La S.Messa in memoria della tragedia del PICREAUX si terrà
DOMENICA 1 Agosto nella parrocchia di ROCHEMOLLES
Ventun alpini sepolti dalle valanghe
La Stampa del 29 gennaio 1931
Roma 28 notte.
La Stefani comunica: «Le condizioni sfavorevoli del tempo hanno in questi
giorni provocato sulle Alpi Piemontesi slavine e valanghe. Due di queste
investivano reparti del 3° Alpini, reduci da esercitazioni durante le
escursioni invernali nell'Alta Valle della Dora Riparia, sopra Bardonecchia
Sono risultati mancanti, all'appello tre ufficiali, due sottufficiali, 16 soldati di cui
saranno dati i nomi». Questa, che abbiamo davanti agli occhi, è la più tremenda
sciagura alpina che abbia colpito il nostro Esercito, in tempo di pace. Vero è
che in guerra ne vedemmo di più vaste, e non poche, a diecine, con numero di
vittime tanto più rilevante, e caratteri e aspetti tanto più spaventosi. Ma in
guerra si aveva l'animo preparato ad accogliere e subire la tragedia:
l'atmosfera che si respirava era satura e vibrante di terribilità. Oggi invece,
questa sventura ci colpisce tutto all'improvviso, impreveduta e imprevedibile,
ci colpisce, si direbbe, a tradimento, uno di quei tradimenti che la natura
prepara e perpetra implacabile, di quei tradimenti che la montagna, come il
mare, consuma mostruosamente, con furia ciclonica, contro i suoi fedeli, contro
gli uomini che si sono ad essa dedicati, che si sentono suoi stessi figli.
Diciamo sùbito. C'è qualche cosa, oggi, però, d'assai più grande della
sventura, che è anche più grande del pianto di coloro che piangono morto un
figlio, un fratello, un congiunto, un amico; ed è la meravigliosa tradizione di
forza, di valore, di spirito pronto al sacrificio, dei nostri Alpini;
tradizione che anche in questa tanto dolorosa circostanza è stata
splendidamente riconfermata, nella sua pienezza e nella sua purità. Per la maggior
parte di questi morti non si tratta semplicemente di vittime, di colpiti dal
destino cieco e inesorabile, nell'atto dell'adempimento dello stretto dovere,
ma si tratta, per molti di loro, di individui travolti nel disastro sull'atto
che si adoperavano per portare aiuto ai compagni, individui che volontariamente
si prodigarono nel tentativo di salvare i compagni, che anche si sacrificarono,
coscienti, per non abbandonare i compagni. I superstiti narrano episodi
impressionanti, entusiasmanti, del valore, dell'abnegazione, di cui tutti
diedero prova, nelle peggiori, più disperate circostanze, di cui, prima di
tutti, diedero prova gli ufficiali. La morte del capitano Carcera, già mutilato
di guerra, del capitano Lajolo di Cossano, del tenente Vigliati, si corona d'un
nimbo glorioso, pari a quello fulgentissimo dei caduti di guerra, dei caduti
alla testa dei loro reparti, nell'impeto irruente degli assalti, nelle
inflessibili resistenze, a caccia del nemico. Anche questa volta gli Alpini
hanno guardato il nemico in faccia, senza vacillare, senza esitare. Anche
questa volta l'hanno strenuamente contrastato, e non gli hanno ceduto a questo
nemico formidabile, la montagna. Per rinarrare i fatti, bisogna che anche il
giornalista si ritempri l'animo austero e fiero dei giorni di guerra, e ritrovi
quella sobria secchezza d'espressione che meglio si conviene a questo genere di
cronache. Cercherò di dire tutto, il più esattamente e il più succintamente
possibile.
Gli uomini del
«Fenestrelle» partivano da Bardonecchia a scaglioni successivi, la mattina di
venerdì 23. Comanda gli uomini il maggiore Antonio Piccato, canavesano, di
Bagnolo, mutilato e decorato al valore; e con aiutante maggiore il primo
capitano Aldo Baglioni. Erano aggregati al comando il primo capitano Attilio
Carrera, mutilato di guerra, promosso per merito di guerra, e decorato al
valore, il primo capitano conte Raffaello Nardini-Saladini, nostro collega in
giornalismo, e il capitano Giuseppe Cerrato. Il plotone comando del battaglione
era condotto dal tenente Carlo Vigliati. Medico del battaglione, il
Sottotenente medico dottor Egidio Imassi.
Lo stesso giorno di venerdì, 23, partivano da Rocchemolles varie pattuglie
di sciatori, al comando del tenente Giulio Fettarappa, al quale era assegnato
un compito speciale, ch'egli con i suoi sciatori, assolse in modo ammirabile.
Sabato 24, partiva da Rochemolles il plotone del capitano Lajolo seguito dal
comando del battaglione, col plotone comando del tenente Vigliati. Seguivano
indi altre pattuglie. Non è il caso di esaminare in modo particolare
l'andamento della escursione. Gli alpini risalivano tutta la valle e
raggiungevano la conca di testata, poi ridiscendevano, mentre altri, col
comando del Battaglione, si fermavano e pernottavano in un rifugio. Ma in
questo giorno appunto, sabato 24, il tempo, che fino allora si era mantenuto
propizio, si guastava Il termometro, che era sceso nei giorni precedenti verso
i 20 gradi sottozero, saliva improvvisamente a 4 o 5 gradi sopra zero. Il
cielo, empitosi di nuvoloni foschi, rovesciava acqua nella conca di Bardonecchia,
e lasciava, più in alto, cadere neve. Le valli si ottenebravano di nebbia Poi
si levò la tormenta, una tormenta violentissima. Da Bardonecchia la si sentiva
urlare per le gole e sulle cime, con tutte le sue voci diaboliche, incessanti.
Poi, il termometro nuovamente ridiscendeva. Ognuno, che abbia qualche pratica
di montagna, sa come questi sbalzi improvvisi di temperatura e tutto l'insieme
delle condizioni climatiche e meteoriche, sopra accennate, costituiscano quanto
di più idoneo si possa dare per il formarsi e per il cadere di valanghe di
quella neve, che alternatamente congelata e disgelata, imbevutasi quindi di
acqua, diventava molliccia e pesantissima e sul cui cadeva altra neve, e questa
farinosa, e mossa dalla tormenta. La valle preparava orrendamente le sue
catastrofi in serie, a catena, minacciava da ogni roccione e per ogni pendio e
per ogni canalone, spalancava il baratro buio della profondità. Il tempo però,
così infausto nella parte bassa e mediana della valle, si presentava molto meno
ostile nella parte alta e verso le cime che la circondano. Il comando non ebbe
sabato sera e la notte dal sabato alla domenica, l'impressione dell'uragano,
quale si era scatenato al basso, e quale avvolse gli uomini, ridiscesi quella
sera di sabato. Queste due compagnie dovevano la mattina seguente, domenica 25,
sempre secondo l'ordine, riprendere la via, per risalire a ritrovare il comando
del battaglione e la 30a compagnia. E partirono infatti nelle prime
ore del mattino, malgrado l'infuriare della bufera. Faticosamente riuscirono a
raggiungere, senza gravi inconvenienti, la diga di un laghetto, tre chilometri
a monte del paese. Qua perveniva ad esse l'ordine dei superiori
comandi, che l'escursione era sospesa a causa del maltempo, come del resto era già preveduto
in generiche istruzioni precedenti, e che tutti gli uomini del «Fenestrelle»
ridiscendessero per rientrare quindi a Bardonecchia.
A
grande stento e con pericolo, il primo capitano Nardini, incaricato dei
collegamenti tra Bardonecchia e le truppe dislocate, era riuscito a fare
pervenire l'ordine di sospensione dell'escursione agli alpini che erano alla
diga. Ma quando si trattò di fare proseguire l'ordine al comando del
battaglione e ai nuclei sciatori, dislocati in alto, ci si scontrò in difficoltà,
insuperabili. Il maltempo cresceva ancora, la tormenta era in un pieno di
violenza indescrivibile, la valle, un vero e proprio inferno, tenebroso e
strepitoso. Da ogni fianco di monte, nel buio, si sentivano rombare valanghe.
Le pattuglie avviate avanti, pattuglie di volontari, dopo ostinati e vani
tentativi d'aprirsi la strada, erano costrette a retrocedere, una dopo l'altra.
Fu miracolo, se una di esse non rimase travolta da una slavina, che slittò via
sotto i piedi degli uomini, e piombò giù, con fragore di tuono, in fondo alla
valle. Furono ancora mandate avanti altre pattuglie, di uomini sceltissimi,
lutto invano. E allora, apparendo evidente che la situazione diventava critica
per le intere due compagnie, fu disposto, in conseguenza dell'ordine ricevuto,
per il ripiegamento; ma mantenendo alla diga, dov'è il rifugio dei guardiani
della diga stessa, un posto di vedetta; e mantenendo poi ancora, a mezzo di
pattuglie, il collegamento con detto posto avanzato alla diga. I reparti
dislocati tra la conca e le cime circostanti, pure contrastati duramente
anch'essi dal maltempo, non avevano però avuto, precisa sensazione dell'uragano
che infuriava poco più al basso, nella valle sottostante, nelle gole. E
giudicando da quanto essi potevano constatare di lassù, non ritennero il caso
di applicare le istruzioni generiche, che ho indicate, e per cui, in caso di
troppo avverse condizioni di tempo, le escursioni s'intendevano sospese. Ma
quando, nel tardo pomeriggio, compagnia e pattuglie sciatori ridiscesero insieme,
la bufera era oramai salita verso di loro. Sotto di loro la valle si
approfondava e scompariva in un foscore impenetrabile, mentre la tormenta già
ne esplodeva fuori, ascendeva verso le vette, investiva tutta la montagna, col
suo turbine strepitoso, a rapina.
Il maggiore Piccato, comprese subito che
sarebbe stata follia avventurare i suoi uomini e comprese anche subito la
tremenda incognita e gli urgenti pericoli della situazione. Situazione che si
aggravava anche pel fatto che quei due ultimi giorni, sabato e domenica, i
reparti dislocati lassù avevano consumato le razioni dei viveri di riserva;
quindi mancavano di viveri, per una sosta al rifugio, dove anche, del resto,
gli uomini non riuscivano a starci tutti, se non premuti l'uno sull'altro. Si
aggiunga che la località è quasi spoglia di vegetazione e non c'era nemmeno
modo, perciò, di raccogliere legna, per far fuoco. Qualunque sosta dunque,
anche minimamente prolungata, si sarebbe risolta in quelle disagiate
condizioni, e col digiuno, in un vano allentamento delle energie degli
individui, in un indebolimento, fino all'estenuazione delle risorse vive,
fisiche e morali degli uomini. Il maggiore Piccato deliberò di conseguenza che
quei reparti che erano con lui avrebbero pernottato al rifugio e che la mattina
seguente si doveva a ogni costo aprirsi la strada al basso. La mattina
seguente, lunedì 26, il maggiore Piccato
muove con i suoi uomini.
Vengono prese le più oculate e scrupolose
misure di sicurezza, nulla è trascurato per condurre la marcia a buon fine, ad
evitare almeno i peggiori disastri. Il maggiore dispone che la marcia si
svolga lungo il fianco di sinistra, orograficamente, della valle, e nel caso
attuale, anche rispetto alla direttrice di marcia, in quanto questo fianco
presenta, per questo tratto della valle, meno pericoli di valanghe, sia per la
configurazione fisica, sia per un poco di vegetazione arborea, che vi è sparsa.
Poi il maggiore dispone ancora, logicamente, che le truppe procedano a scaglioni, convenientemente
distanziati l'un dall'altro. La colonna muove dal rifugio verso le 7. Il tempo
è sempre pessimo, la tormenta toglie ogni visibilità, mozza il respiro, la neve
è molle, farinosa nello strato superiore, ghiacciata sotto. Ma non si tratta
che d'una sottile crosta di ghiaccio, che si rompe continuamente sotto il peso
degli uomini, e questi affondano fino alle cosce, nello strato di neve
sottostante, molle e impregnata d'acqua. In queste condizioni la colonna avanza
lentamente. La violenza del vento è tale che, pochissimi minuti dopo che gli
uomini sono passati, ogni loro traccia nella neve si cancella Dopo oltre un'ora
e mezza di marcia la colonna dovrebbe essere giunta presso al laghetto e alla
diga. Ma questo, in condizioni normali.
Nelle condizioni attuali, la testa della
colonna non è nemmeno a metà del cammino. Sono circa le 10 e 3/4.
Improvvisamente, un tuono formidabile, una nuvola immane di neve. L'impressione
è che la montagna si sfaldi e precipiti. La testa della colonna, con il primo
gruppo degli skiatori del capitano Carcera, è scomparsa. La valanga si era
staccata dal fianco destro della valle, cioè l'opposto a quello per cui
marciava la colonna. Una massa enorme, la fronte fu misurata poi di oltre 400
metri, era precipitata per tutto il fianco del monte, si era ingolfata nella
valle, ne aveva subitamente colmato con la sua massa il fondo e come una
sconvolta onda oceanica era indi straboccata, risalendo lungo l'altro versante
della valle, quello appunto per cui marciava la colonna. Lo straboccare dei
massi di neve, questo rigurgito irresistibile, questo quasi sbavarsi in alto
dell'onda, era salito per circa un centinaio di metri sulle falde dell'opposto
monte, e aveva colpito in pieno il primo nucleo della colonna. Si erano veduti
gli uomini lanciati violentemente in alto, poi ricadere, scomparire in quel
mareggiare in tumulto della massa di neve. Contemporaneamente, altra neve
precipitava, dall'uno e dall'altro monte, lungo entrambi i fianchi della valle.
Il maggiore Piccato, che seguiva immediatamente quel primo nucleo degli
skiatori del capitano Carcera, con l'aiutante maggiore primo capitano Baglioni,
con qualche soldato del suo comando, si butta arditamente sulla neve ancora
mossa della valanga, e tutti insieme tentano i primi salvataggi. La valanga ha
travolto forse venticinque individui.
Qualcuno
è presto ritrovato, e tratto fuori; tra questi il capitano Cenato che camminava
insieme con il nucleo di testa, e il maresciallo Villa, gli stessi salvati si
mettono subito a lavorare al salvataggio dei compagni.
Giunge intanto
il capitano Lajolo, in testa ai suoi uomini. Il maggiore Piccato gli affida di
continuare l'opera di salvataggio, ed egli, attraverso la valanga, riparte
subito, per continuare la discesa, e raggiungere la località della diga. Gli
preme ristabilire al più presto il collegamento. Via ancora la marcia
travagliosa, estenuante, nella tormenta, di continuo sotto la minaccia d'altri
crolli di neve. E finalmente, verso mezzogiorno, arriva alla diga, dove trova,
insediato nella casetta-rifugio dei guardiani, con un gruppetto di uomini, lo
stesso comandante del Reggimento, il colonnello Vittorio Emanuele Bossi.
Intanto diventavano critiche anche le condizioni di coloro che erano alla diga
con il colonnello Rossi. Anche loro avevano esaurito o stavano per esaurire i
pochi viveri portati con sé e non riuscivano a ristabilire il collegamento.
Avevano, è vero, un collegamento, telefonico, dell'impianto idroelettrico delle
Ferrovie dello Stato, cui appunto servono la diga e il laghetto, con
Bardonecchia Così trasmisero nel pomeriggio stesso, lunedì, la notizia degli
avvenimenti. Subito da Bardonecchia si avviò una serie di tentativi per recare
soccorsi, prima a quei della diga. Accorse il comandante della prima brigata
alpina, il generale Vittorio Asinari di Bernezzo con l'ufficiale addetto alla
brigata, tenente colonnello degli alpini Giuseppe Capelli, Non restava che un
esilissimo filo telefonico: era già molto; ma non poteva certo giovare a
trasportare i viveri che occorrevano per la gente alla diga, né a fare evacuare
di lassù la gente in pericolo. Forse però dall'allacciamento svelato da quel
filo nacque l'idea geniale: una di quelle idee di cui gli italiani portano il
segreto in sé istintivo e da cui si sprigiona la scintilla all'atto che l'uomo
urla contro le difficoltà. L'idea venne a due ingegneri delle Ferrovie dello
Stato, l'ing. Giovanni Santi direttore il questa centrale elettrica, e l'ing.
Francesco Morassuti del Compartimento ferroviario di Torino. E fu questa: non
discendono regolarmente le acque, in condotta protetta, dalla diga, cioè dal
lago, a Bardonecchia? C'è dunque una via protetta, fra Bardonecchia e il lago e
la diga: perché non rifare a ritroso il cammino delle acque? Perché non
risalire per questa via? E così appunto si fece. Fu dato ordine, lunedì stesso,
di chiudere le saracinesche, impedendo così alle acque di defluire dal lago. E
la galleria, naturalmente, si svuotò. Restava dell'acqua al fondo, per una
ventina di centimetri di altezza e si era già provveduto a far venire da Torino,
d'urgenza, una prima teoria di stivaloni di gomma. E il martedì mattina, il 27,
una prima corvée con viveri, condotta dal sorvegliante Giacoma, delle Ferrovie
dello Stato, rimontava con la funicolare su piano inclinato, imboccava quindi
la galleria, compivate chilometri del percorso sotterraneo, raggiungeva
felicemente la diga e il colonnello Rossi e i suoi compagni. Era stabilito così
un collegamento diretto, protetto, sicuro, tra Bardonecchia e la diga.
Frattanto Lajolo, lasciato il piccolo rifugio e procedendo con tutte le misure
di sicurezza con il nucleo sciatori del tenente Fettarappa, con una parte del
plotone comando del Battaglione, condotto dal tenente Vigliarli riuscì, pur
attraverso la tormenta sempre violentissima, e il flagello di crolli di neve, a
portare i suoi uomini intatti fino oltre il punto dove il giorno prima era
caduta la tremenda valanga.
La colonna
avanza, miracolosamente ancora intatta, e più miracolosamente ancora, in ordine
perfetto. Si può nutrire oramai buona speranza di arrivare tutti alla diga:
forse, se la visibilità non fosse pressoché nulla per la tormenta, forse la
diga si avvisterebbe già. Quando, il disastro. Una valanga, anzi tutta una
serie di valanghe precipita per il fianco destro della valle per cui la colonna
procede, investe la colonna in testa, al centro, in coda. Uomini e
uomini scompaiono nella rovina.
Attimi inenarrabili. Scompare il capitano Lajolo, scompare il tenente
Vigliarli, scompaiono forse una quarantina di soldati, il tenente Fettarappa
emerge tra lo sconvolgimento della neve; organizza i soccorsi, si prodiga
nell'opera di salvataggio.
I superstiti lo coadiuvano con slancio, con abnegazione mirabili. Si
riesce così ad estrarre dalla neve, l'un dopo l'altro, venti, trenta individui.
E i superstiti non abbandonano il luogo, prima di avere la certezza che non è
più possibile che la neve restituisca ancora dei viventi, A piccoli gruppi,
alla spicciolata, i superstiti raggiungono la diga.
E qua ricevono i necessari conforti, estenuati come sono. Ma le loro
condizioni morali sono del tutto diverse, sono perfette, meravigliose, di
indomita energia, di serenità di spirito, di vigorosa resistenza. Tra ieri, nel
pomeriggio, e oggi, si è provveduto da Bardonecchia, al vettovagliamento e ai
rifornimenti, all'assistenza di questa ingente raccolta di uomini, alla diga.
Ieri sera, alle 9 è arrivato da Torino il comandante del Corpo d'Armata S.E. il generale Ernesto Mombelli, accompagnato dal Capo di S. M. del Corpo d'Armata, colonnello Caramelli. S.E. ha tenuto particolarmente a portare il suo saluto al battaglione «Fenestrelle» così duramente provato: il suo vecchio battaglione, di cui egli fu comandante, da maggiore, e che condusse in combattimento e alla vittoria a Rodi, e nella battaglia di Psitos, e oggi, attraverso la galleria, e per il piano inclinato, tutti gli uomini, dalla diga, sono scesi a Bardonecchia. Ultimo, dopo tutti, ultimo a tornare, poiché era stato il primo ad accorrere, l'eroico colonnello Rossi. Le perdite sono quelle già accennate dà comunicato ufficiale; tre ufficiati, due sottufficiali, sedici alpini. Per ciascuno, la famiglia ha già ricevuto particolarmente l'annunzio. I nomi loro saranno dichiarati in un prossimo comunicato ufficiale. Ma gli alpini questi nomi hanno già scritto, prima che nel loro albo d'oro, nel cuore, insieme, degnamente, con quelli dei camerati caduti in guerra.