lieu de Bardonneche, a payè la somme de cent livres en acquittement d’une promesse de la meme somme en faveur de la chapelle de Notre Dame de Grace de sime de ville datée du 28 mars 1819 laquelle Somme a etè retirée par nous curè soussignè et deia employée aux frais de la construction de la nouvelle eglise. Bardonneche le 18 juin 1829”.

“La promesse de Pierre Suspize de ce lieu de Bardonneche en faveur de Cette Chapelle de la valeur de cent livres, a etè payée par le meme, en fournitures de fer, Cordes, et Clou, employes pour la construction de la nouvelle eglise ainsi que les interets liquides. Cette promesse et autres employées pour le meme objet… Bardonneche 10 Xbre 1829”.

“La Creance de Joseph Ponchier feu Jean de ce lieu de Bardonneche sous la date du 10 mars 1816, a etè retirée par nous curè soussignè le 15 Xbre 1831 et a etè employée pour les frais de construction de ditte nouvelle eglise. Bardonneche ledt jour et an”.

“Jean Moutoux feu Joseph de ce lieu a payè une promesse en date du 4 juin 1815 de la somme de soixante cinq livres,laquelle somme a etè retirée par nous curè soussignè et employée aux frais de construction de cette nouvelle eglise … Bardonneche 29 decembre 1832”.

“La creance de Louis Garnier de vingt quatre livres sous la date du dix huit juin 1817 a etè payée

 

par Laurent Garnier son fils aujourd’huy le 20 9bre 1840, il a denoue payè la somme de vingt quatre livres pour jnterets … et le vieux capital sera employè en acquittement des dettes de l’eglise.

Bardonneche le dt jour 20 9bre 1840”.

Nell’ultima pagina scritta, dopo le annotazioni relative al 1849, sono riassunte le somme ricavate dai crediti della Cappella ed utilizzate per la costruzione della chiesa parrocchiale.

“Compte

Sommes employes a la construction de l’eglise

de François Ponchier                                                       100 lt

divers debiteurs de la chapelle                                         100 lt

de Joseph François Ponchier                                          100

de François Ponchier                                                      40

de Laurent Garnier                                                                                                                           24         364

La somme de 100 livres due par Hyppolite George Bompard, heritier par sa femme de Nicolas Yves, a etè remise a Mr le Sindic Orcel et employée a l’achat des pr dettes sur total.

La somme de 238 livres, environ, due par Laurent Ponchier, heritier de son pére François, a etè remise a Mr le Sindic Orcel en acquittament de semblable somme qui lui etait due par l’eglise ce qui forme la totale somme employèe pour la construction de l’eglise de 802 lt plus la Somme de 20 payè a Monsieur le curè Valleret tresorer de l’eglise par Hyppolite George Bompard herer Yves le total des creances en 1822 etait de 776 lt 50 celui des Sommes payèes pour la construction de 802 lt”.

Queste scarne note sono ampiamente sufficienti a descrivere tutto il gravoso sforzo finanziario che i nostri avi hanno dovuto affrontare per la costruzione della nostra bella Chiesa. (Guido Ambrois)

 


Facciata della Chiesa Parrocchiale con l’antica decorazione (collez. W. Re).


Quando sognavamo di essere ancora francesi. Bardonecchia 1792-1814

 

Nel 1806 le truppe napoleoniche avevano occupato Jena (Germania). La città è sconvolta dalla durezza della guerra, dagli incendi, dalle devastazioni. Il giovane Hegel, allora trentaseienne, a un amico scrive: “Ho visto l’Imperatore, quest’anima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione. È una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina”.


Certo col tempo anche il “divino Hegel” cambierà idea, ma quella era la sensazione che Napoleone suscitava In molte persone, ammiratori e non.

La nostra storia però inizia tempo prima a Torino, quando Vittorio Amedeo III nel 1792, si schiera decisamente contro il governo rivoluzionario francese, alleandosi con Prussia e Austria per dare vita alla Prima Coalizione. Risultato: la Francia sottrae Nizza e Savoia al Regno di Sardegna e il Piemonte diventa il rifugio degli aristocratici, spogliati dei loro beni e spaventati dalla furia iconoclasta della rivoluzione.

Dalla Francia però arrivavano, per i continui scambi anche da parte degli umili lavoratori stagionali, che per sbarcare il lunario trascorrevano alcuni mesi oltralpe, messaggi che parlavano di libertà, di progresso, di rifiuto dell’assolutismo e del dogmatismo religioso. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino” del 4 agosto 1789, non parlava soltanto di diritti dei francesi ma enunciava i diritti dell’uomo e del cittadino, e questo non poteva rimanere confinato al di là delle Alpi perché era il “diritto all’esistenza”.

Giovani e meno giovani, popolani, borghesi e aristocratici, incominciavano ad avere simpatie giacobine e a pensare che ogni popolo liberato avrebbe avuto dalla rivoluzione stabilità e benessere.

Per centinaia di giovani, da Drovetti, padre della egittologia piemontese, prima, a Ugo Foscolo, poi, era il tempo delle scelte radicali e definitive: arruolarsi nell’armata di Napoleone Bonaparte “liberatore”.

Era la primavera del 1796 e la stagione richiamava più che mai le ragioni del cuore, i campi di battaglia di Millesimo, Cairo Montenotte e Mondovì, sembravano poter liberare la loro parte migliore: quella fratellanza non l’avrebbero trovata mai più!

Nel gesto puro di quel combattere le parole di Rousseau si schiudevano, diventano il perimetro di un nuovo mondo che loro erano lì a marcare e a difendere.

Il sacrificio della patria nostra” consumato a Campoformio chiarì a tutti che i liberatori non esistono e questa era una di quelle verità collettive che rischiavano di rendere morti per sempre gli ideali più alti: un azzeramento del mondo.

E la Val di Susa?

La valle era sostanzialmente divisa in due tronconi: una bassa, da Gravere sino ad Avigliana, piuttosto tiepida e preoccupata per l’avanzare dei giacobini, pur con la presenza di idealisti o pragmatici che ritenevano ineludibile uniformarsi allo spirito del tempo, mentre l’alta valle se da una parte era preoccupata per i disordini d’oltralpe, dall’altra intravedeva il sogno a lungo accarezzato e mai sopito, di tornare a far parte della grande Francia. Per molti bardonecchiesi il Savoia è sempre “il tiranno sardo”.1

Bardonecchia sin dal 1793 fu soggetta a diverse incursioni da parte dei francesi atavicamente amici e ora tristemente nemici.

“L’an 1793 notre pays a été en grandes tribulations et a souffert plusieurs incursions de la part de l’ennemi, c’est à dire des François, car comme ils occupèrent la Savoie depuis le mois de 7bre

 

1 P. Alizzond, Manoscritto, p. 15 in http://escarton-oulx.eu/0apresentit.html. Questo manoscritto è stato scritto da Pierre Allizond di Millaures nel 1793 e1794 e racconta l’arrivo e la presenza dei rivoluzionari francesi a Bardonnèche e nella valle. È scritto sulle pagine bianche di un almanacco (anno 1793) stampato in italiano.

 

1792 nous étions entourés de plusieurs cotés des troupes françoises, qui après avoir tué leur Roi dans le courant du mois de janvier 1793 avoient trop de liberté s’étant rangée la France en Republique environ le 16 au 17 juillet 1793”.2

 

Le incursioni iniziarono il 16-17 di luglio del 1793 rubando “700 pecore”, burro e formaggio e vino. Il 27 dello stesso mese i giacobini accompagnati da alcuni abitanti di Névache scesero fino a Melezet e dopo aver imprigionato il curato e minacciato di tagliargli la testa, si fecero consegnare denaro e beni di vario genere. Un gruppo degli incursori francesi venne comunque catturato dalle milizie locali.

“Il 5 agosto dello stesso anno entrarono attraverso il Col de l’Echelle, il Col de la Ró e il Col du Frejus, e arrivarono in gran numero, dico circa 700 o 800, a Bardonnêche e al Mellezet, alle 4 del mattino, uccisero una donna nel Mellezet, le spararono...”.3

 

Ancora nel Maggio del 1794 le truppe giacobine passando dai colli della Scala e della Rho, entrarono nuovamente a Bardonecchia occupandola: Incendiarono “un notevole magazzino di fieno e paglia, che era nella cappella di St Hippolitte a Bardonnêche”,4 presero con loro tutte le “bestie cornute” del barone, Des Geneys spogliandone la casa. Molti valligiani per sfuggire alle incursioni francesi nascosero i loro animali negli alpeggi.5

La reazione termidoriana e la caduta di Robespierre diedero a Bardonecchia un periodo di tranquillità per poi vedere tornare i francesi con le truppe napoleoniche dopo la Campagna d’Italia del 1796, alla quale parteciperanno molti volontari inquadrati quasi tutti nella 27ª Divisione Leggera Francese.

Carlo Emanuele IV, succeduto a Vittorio Amedeo III, morto per un colpo apoplettico, forzato dagli avvenimenti, dovette rinunciare l’8 dicembre 1798 all’esercizio di ogni potere in Piemonte, ordinando a tutti i suoi sudditi di obbedire al governo provvisorio che verrà costituito dai francesi e alle truppe piemontesi di considerarsi come parte integrante dell’Armée d’Italie.

Il 9 Dicembre verrà eretto a Torino, in piazza Castello, l’Albero delle libertà e nascerà un effimero “Governo provvisorio piemontese” composto da 15 membri e a fianco si istituirà una “Guardia Nazionale”.

Il 19 Febbraio 1799 verrà indetto un plebiscito per decidere l’annessione alla Francia, che decreterà il Piemonte quale 27° Dipartimento della Repubblica di Francia.6

Il Piemonte, unico caso, anche se annesso, fu suddiviso in sei dipartimenti: Dora con Ivrea, Aosta, Chivasso; Sesia con Vercelli, Biella, Santià; Po con Torino, Pinerolo, Susa; Stura con Cuneo, Mondovì, Saluzzo, Savigliano; Marengo con Alessandria, Bobbio, Casale, Tortona, Voghera; Tanaro con Asti, Acqui, Alba.

 

2  P. Alizzond, Manoscritto cit., p. 1.

3 Ibidem.

4 Ibidem, p. 13.

5 A. Trivero Rivera, Rochemolles e la sua valle. Profilo storico, Torino 2017, p. 96.

6 Cfr. F. Frasca, Reclutamento e guerra nell’Italia napoleonica, Milano 2009.

 

1 Questa ripartizione fu ulteriormente modificata quando la Repubblica Ligure venne annessa alla Francia l’11 giugno 1805.

 

Per l’alta valle pareva davvero l’occasione propizia per tornare a chiedere quelle libertà degli Escarton che Luigi XIV aveva confermato senza problemi e il “Tiranno sardo” aveva, in apparenza, accettato e poi mai attuate.

Nel 1794 le “terre alte”, ne l’arrondisment de Suse, rimarcavano il proprio particolarismo indicando come prezzi di riferimento quelli relativi al mercato di Briançon e non a quello di Susa:

“En l’an 1794 les Francais sont entré dans le pays...

Nous avons payé le sel jusqu’à quinze sous la livre; plus le vin jusqu’à trente sous le pot à Briançon; le sel sept sous et demi à Briançon; les ufs trente sous la douzaines; le beure jusqu’à ving-cinq sous la livre; le pain blan à Briançon quinze sous la livre...”; ovvero, 81 anni dopo il trattato di Utrecht il rimando economico per Bardonecchia è ancora oltralpe, nel cuore degli Escarton.7 La breve parentesi dell’occupazione austro-russa rilanciava l’azione di Napoleone che rientrato precipitosamente dall’Egitto riorganizzava il proprio esercito per la seconda Campagna d’Italia, in particolare l’Armata d’Italia cioè quella che versava nelle condizioni peggiori e quindi occorreva una presenza forte di uomini e volontari motivati come quelli della prima ora.

La fortuna è con i francesi e a Marengo grazie all’Armata di Riserva la battaglia è vinta.

Nonostante le vittorie, dopo la pace di Luneville del 1801, Bonaparte sentì la necessità di epurare l’esercito allontanandone gli elementi deboli, affaticati, esausti o sospetti.

Con la legge francese del 1802 tutto il Piemonte arruolava con coscrizione obbligatoria, a partire dai 18 anni, i suoi figli nel 111° Reggimento di Fanteria di Linea, composto da soli Italiani e soprattutto da Piemontesi.

Bernardino Drovetti, egittologo e fondatore del Museo egizio di Torino, sarà nominato il 19 Marzo 1801 Capo di Stato Maggiore della Divisione Piemontese.8

In questo caso la tradizione militare piemontese, veniva riconosciuta dallo stesso Napoleone e confermata dal successo delle carriere dei singoli ufficiali, dalle valorose azioni dei reparti militari piemontesi al servizio francese, dai tassi di renitenza e di diserzione inferiori alla media italiana. L’esercito piemontese sopravvisse al cambiamento istituzionale e fu reimpiegato nel quadro della politica di espansione francese.

In tal senso è interessante come molti soldati provenissero dall’alta valle di Susa e che da tale zona le diserzioni, la renitenza alla leva e i riformati fossero inferiori rispetto ad altre zone dello stesso Piemonte.

Le ragioni sono probabilmente da ricercare nelle migliori condizioni fisiche degli alto valligiani, meglio nutriti, di statura più alta, di miglior livello culturale, non dimentichiamo che nel Dipartimento del Po, sta per avviarsi a un processo embrionale di industrializzazione nel quale l’infanzia conduce una vita dura, dovendo i giovani proletari iniziare a lavorare negli opifici fin dall’età di sei anni...”9 il che minava pesantemente il fisico dei giovani lavoratori. In seconda battuta gli alto valligiani per quanto delusi da una rivoluzione sempre più borghese e poco attenta alle istanze che provenivano dal basso, non furono mai preda del dilagante sentimento antifrancese.

Sorprende vedere che le poche diserzioni dei soldati dell’alta valle avvengano dopo il trattato di Fontainebleu (14 Aprile 1814) e i vari: Allemand, Beraud, Garcin, Gorlier, Guillame, disertino solo nei mesi di Aprile, Maggio e Giugno 1814 a giochi oramai conclusi, così come stupisce contare molti morti dell’alta valle sui campi di battaglia di Germania, Polonia e Russia,10

 

7 A. Guiffre, Manoscritto, trascritto nel Manoscritto della cappella di San Sebastiano, in http://escarton- oulx.eu/0apresentit.html.

8 G. Seita, V. Giacoletto Papas, Bernardino Drovetti. Un piemontese in Egitto, Buttigliera Alta, p. 26.

9 F. Frasca, Reclutamento e guerra nell’Italia napoleonica, Milano 2009, p. 24.

10 Matricules Napoléoniens 1802-1815, in http://escarton-oulx.eu/0apresentit.html e Registres matricules de la garde impériale et de l’Infanterie de ligne, in http://www.memoiredeshommes.sga.defense.gouv.fr. Cfr Manoscritto di André Joachim Guiffre, in http://escarton-oulx.eu/0apresentit.html.

 

La scoperta più incredibile è però vedere fra quei nomi anche un VACHET Joseph Marie, nato a Les Arnauds, arruolato come Fuciliere dal 18/05/1813 al 31/07/1814 (Matricola 10688 3o Battaglione, 6a Compagnia) ferito in Germania e curato a Bardonecchia, dove dal 1828 sarà parroco fino al 1868 col nome di Don Vachet.11

Dedizione alla causa, trangugiare delusioni, captare in ogni modo l’interesse di Bonaparte, essere annessi direttamente alla Francia non servì per “tornare alla realtà amministrativa del balivato del Brianzonese e a unire i paesi al di là e al di qua della linea alpina. Infatti i territori delle “valli cedute” saranno compresi nei cosiddetti “dipartimenti alpini”, e precisamente negli arondissemens di Susa, Pinerolo e Saluzzo, tutti rigorosamente di qua dalle Alpi.

Della violenza di questa separazione dei territori alpini si rese conto Antoine Jaquet, sottoprefetto della Provincia di Susa, che in una relazione del 1802 (anno X) rilevava: “Il existe une difference marquée entre l’habitant des vallées supérieures et celui de la partie basse de l’arrondissement. Cette différence est poussée jusqu’au contraste; l’habitant des montagnes a des moeurs douces, de l’affabilité de l’instruction, de l’esprit naturel...”12

Jaquet sottolineò quindi l’ardente desiderio di unione degli abitanti dell’alta valle con la Francia per identità di cultura, tradizioni, lingua e abitudini ma senza successo; Napoleone fu totalmente indifferente alle richieste di particolarismi che rimandavano all’odiato ancien regime e quindi condannò in modo definitivo gli “antichi privilegi” delle “valli cedute“.

In ultimo una riflessione: Napoleone, liberatore o tiranno?

Risposta non facile ... sicuramente Bonaparte ha sempre voluto trasmettere una certa idea di “potere” che rimandava l’immaginario collettivo ad Alessandro Magno, a Giulio Cesare, quindi alla dimensione del mito,13 senza mai capire che non tutti i popoli avevano le medesime aspettative e aspirazioni; va bene la libertà e una Costituzione ma senza il piede straniero, francese in questo caso, sul cuore. La stessa Europa delle libertà che Napoleone immaginerà tante volte non poteva evidentemente funzionare se una nazione dominava sulle altre (ovviamente ogni riferimento all’Europa di oggi, a trazione tedesca, non è casuale).

Vale la pena di ricordare che a Waterloo gli ufficiali inglesi e austriaci nei loro diari annotavano la speranza di riuscire a vedere Napoleone, anzi alcuni con orgoglio scrivevano di averlo intravisto per un attimo con il loro binocolo, o con grande rammarico di non esserci riusciti nonostante gli sforzi ... e qui c’è tutto, in fondo Bonaparte, amato e odiato, nelle remote regioni del cuore di molti, è Achille redivivo che la guerra ha liberato, portato a galla e riscritto con lui, ancora una volta, uno dei codici dell’animo umano.  (Roberto Borgis)

 

11 Ibidem.

12 R. Borgis, Le promesse mancate nelle “valli cedute”, in: Assetti territoriali e religiosi nelle Alpi Cozie prima e dopo i trattati di Utrecht, Perosa Argentina, 2016, p. 257. Cfr. anche: A. Jaquet, Memoire sur la statistique de l’arrondissement de Suse, Imprimerie nationale, Turin an (1802), p. 6.

13  C. Greppi, La Storia ci salverà, Milano, 2020, pp. 81-94.

 

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