Feudalesimo a Bardonecchia e
in Alta Valle di Susa:
fra vincoli di dipendenza e ricerca di autonomie
«...
Dal campo inosservato uscii; l’orme ripresi / poco innanzi calcate, indi alla
manca / piegai verso quilone, e
abbandonando / i battuti sentieri in una valle m’internai ... Qui nulla /
traccia d’uomo apparia, solo foreste / d’intatti abeti, ignoti fiumi e valli /
senza sentier: tutto tacea, null’altro / che i miei passi io sentiva, e ad ora
ad ora / lo scrociar di torrenti, o l’improvviso stridir del falco ... andai
così per tre giorni; / e sotto l’alte piante o nei burroni / posai tre notti
... Una ridente / speranza, all’alba, risvegliommi, e pieno di novello vigor la
costa ascesi / ... il guardo lanciai nella valle, e vidi ... oh vidi / le tende
d’Israello, i sospirati padiglion di Giacobbe: al suol prostrato, Dio
ringraziai, li benedissi e scesi» (1)
Così il Diacono Martino, nell’Adelchi manzoniano, annuncia la scoperta del passaggio segreto che dalla Val Sangone avrebbe permesso ai Franchi di aggirare i Longobardi attestati alle Chiuse di San Michele in Val Susa, costringendoli a ripiegare su Torino e poi su Pavia dove sarebbero stati sconfitti nel 774 d.C. In questo modo, in Val Susa, iniziava compiutamente la penetrazione franca e con essa l’inserimento del modello amministrativo carolingio.
Tur d’Amun Bardonecchia. |
Eliminate
le sacche di resistenza longobarde, Carlo Magno cercò di ridare vigore alle
zone conquistate e spesso devastate, senza per questo cancellare quanto fatto
dai longobardi, tanto da assumere su di sé anche il titolo di Rex
langobardorum. Le ampie circoscrizioni territoriali longobarde furono
sostituite da quelle comitali franche che permettevano un controllo più
capillare da parte dei conti, ovvero di coloro che svolgevano per il potere
centrale il compito di funzionari regi. Il Piemonte venne diviso in circa
quindici comitati, che non necessariamente corrispondevano a quindici conti, in
quanto ogni funzionario poteva gestire più di un distretto. Il comitato di
Torino includeva le terre comprese dal Po all’Orco alla Valle di Susa sino allo
spartiacque alpino.
Nel
773, durante la spedizione dei Franchi contro i Longobardi, Carlo Magno venne
munificamente ospitato presso l’abbazia della Novalesa e i monaci ebbero buon
gioco nel rivendicare le terre dell’alta valle ed in particolare quelle di
Bardonecchia appellandosi al fatto che esse appartenessero al nobile Abbone,
rector della Moriana, appartenente all’antica aristocrazia gallo-romana, e
fondatore dell’abbazia. Le concessioni di Carlo Magno a favore degli abati
novalicensi vennero poi confermate nell’814 da Ludovico il Bonario e nell’845
da Lotario. Il reale controllo sulla valle di Bardonecchia resterà comunque
labile anche se molti sono gli atti nei quali ai monaci è concesso di giudicare
nelle cause civili gli abitanti di Oulx e Bardonecchia. Molti abitanti di quel
territorio, pur lavorando per il potente monastero, erano uomini liberi e
quindi nelle cause penali il foro competente sarebbe stato quello dei conti di Torino.
Nella sostanza però gli abitanti della Valle di Susa spesso non riusciranno a
mantenere la protezione della giustizia pubblica non potendo dimostrare con
atti formali il proprio status di liberi, finendo quindi per essere assimilati
a servi del monastero.
Lo
strumento usato da Carlo Magno per gestire il suo ampio regno fu essenzialmente
il feudalesimo, istituto che si reggeva essenzialmente su due momenti chiamati:
omaggio e beneficio. L’omaggio era diventare “uomo di un altro uomo”, ovvero un
subordinato, legato ad un signore da un giuramento di fedeltà militare, il
quale, in cambio, riceveva un feudo, cioè delle terre in usufrutto vitalizio,
ma non alienabili. Quindi è evidente che in tale contesto i conti e il loro
entourage fossero prevalentemente franchi e questo determinò una non
trascurabile migrazione di notabili transalpini verso il Piemonte e le nostre
valli, cambiando in modo significativo le elitès sociali delle terre al di qua
delle Alpi. Il Piemonte si arricchì di vaste aree demaniali carolinge, in parte
destinate ad uso venatorio, ma nella maggior parte dei casi si trattava di
terre, curtes, che quasi sempre comprendevano più curtis, ovvero di più aziende
agrarie sparse facenti capo a più villaggi secondo lo schema di un tipico
villaggio medievale, con il suo centro insediato (con case, orti e stalle), la
fascia circostante di coltivo e quella, ancora più esterna, di pascoli o di
boschi spesso di uso comune (2). Secondo qualche storico i moderni “usi civici”
sulle aree comunali si potrebbero far risalire proprio a quel modello. Nella
curtis convivevano uomini di diverse condizioni dai coloni liberi, ai servi in
una condizione di semi-schiavitù, così come si univano sotto la mano di un
unico “gestore” terre date in beneficio e aree possedute in piena proprietà
(allodi). Per quanto concerne l’Alta Valle di Susa questa era parte della
contea di Torino e almeno formalmente apparteneva all’abbazia della Novalesa
dal 774, possesso poi confermato in epoca post-carolingia nei diplomi dell’814
e dell’845, nella sostanza si trattava di terre gestite da vari signori (3) in
forma vassallatica con liberi e servi della gleba e la presenza di un Castrum
Bardinum ubicabile probabilmente nella zona di Château Beaulard.
A
partire dal X secolo le bande di pirati saraceni, provenienti dalla base di
Frassineto in Provenza, scorazzarono per i passi alpini taglieggiando
viaggiatori e le popolazioni locali, tanto che nel 906 la Valle di Susa fu
letteralmente invasa e controllata per circa cinquant’anni. La potente abbazia
della Novalesa venne abbandonata, i monaci si trasferirono a Breme nella
Lomellina (4), e la Pieve di Oulx distrutta. A questo periodo una certa
tradizione popolare vorrebbe far risalire la fondazione dell’insediamento di
Rochemolles.
Al
di là delle rielaborazioni popolari o erudite e della reale consistenza delle
razzie piratesche, la presenza saracena contribuì a creare quel clima di
incertezza e confusione che caratterizzò la fase post-carolingia. La fine del
dominio saraceno prese il via dall’azione del franco Arduino, detto il Glabro,
che dai comitati di Auriate e Torino lanciò la riconquista dei passi alpini,
imponendo, anche in modo violento, il proprio dominio ai valligiani, tanto che
nel Chronicon Novalicense è definito come un “lupo rapace”. Al fianco del
Glabro si schierarono anche molti notabili franchi come il Conte di Albon e
Witbaldo de Bardonnèche: i futuri fondatori delle signorie che troveremo
nell’XI sec. nel territorio liberato (5).
Dai
documenti esaminati sembrerebbe essere Witbaldo il signore dell’Alta Valle da
Exilles a Bardonecchia.
La
fase post-carolingia nell’area del nord-ovest della penisola fu inizialmente
caratterizzata dallo strapotere del franco Anscario i cui possedimenti vennero
però ben presto ripartiti fra quattro marchesi, e fra questi vi era anche
Arduino il Glabro, i quali a causa dell’estrema debolezza del potere regio
riuscirono anche con la violenza, con l’appropriazione indebita o clientelare
ad ampliare i propri possedimenti. Non dobbiamo inoltre dimenticare che nel
“sottobosco del potere” si muoveva un’ampia gamma di personaggi di rango minore
ma dotati di ampi ed efficaci mezzi e legami tali da permettere loro di mettere
le mani su vaste parti di terre demaniali o di ottenere immunità magari
direttamente dal potere regio. In questo contesto sociale e politico quanto mai
variegato, fluido e frammentato, le singole località del Piemonte venivano
sempre più controllate dal proprietario di una curtis, meglio ancora se
incasellata. Nel 1034 Olderico Manfredi trasmise alla figlia Adelaide la
propria eredità facendo di lei una delle figure chiave della storia del
Piemonte, e che grazie alla dote portata dal terzo marito di Adelaide Oddone,
si arricchì di vasti possedimenti transalpini ma soprattutto del titolo di
conti di Savoia, che permetterà ai discendenti di Adelaide di controllare non
solo le terre d’oltralpe ma anche e soprattutto alcuni passi alpini occidentali
e la “via francigena”.
Dal
quadro sin qui delineato si vede quanto la famosa “piramide feudale” tanto cara
ai manuali di storia medievale (sic!), sia quanto mai irreale e inapplicata in
Italia e in Europa, se non nel cosiddetto “feudalesimo d’importazione”, ovvero
quello inglese messo in atto da Guglielmo il Conquistatore dopo la vittoriosa
battaglia di Hasting del 1054, e nell’Impero latino d’Oriente del 1204.
Certamente
quello che valse come aggregante sociale furono il legame vassallatico, il
vincolo personale e il giuramento di fedeltà fra i vari attori sociali,
compresi quelli di carattere religioso, tutti intenti a rafforzare la propria
posizione politica e patrimoniale.
Per
quanto concerne la Valle di Susa possiamo dire che nell’XI secolo la Bassa
Valle sino al forte di Exilles, la Valle Cenischia fosse sotto il controllo
degli eredi di Adelaide, mentre i De Bardonnèche formalmente erano soggetti
solo alla supremazia dell’impero e oltre al dominio della conca estendevano il
loro controllo sino a Oulx, tanto che Ponche de Bardonnèche nel 1050 farà dono,
alla nascente prevostura di Oulx, delle decime da lui possedute sulle chiese di
San Lorenzo e Santa Maria.
Tramontato
il potere di Adelaide e degli arduinici, i conti d’Albon iniziarono a premere
sempre più per penetrare nell’Alta Valle arrivando ad arrogarsi, nel 1073, il
diritto di poter effettuare davanti alla chiesa di San Lorenzo, nel giorno
della festa del santo patrono, una fiera e poi nel 1155 a battere moneta a
Cesana ed edificarvi un castello. Nel 1183 il Delfino si definì signore di
Cesana, Oulx e Salbertrand e mirando ad estendere il dominio su Bardonecchia,
concedeva, in modo illegittimo, ma come segno di potere, alla Prevostura di
Oulx lo sfruttamento delle miniere della valle «della Dora dal colle della Rho
a Exilles…» (6) e analogamente nel 1212 il conte Savoia di Torino dotava
l’abbazia di San Giusto di Susa della giurisdizione su Bardonecchia (7).
In
realtà nessuno di questi atti fu mai sostanzialmente adottato e i Signori di
Bardonecchia cercarono di mantenere rapporti di amicizia con entrambi i
pericolosi vicini, sino a quando nel 1282 il Delfino Jean concederà a Bonifacio
di Bardonnêche in «aumento ai feudi da lui posseduti…» anche quello di Névache,
divenendo però in questo modo vassallo a doppio titolo e quindi riconoscendo
formalmente la signoria del Delfino anche su Bardonecchia. In pratica, anche se
in i rapporti fra i Delfini e i Signori di Bardonecchia si svolgevano
attraverso un lessico fatto di termini come “familiares o fidelitas” che
alludevano più a un particolare legame di amicizia che a una sottomissione
feudale, come spesso accadeva, anche per Bardonecchia il «gioco dei rapporti di
forza faceva sì che un signore locale dai mezzi più modesti fosse costretto,
prima o poi, a cedere alle pressioni d’un vicino più potente, riconoscendosi
suo vassallo, e il diritto feudale offriva uno strumento duttile ed efficace
per regolare giuridicamente questa subordinazione» (8). In seguito la
penetrazione del potere delfinale a Bardonecchia fu ancora più profonda,
infatti il Delfino acquisterà i diritti di Costant e Pierre di Bardonnêche,
divenendo nel 1330 signore di Bardonecchia a doppio titolo di dominus maior
ovvero di sovrano e di parerius ovvero di consignore (9).
Nonostante
il rafforzamento del potere delfinale in atto in tutte le Valli del Brianzonese
la conca di Bardonecchia, in virtù di una forte presenza dei “de
Bardonisca/Bardonnêche”, si era a lungo sottratta ai legami di dipendenza verso
il Delfino, ma nel 1330 per le capacità da parte del delfino Guigo VII di
inserirsi nella “parieria” di Bardonecchia la situazione subì un notevole
irrigidimento. La situazione peggiorò ulteriormente con le proteste e
ribellioni del 1329-30 per le esazioni di oneri straordinari imposti alla comunità
per far fronte agli impegni politicomilitari nei confronti delle pressioni
sabaude. La rappresaglia della comunità bardonecchiese è interessante anche sul
piano giuridico, in quanto “homines et populares de Bardonescha” fanno redigere
da due notai locali le loro doglianze contro i “de Bardonisca” e il balivo del
Brianzonese, tal Tisseto Roeri, i quali avevano avvallato le arbitrarie pretese
dei signori a discapito delle popolazioni locali e di quanto convenuto nelle
“consuetudines”. Lo scontro culminò in uno scontro armato nel Borgovecchio di
Bardonecchia, fra gli abitanti e le milizie signorili. Il Delfino, impegnato
anche in una guerra con i Savoia, cercò in breve di giungere a una
pacificazione e grazie alla mediazione del prevosto di Oulx si giunse a una
pacificazione fra gli abitanti delle parrocchie di Bardonecchia, Rochemolles e
Beaulard (10). Il delfino Guigo VII, in qualità di “maior dominus” concesse
agli “agricola e innobiles” delle tre parrocchie, una carta di franchigia dove
si riconoscevano le precedenti consuetudini e il diritto ad essere giudicati in
appello dal “iudex maior” di Briançon. Le franchigie vennero poi confermate nel
1336 dal delfino Umberto II mediante la corresponsione di una somma una tantum
di 1.500 fiorini d’oro e una rendita annuale da ripartirsi fra tutti i
consignori, di 1.200 lire tornesi (11).
Nel
momento in cui vennero concesse le famose franchigie del 1343 con la nascita
degli escarton, Bardonecchia rimase esclusa perché “godeva già di franchigie
almeno equivalenti…” per accordi con i Signori locali (12). Soltanto nel 1369
le comunità della valle di Bardonecchia finirono con l’integrarsi nel sistema
del processo di affrancamento e autonomie degli escarton. Da allora l’Alta
Valle di Susa non presentò particolari cambiamenti (se si eccettua, durante il
regno di Francesco I, un inasprimento della fiscalità con una graduale erosione
delle autonomie brianzonesi) sino al trattato di Utrecth del 1713, nel quale
all’articolo IV si contemplava da parte di entrambi i sovrani il rispetto di
“consuetudini e privilegi” delle zone reciprocamente cedute. In realtà sappiamo
che per le terre al di qua delle Alpi le “libertà brianzonesi” verranno
ripristinate, almeno in via teorica, solo nel 1738 (13).
La Tur d’Amun
insieme al castello del Bramafam (ad oggi distrutto) rappresentavano due opere di
incastellamento del territorio ad opera dei Signori di Bardonecchia.
In
ultimo credo che il termine “feudale” sia uno dei termini della Storia oggetto
di molte interpretazioni contraddittorie, nonché di usi a volte anche piuttosto
superficiali. Certo è indubbio che la società feudale fu quanto mai variegata
«perché né tutte le signorie erano feudi, né tutti i feudi, principati e
signorie…» 14. Una molteplicità di particolarismi e localismi, un complesso e
intricato sistema di vincoli di dipendenza che va trattato con cautela e
attenzione da parte dello studioso sia esso professionista o dilettante. In
tale contesto l’Alta Valle di Susa e la conca di Bardonecchia rappresentano
comunque se non un unicum, almeno un caso molto particolare, in parte ancora
inesplorato, con una individualità giuridica, fiscale e linguistica davvero
singolare che nel tempo ha fatto di queste terre alte trasfrontaliere, un
modello originale di libertà collettive ed individuali e di capacità di usare
in modo incisivo gli strumenti giuridici del tempo per far valere i propri
diritti contro gli abusi signorili.
Roberto
Borgis
1
A. MANZONI, Adelchi, atto II scena III)
2
G. SERGI, Villaggi e curtes come basi economico-territoriali per lo sviluppo
del banno, in “Curtis e signoria rurale: interferenze fra due strutture
medievali”, Torino, Scriptorium, 1993, pp. 7–9.
3 L. DES AMBROIS,
Notice sur Bardonnêche, ed. orig. 1872,
Trevi, 2013, pp. 6, 7.
4
G. TABACCO, Dalla Novalesa a S. Michele della Chiusa, in “Spiritualità e
cultura nel Medioevo. Dodici percorsi nei territori del potere e della fede”,
Napoli, 1990.
5 L. DES AMBROIS,
Notes et souvenir inédits, ed. orig. 1901, Foligno, 2011, p. 151.
6 L. DES AMBROIS,
Notice sur Bardonnêche, op. cit., p. 10.
7 Ibidem.
8 A. BARBERO, Storia del Piemonte, Torino,
2008, p.127.
9 L. DES AMBROIS, Notice sur Bardonnêche, op. cit., p.
18. Costant e Pierre di Bardonnêche
riceveranno in cambio il feudo di Percy e Monestier nel territorio di Trièves e
i loro discendenti otterranno il titolo di visconti di Trièves.
10 Interessante è notare che Beaulard, oggi
sotto Oulx, allora fosse nella sfera politica di Bardonecchia.
11 L. PATRIA, L’alta valle della Dora Riparia
dall’XI al XVIII secolo, Paolo Molteni, “San Restituto del “Gran Sauze” nel
Delfinato al di qua dei monti”, Torino, 1996, pp. 57-60.
12 L. DES AMBROIS, Notice sur Bardonnêche, op. cit., p.
157.
13
Cfr. R. BORGIS, I 300 anni di Utrecht, in “La voce del Bardo”, Bardonecchia
2013, pp. 10.
14 M. BLOC, La società feudale, ed. orig. 1949,
Torino, 1982, p. 4.
Il pellegrinaggio a Gerusalemme
«Beato chi trova nel Signore la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio» (Salmo 83)
Fin
dai primi tempi della diffusione del Cristianesimo, i fedeli desiderarono
recarsi nei luoghi in cui si era svolta la vita di Gesù; ma nei primi tre
secoli dell’Era Cristiana, a causa della forte opposizione dello Stato romano
alla nuova religione, questa aspirazione non fu facilmente realizzabile; in
particolare i viaggi in Terra Santa 1 erano molto rischiosi a causa delle
frequenti rivolte degli Ebrei contro il dominio romano; durante la Guerra
Giudaica (68-70 d.C.) e successivamente a causa della repressione seguita alla
ribellione generale capeggiata da Bar Kochbà (132-35), una notevole parte della
popolazione perì; sulla città di Gerusalemme, distrutta due volte, fu fondata
Aelia Capitolina e sul Golgota 2 venne edificato un tempio dedicato a Giove. La
regione divenne provincia imperiale, il nome di Judaea fu sostituito da quello
di Palaestina, cioè terra dei Filistei, i secolari nemici d’Israele, che ne
avevano abitato la zona sud-occidentale.
Questi
tragici avvenimenti provocarono la riduzione e la dispersione del numero dei
cristiani di Gerusalemme, ma la memoria dei luoghi e degli avvenimenti che
riguardavano Gesù non andò perduta e il pellegrinaggio nei luoghi evangelici è
testimoniato, seppure in casi isolati, già a partire dal II secolo: Eusebio da
Cesarea 3, nella sua Historia Ecclesiastica, cita il Vescovo e martire Melitone
di Sardi, il quale, come attesta un frammento delle sue Ecloghe, compì questo
viaggio verso l’anno 180; intorno alla metà del III secolo, anche Pionio,
Vescovo di Smirne, poi martirizzato sotto Decio, pellegrinò in questi luoghi.
Con l’Editto di Milano del 313, il Cristianesimo divenne religio licita e i
cristiani poterono praticare apertamente il loro culto. Costantino promulgò
vari provvedimenti in loro favore e, a Roma e nella parte occidentale
dell’impero, fece costruire numerose basiliche adatte allo svolgimento della
liturgia cristiana. Non egualmente avvenne nella parte orientale dell’impero,
dove il suo collega Licinio, verso il 318, iniziò a vessare i cristiani e a distruggerne
le chiese; dopo la sua sconfitta, avvenuta nel 324, Costantino ebbe il potere
anche sui territori orientali, sui quali estese la liceità della religione
cristiana. L’imperatore decise ben presto di onorare i Luoghi Santi con la
costruzione di basiliche che ricordassero i momenti salienti della vita di
Cristo: il suo progetto edilizio interessò innanzitutto il Golgota, il cuore
della cristianità: si trattava di portare alla luce la tomba scavata nella
roccia, di proprietà di Giuseppe di Arimatea, obliterata in seguito ai lavori
per la costruzione, al tempo di Adriano, del Capitolium della nuova città. La
lettera di Costantino a Macario, Vescovo di Gerusalemme, dal 314 al 333,
riportata da Eusebio di Cesarea nella “Vita di Costantino, III, 30-32”, attesta
il desiderio dell’imperatore di far edificare «… una basilica migliore di tutte
le altre, superiore a tutti i monumenti più belli della città…». Con gli stessi
criteri archeologici di oggi, furono distrutti i resti del Capitolium, ne
furono trasportati lontano i detriti, e si scavò in profondità per riportare
alla luce il sepolcro in cui il corpo di Cristo era stato deposto. Come
attestano le indagini compiute sul sito dallo studioso padre Corbo, c’è una
corrispondenza tra le indicazioni di carattere topografico espresse dai Vangeli
e le risultanze delle recenti indagini archeologiche: effettivamente il
Calvario era situato all’esterno della città antica, ma a breve distanza; là vi
era un orto in cui si trovava la tomba di Cristo.
Costantino
volle che questo sepolcro, testimone della Resurrezione, divenisse il fulcro
dell’intero complesso; l’edicola, cioè la camera in cui era stato deposto il
Cristo, era al centro di una struttura a rotonda, o meglio di tre quarti di
cerchio 4, detta l’Anastasis, il luogo della Risurrezione; alle sue spalle vi
era un colonnato semicircolare di trentacinque metri di diametro 5, che si
apriva su di un vasto triportico; seguiva una basilica a cinque navate,
chiamata Martyrium 6, che dava su di un cortile porticato a pianta
trapezoidale; questo, attraverso alcuni gradini, era collegato alla grande
strada colonnata, il cardo maximus, di Aelia Capitolina (fig. 1). Il complesso
fu consacrato intorno al 336; Cirillo, che in quel periodo era Vescovo di
Gerusalemme, affermò che quello era «il luogo più centrale della Terra»;
Gregorio di Nissa, vissuto tra il 335 e il 395, in alcune lettere parlò della
sua esperienza di pellegrino e disse che questa città era la capitale del mondo
cristiano.
Da
quegli anni Gerusalemme, una città della Palestina che in epoca romana sotto il
profilo politico svolgeva un ruolo marginale, divenne via via la Città Santa
per eccellenza, l’umbilicus del mondo cristiano di allora, il luogo dove la
città ideale, la Gerusalemme celeste, si immedesimava con quella reale, dove
l’una si rifletteva nell’altra, dove i pellegrini vivevano un’esperienza
mistica, totalizzante, ripercorrendo fisicamente e spiritualmente i luoghi in
cui la vicenda umana di Cristo si era svolta.
Tra
l’anno 325 e il 326 l’imperatrice Elena, su suggerimento del Vescovo Macario,
compì un pellegrinaggio in Palestina, per visitare i luoghi in cui era
trascorsa la vita di Cristo; anche per suo volere, fu costruita la basilica
della Natività di Betlemme, che poi, secondo quanto riferisce Eusebio di
Cesarea, fu consacrata alla sua presenza; secondo la tradizione, in questo il
periodo, in una grotta o in una cisterna situata sul fianco del Calvario, fu
trovata la Croce della Crocifissione.
Oltre
a Gerusalemme, nei luoghi in cui si erano verificati avvenimenti significativi
sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, sorsero costruzioni grandiose, di
tipo celebrativo, come quella di Mamre, dove Abramo aveva incontrato i tre
angeli, l’Eleolona sul Monte degli Ulivi, dove Cristo aveva ammaestrato i discepoli
e l’Omboon, il luogo dell’Ascensione. Le chiese dalle grandi dimensioni,
costruite sul modello delle basiliche romane, con le grandi navate e le absidi
spaziose, permettevano la realizzazione di ambienti vasti, atti a raccogliere
folle di pellegrini e a consentire nello stesso tempo un’agevole circolazione
attorno ai luoghi venerati. All’esterno erano scarne, ma all’interno
rifulgevano di marmi pregiati, di mosaici a fondo d’oro ed erano dotate di
suppellettili preziose, che destavano la meraviglia e l’ammirazione dei
visitatori.
I
pellegrinaggi ai Luoghi Santi, dopo gli interventi edilizi di Costantino e di
Elena, a Gerusalemme e nei luoghi evangelici, si intensificarono; fu potenziata
l’antica rete stradale e, nelle vicinanze delle basiliche, furono costruiti
degli Xenodochia 7, luoghi destinati ad ospitare i pellegrini che giungevano a
migliaia.
Nell’anno
333, un anonimo pellegrino, da Burdigala, l’odierna Bordeaux 8, percorrendo la
via Domizia, andò da Tolosa ad Arles, risalì le Alpi e passò per il Moncenisio;
percorse la pianura padana, da Torino ad Aquileia; di qui, con un lungo
percorso attraverso la penisola balcanica, giunse a Costantinopoli, per poi
dirigersi verso la Terra Santa. Visitò i Luoghi Santi, descrisse le basiliche
appena ultimate, notò che accanto all’Anastasis era stato costruito un
battistero, a cui venivano moltissimi catecumeni che preferivano farsi
battezzare qui, piuttosto che nella propria cattedrale. Ritornando in patria,
dopo essere approdato in Puglia, risalì la penisola italiana.
Circa
cinquant’anni dopo, Egeria 9, una pellegrina che proveniva dall’Occidente,
visitò la Terra Santa e compilò un “Diario di viaggio”, in cui descrisse i
luoghi visitati: nel complesso del S. Sepolcro, nell’angolo sud-est del portico
interno, vide la roccia del Golgota, sormontata da una croce e, nella parte
inferiore, una cappella sotterranea, in cui si trovava la reliquia della Croce.
Dai suoi appunti sappiamo che già in quel periodo, a differenza di quanto
succedeva in Occidente, dove, in preparazione della Pasqua, si celebrava solo
il Triduo, a Gerusalemme la Settimana Santa iniziava il sabato precedente la
Domenica delle Palme; era solennizzata ogni giorno con cerimonie, veglie e
processioni che andavano dall’Anastasis alla basilica dell’Eleolona,
all’Imboon; si dicevano Messe e si leggevano i passi dei Vangeli che narravano
la Passione di Cristo. Il giovedì si rievocava il processo di Pilato, il
venerdì si adorava la reliquia della Croce, il sabato, notava Egeria, si
celebravano le Vigilie come in Occidente; il giorno della Risurrezione si
concludeva con una stazione nel Cenacolo, durante la quale si commemorava
l’apparizione di Gesù risorto agli Apostoli; si celebrava anche l’ottava, che
si concludeva la domenica, quando si andava nel Cenacolo per ricordare
l’episodio dell’incredulità di San Tommaso.
Egeria
vide la sinagoga di Cafarnao e che sulla casa di Pietro, dove Gesù aveva
guarito il paralitico, era stata costruita una chiesa; un’altra sorgeva dove il
Signore aveva operato il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci;
lì vicino si venerava una pietra sulla quale erano stati posti i pani.
Nel
IV secolo vi furono molte persone che lasciarono Roma e si stabilirono in Terra
Santa per condurvi una vita ascetica; fra queste si ricordano Santa Melania
senior, una nobile vedova romana, che fondò un monastero sul Monte degli Ulivi,
il monaco Rufino di Aquileia e S. Girolamo; questi, partito per l’Oriente nel
387, fu raggiunto da Paola e dalla figlia Eustochio, due nobili romane
10; dopo aver pellegrinato in Terra Santa, si stabilirono a Betlemme, dove
fondarono due monasteri, uno maschile retto dal Santo e l’altro femminile
guidato da Paola e dalla figlia.
Nel
IV secolo si poteva viaggiare agevolmente in tutto l’impero romano, vi era una
fitta rete di strade, il cui percorso era scandito da mansiones e mutationes,
dove i viaggiatori potevano alloggiare e cambiare i cavalli; sulle coste vi
erano numerosi porti e la navigazione nel Mediterraneo era sicura; ma nel V
secolo, a causa del decadimento dell’impero romano e delle invasioni barbariche
che si riversarono soprattutto sui territori della parte occidentale
dell’impero, il potere centrale divenne pressoché nullo; le strade, rimaste
senza manutenzione, in certi tratti furono impraticabili, molti ponti
crollarono e scomparvero le mansiones, per cui i viaggi divennero problematici.
Nei secoli V e VI il flusso dei pellegrini verso la Terra Santa diminuì
notevolmente, ma non cessò del tutto: sappiamo che uno di questi, Antonino da
Piacenza, intorno all’anno 574, si recò a Gerusalemme e ci lasciò una memoria
del suo viaggio; nel monastero di Bobbio si trovano alcune ampolle palestinesi
che i pellegrini, dopo averle riempite di acqua del Giordano, portavano in
patria, come ricordo; nel museo del duomo di Monza ve ne sono due che avevano
contenuto qualche goccia dell’olio della lampada che ardeva nel Santo Sepolcro,
dono del Papa Gregorio Magno a Teodolinda 11, la regina dei Longobardi. Queste
ampolle portano l’effige del Salvatore che sovrasta quella dell’Anastasis, il
cui aspetto era perciò conosciuto in tutto il mondo cristiano, tanto è vero che
già nel periodo paleocristiano furono costruite chiese a pianta centrale,
intitolate al Santo Sepolcro, per ricordare il pellegrinaggio che era stato compiuto
o per testimoniare il desiderio di recarvisi.
Ad
uso dei pellegrini che provenivano dall’Oriente, intorno alla metà del secolo
VI, fu composto il celebre mosaico di Madaba, in Giordania; qui, sul pavimento
della chiesa di S. Giorgio, vi è una grande mappa, in parte conservata, di
Gerusalemme e del territorio circostante (fig. 2); la città è raffigurata a
volo d’uccello con tutti i suoi monumenti, sui quali spicca la cupola della
Rotonda dell’Anastasis.
[figura 2]
La
conquista islamica del VII secolo, rallentò notevolmente l’afflusso dei
pellegrini, che tuttavia, per lo spirito di tolleranza degli Arabi, non cessò
del tutto: non mancano le testimonianze scritte di pellegrinaggi compiuti in
questi primi secoli della dominazione islamica, come per esempio l’Itinerarium
Sancti Willibaldi, del 723-726, oppure l’Itinerarium Bernardi Monachi Franchi,
dell’87012; un aumento sensibile dei pellegrinaggi in Terra Santa si verificò a
partire dal X secolo, dopo le vittoriose imprese dell’imperatore Niceforo Foca,
che riconquistò Antiochia e, rendendo sicuro il tragitto attraverso l’Asia
Minore, permise la riapertura della strada via terra per Gerusalemme. Negli
stessi anni il duca Geza d’Ungheria si convertì al Cristianesimo, perciò le vie
lungo il Danubio furono più sicure; suo figlio Stefano favorì il sorgere di
ospizi per i pellegrini ed i viandanti; è di questi anni la fondazione del
monastero di Melk. Si ebbe così la ripresa dei pellegrinaggi via terra per la
Palestina, divenuti più sicuri e meno costosi di quelli via mare.
L’inizio
del secondo millennio fu caratterizzato da una prodigiosa fioritura della vita
spirituale e il pellegrinaggio ne fu una manifestazione; gli aspetti principali
che si notano sono l’Imitatio Christi ed il carattere penitenziale; le mete
spesso erano costituite da luoghi in cui si trovavano le reliquie di martiri e
di santi, dove era possibile lucrare indulgenze. I “luoghi santi” più venerati
della Cristianità, Gerusalemme, Roma e Santiago, divennero le mete sempre più
frequentate, dove si dirigevano le peregrintiones maiores. In una mappa del
XIII secolo è rappresentato l’insieme delle Terre allora conosciute:
Gerusalemme è al centro, cui seguono, verso occidente, Roma e la Galizia. Dante
Alighieri più volte, nelle sue opere, riflette sul pellegrinaggio, e la “Divina
Commedia” può essere intesa come un pellegrinaggio metaforico di redenzione che
avviene lungo le tre Cantiche.
Malgrado
le difficoltà insite nei lunghi viaggi in regioni sconosciute, vi erano
pellegrini che percorrevano grandissime distanze per arrivare al “santo luogo”,
come per esempio l’abate islandese Nikulas di Munkathvera, che dalla lontana
Islanda, venne a Roma e di qui proseguì per Gerusalemme; il suo pellegrinaggio
durò tre anni, dal 1151 al 1154.
A
Gerusalemme, per l’accoglienza ai pellegrini, erano in funzione degli ospitali
13: nell’anno 870 il monaco franco Bernardo fu accolto in quello voluto da
Carlo Magno; verso la metà del secolo XI alcuni mercanti di Amalfi, presso la
chiesa di santa Maria Latina, dove avevano il loro fondaco, diedero vita allo
spedale di S. Giovanni; questi ospitalieri seguivano la regola di S. Benedetto,
la cui norma numero 53 recita: «Hospes tamquam Christus» 14..
Nella
prima metà del secolo XI, S. Juan de Ortega, partendo dalla Spagna, intraprese
il viaggio per Gerusalemme via mare, ma fece naufragio; si salvò invocando S.
Nicola di Bari, e, ritornato in patria, fondò vari ospizi sulle vie di
pellegrinaggio, intitolandoli al santo che l’aveva protetto 15.
Durante
il dominio dei Fatimiti d’Egitto, il califfo al-Hakem perseguitò i cristiani,
ne danneggiò le chiese e nel 1009, dopo aver distrutto parte del Santo
Sepolcro, ne saccheggiò i tesori e le reliquie. Ci fu qualche decennio di
tregua, poi i Turchi Selgiucidi, dopo aver conquistato gran parte dell’Asia
Minore, invasero la Siria e la Palestina, distruggendo le chiese 16 e uccidendo
chi non si convertiva all’islamismo.
Questa
fu la principale causa dell’indizione della prima crociata, intesa come un
pellegrinaggio armato che aveva lo scopo di liberare la Terra Santa dal dominio
degli infedeli che profanavano il Santo Sepolcro e perseguitavano i cristiani.
A coloro che partivano alla volta dell’Oriente con la croce disegnata sul
petto, si assicurava che mediante questo pellegrinaggio faticoso e pericoloso
l’anima si sarebbe purificata dai peccati commessi.
Gerusalemme
fu conquistata nell’anno 1099 e sui luoghi sacri e sulle rovine degli antichi
santuari, furono costruite nuove basiliche.
Nel
periodo in cui i Crociati tennero la Palestina, vi fu un grande afflusso di
pellegrini; le Repubbliche marinare organizzavano dei viaggi che, con un
termine moderno, potremmo definire “tutto compreso”: le tariffe erano diverse a
seconda delle prestazioni offerte; la Repubblica di Venezia, dalla primavera
all’autunno, faceva partire molte navi che, dopo aver toccato vari porti delle
coste adriatiche, arrivavano ad Otranto; da qui la navigazione in mare aperto
fino ai porti di Acri o di Giaffa, poi si proseguiva a piedi verso la Città
Santa.
A
Gerusalemme, per accogliere il gran numero di pellegrini, aumentarono le
strutture ricettive ed assistenziali; l’antico ospizio amalfitano, divenuto
sede dell’Ordine ospitaliero di San Giovanni, assunse dimensioni eccezionali
per l’epoca: Giovanni di Würzburg 17, un pellegrino che lo visitò nel 1165,
constatò che vi erano ben duemila letti. L’Ordine, diffuso lungo le vie di
pellegrinaggio di tutta l’Europa, si dotò ben presto di un ordinamento che
costituirà il primo vero codice ospedaliero. Ancora a Gerusalemme, nel 1118,
per volere di Ugo di Payens e di otto cavalieri francesi, fu istituito l’Ordine
dei Cavalieri del Tempio 18, per combattere gli infedeli e per difendere dai
predoni i pellegrini che percorrevano la strada che andava dalla costa a
Gerusalemme; in pochi anni le case di accoglienza dei Templari furono presenti
in tutte le principali località di passaggio dei pellegrini.
Di
solito, tornando in patria, i pellegrini che erano stati in Terra Santa
portavano con sé una foglia della palma di Gerico, che costituiva il segno
dell’avvenuto pellegrinaggio; per questo: «chiamansi palmieri in quanto vanno
oltremare, là onde molte volte recano la palma», dirà Dante 19.
Questa
consuetudine si affermò decisivamente a partire dall’XI secolo e, secondo la
simbologia medievale, la palma fu considerata come l’emblema della vittoria
della fede sul peccato, così come era divenuta il simbolo del martirio; una
tappa obbligata era la sosta presso le rive del Giordano, dove si compiva il
lavacro, inteso come segno della rigenerazione interiore.
Per
le notevoli difficoltà del viaggio che implicava rischi, radicali cambiamenti
di clima, di vitto e di abitudini, non erano pochi i pellegrini che,
sopraffatti dalla fatica, dalle privazioni o dalle malattie, finivano i loro
giorni a Gerusalemme, nella ferma convinzione che i loro peccati sarebbero
stati cancellati e che avrebbero ottenuto la salvezza. Venivano sepolti nel
campo di Alcedama, non lontano dalla valle di Giosafat, dove, secondo la
Bibbia, sarebbe dovuto avvenire il Giudizio Universale.
Nel
1187 gli eserciti cristiani furono sconfitti dal sultano Salaheddin, che
sottrasse loro Gerusalemme e gran parte della Palestina; dichiarò proprietà
dello Stato tutte le chiese e le istituzioni ecclesiastiche 20; solo le
comunità orientali, con esclusione dei cattolici e dei grecoortodossi, perché
sudditi dell’imperatore di Costantinopoli, potevano officiare nelle chiese,
pagando però un forte contributo ai nuovi proprietari.
Le
crociate indette successivamente non poterono impedire che nel 1291 anche le
zone costiere fossero conquistate dal sultano Malek al-Ashraf.
Con
la partenza dei Cavalieri di San Giovanni e dei Templari, il pellegrinaggio in
Palestina divenne molto rischioso: coloro che vi si avventuravano, dopo aver
consegnato alle autorità, all’arrivo sulla costa, una moneta d’oro, il
“testatico”, nel tragitto verso la Città Santa subivano gli assalti dei predoni
e le molestie degli abitanti; tuttavia Gerusalemme, come si nota in questa
mappa del XIII secolo (fig. 3), era percepita come il centro della Terra, la
meta ideale, cui tendevano i Cristiani di quel tempo.
Nell’agosto
del 1219 San Francesco di Assisi, dopo aver tentato più volte di recarsi in
Palestina, riuscì ad approdare a Damietta; era spinto dal desiderio di visitare
il Santo Sepolcro e di convertire quelle popolazioni al Cristianesimo; fu
ricevuto dal sultano che gli diede un salvacondotto per visitare i Luoghi
Santi, ma gli fu impedito di fare opera di conversione.
I
Francescani, nel 1336, per interessamento del re di Napoli Roberto d’Angiò e
della moglie Sancia di Maiorca, poterono rientrare in Terra Santa come
rappresentanti dei cattolici e della Chiesa di Roma; si stabilirono nel
convento del Monte Sion, costruito accanto al Cenacolo, e poterono officiare
nel Santo Sepolcro con le altre comunità. Nel 1342, il Papa Clemente VI
ratificò il trapasso dei diritti sui santuari che i Reali di Napoli avevano
effettuato a favore dei Francescani; questo fu l’inizio giuridico della
Custodia di Terra Santa.
Con
la fine del Medio Evo, i pellegrinaggi si fecero sempre meno frequenti: gli
Stati che erano nati in Europa erano sempre più centralizzati e mal
sopportavano il passaggio di forestieri nei loro confini; anche la Chiesa, nel
periodo della Controriforma, temendo il diffondersi di eresie, avversò i
pellegrinaggi: “quimultum peregrinantur raro servantur”, si predicava.
Nel
1517, in Terra Santa, iniziò il dominio degli Ottomani, i quali, nel periodo
1634-36, abolirono i privilegi che i Francescani avevano sul Santo Sepolcro e
sulle altre chiese, per attribuirli ai cristiani greco-ortodossi.
Nonostante
le difficoltà, nei secoli successivi vi furono ancora dei pellegrini che
sfidarono i pericoli che comportavano i pellegrinaggi a Gerusalemme, ne è prova
la guida “Viaggio da Venetia al S. Sepolcro et al Monte Sinai” del francescano
Fra’ Noè, replicata per trecento anni e apprezzata sia dai pellegrini che da
coloro che non potendo mettersi in viaggio per il Santo Sepolcro, leggendo le
descrizioni dettagliate dei Luoghi Santi, percorrevano spiritualmente le
località in cui si era svolta la vita di Gesù e la meditavano 21.
Verso
la fine dell’Ottocento l’imperatore di Germania Guglielmo II concluse un
accordo con il sultano Abdul Hamid, in seguito al quale fu concesso, ai
cattolici tedeschi, di costruire la chiesa della “Dormizione”.
Dopo
la disgregazione dell’impero turco, avvenuta al termine della Seconda Guerra
Mondiale, la Società delle Nazioni affidò la Palestina, come “mandato”,
all’Inghilterra. Da allora i pellegrinaggi furono più agevoli e fu possibile
per i cristiani costruire delle chiese e riedificare quelle distrutte;
indagandone le fondamenta si è constatato che il sito di erezione e le
dimensioni corrispondevano a quanto descritto negli antichi itinerari.
Dalla
metà dell’Ottocento molti Ebrei affluirono in Palestina, causando tra loro e la
popolazione araba contrasti gravissimi, che nel 1948 sfociarono in un conflitto
arabo-ebraico; con l’armistizio di Rodi del 1949, la Palestina fu divisa in due
zone, l’una formò lo Stato d’Israele e l’altra passò sotto la sovranità della
Giordania; Gerusalemme era divisa in due parti, la città nuova sotto Israele e
la città vecchia sotto la Giordania; la Terra Santa era sottoposta a due
amministrazioni diverse: questo comportava dei disagi per i pellegrini, che,
per visitare i luoghi evangelici, dovevano attraversare più volte i confini dei
due Stati. La tregua non fu definitiva: nel giugno del 1965 e nell’ottobre del
1973 scoppiarono altre due guerre; durante la prima, la città di Gerusalemme fu
occupata interamente dagli israeliani. La situazione tra Israele e i Paesi
Arabi confinanti ancora oggi è fluida, minacciosa e senza vera soluzione perché
è rimasto irrisolto il problema dei palestinesi; tuttavia, se si eccettuano
questi periodi di guerra, il flusso dei pellegrini è notevole e sempre in
aumento: sono centinaia di migliaia quelli che, favoriti dai moderni mezzi di
trasporto, vi giungono da ogni parte del mondo.
I
Santuari del Santo Sepolcro e della Natività di Betlemme sono di comproprietà
delle tre comunità cristiane (cattolici latini, greco-ortodossi e armeni),
questo fatto era causa di attriti che si riflettevano negativamente sui
pellegrini, ma nel 1961 è stato stilato un accordo riguardo al diritto di
officiatura, agli orari delle funzioni ed ai restauri di queste Basiliche, che
ne permette una fruizione pacifica. Nel periodo successivo, ci furono due
pellegrinaggi straordinari: quello compiuto dal Papa Paolo VI, agli inizi
dell’anno 1964 e quello del Papa Giovanni Paolo II del marzo 2000.
…
Ora stanno i nostri piedi alle tue porte! (Salmo 191)
Negli
ultimi decenni del secolo scorso si è diffusa la cultura del pellegrinaggio a
piedi, si sono visti così migliaia di pellegrini percorrere a piedi il Camino
per Santiago di Compostela o la via Francigena verso Roma; per questo la
Confraternita di S. Jacopo di Perugia, in collaborazione con il Centro Italiano
di Studi Compostellani, ha promosso la realizzazione di una Guida pratica per
il percorso da S. Giovanni d’Acri (ora Akko) a Gerusalemme: è la via di Acri
che, dal 2007 ad oggi, ha incontrato il favore di molti pellegrini che l’hanno
percorsa a piedi. Vi sono dei limiti imposti dalla situazione politica e
militare della zona, ma i pellegrini sono rispettati ovunque. È indubbio che,
per esempio, percorrere a piedi i sentieri fra Nazaret e il monte Tabor, o le
strade sassose tra il lago di Tiberiade e Gerico, per poi affrontare la salita
a Gerusalemme, è molto più coinvolgente ed edificante di quanto non lo sia
facendosi trasportare da un autobus, ma solo alcuni lo possono realizzare 22.
Il
pellegrinaggio a Gerusalemme, è pratica fondamentale per la religiosità del pio
israelita, esperienza condivisa diverse volte da Gesù, peregrinatio maior per i
cristiani; non è solo la meta ad essere santa, lo è anche il viaggio, non
esclusivamente perché il cammino santifica il pellegrino ma perché è la terra
che si percorre ad essere santa. Per l’ebreo è la terra della Promessa, per il
cristiano la patria del Signore, per il musulmano suolo sacro legato al ricordo
dei Patriarchi, dei Profeti (tra cui Gesù) e dello stesso Mohammud.
Al
termine di questa esperienza cresce in tutti i partecipanti la consapevolezza
della più autentica natura di ogni pellegrinaggio, che è sempre rivolto
all’incontro con Colui che si è fatto ospite e pellegrino in mezzo a noi.
Graziella Bava
1 Terra Santa: espressione usata per la prima
volta dal Profeta Zaccaria, Zc 2, 16.
2
Eusebio fu Vescovo di Cesarea in Palestina, vissuto tra il 265 e il 340 circa,
scrisse la Storia Ecclesiastica, che va dagli inizi della Chiesa all’editto di
tolleranza; fu amico e biografo di Costantino; cfr. Eusebius, Life of
Constantine, a cura di A. Cameron e S. G. Hall, Oxford 1999.
3 Golgota in aramaico significa teschio,
kranion in greco, calvaria in latino.
4 Presso i Romani, gli edifici funerari a
pianta circolare, erano molto frequenti: si pensi alla tomba di Cecilia Metella
o al mausoleo di Adriano, ora Castel Sant’Angelo.
5 Questa struttura semicircolare aveva dodici
colonne, per ricordare gli Apostoli.
6 L’espressione martyrium fu usato per la
prima volta per questa costruzione.
7 Xenodochia, dal greco xénos, straniero,
forestiero, ospite.
8
Cfr. Itinerarium a Bordigala Hierolyman (a. 333), in Itinera et descriptiones
Terrae Sanctae. Itinera Latina bellis sacris anteriora (a cura di T. Tobler),
I, Genevae 1877, pp 3-25; con questo itinerario inizia la letteratura Odeporica
gerosolimitana (dalla parola greca ’odòs, strada, cammino). Nelle biblioteche
dei monasteri sono stati conservati i manoscritti contenenti i resoconti dei
pellegrinaggi che dovevano servire da guida per altri pellegrini; danno
informazioni preziose sulla Terra Santa e indicazioni topografiche sugli
itinerari.
9
Egeria o Etheria, forse era una monaca, che proveniva dalla Galizia o dalla
Gallia meridionale; ci è rimasto il suo diario di viaggio; cfr. P. Siniscalco,
L. Scarampi (a cura di): Egeria. Pellegrinaggio in Terra Santa, Roma, 1985.
10 Paola e la figlia, con altre matrone,
avevano fatto parte del cenacolo di spiritualità, diretto da S. Gerolamo; si
riunivano presso la domus di Marcella, sull’Aventino e alternavano letture
bibliche a meditazioni e a pratiche di pietà.
11 Teodolinda, moglie del re dei Longobardi
Ataulfo, verso la fine del VI secolo, aveva favorito la conversione del suo
popolo al cattolicesimo.
12 Cfr. Itinerarium sancti Willibaldi et
Itinerarium Bernardi Monachi Franci, in Itinera et descriptiones Terrae Sanctae
in T. Tobler (a cura di).
13 Ospizio, ospedale, spedale, dal lat. hospes,
straniero, ospite.
14 I loro motti erano: Obsequium pauperum e
Tuitio fidei; l’emblema era la croce a otto punte, a simboleggiare le otto beatitudini;
vicino al loro ospizio, costruirono una cappella, intitolandola a S. Giovanni
Battista, perché, oltre all’ospitalità ai pellegrini e alle cure agli infermi,
davano loro l’assistenza religiosa. Dopo la partenza dalla Palestina, si
fermarono a Rodi e divennero un ordine militare sovrano, perché indipendente
dalla Chiesa; a causa delle offensive dei Turchi, nel 1527, ripararono
nell’isola di Malta, concessa loro dall’imperatore Carlo V.
15
Vicino a Burgos, in Spagna, esiste l’ospizio fondato da S. Juan de Ortega; nel
periodo tra il 1833 e il 1834, il ministro Sabal, che era massone, ordinò
soppressione di tutti gli ospizi ed i conventi che divennero cave di pietre;
circa quaranta anni fa, l’ospizio di Burgos è stato ricostruito e recuperato.
16
Fu risparmiata unicamente la chiesa della Natività di Betlemme, perché sulla
facciata vi erano raffigurati i Magi che indossavano il costume persiano.
17 Giovanni di Würsburg, Descriptio Terrae
Sanctae, in T. Tobler (a cura di), Itinera, op. cit. pp 158-159
18 I
Templari, fu dato loro quel nome dal luogo della loro prima residenza, situata
sulla spianata del tempio di Salomone, ma si erano dati il nome di “Milites
Christi” perché, fin dall’origine il loro ordine aveva un carattere militare.
19 Dante, La Vita Nova, XL
20
Si spiega così il fatto che due famiglie musulmane, per privilegio passato di
generazione in generazione, abbiano ancora oggi le chiavi della Basilica del S.
Sepolcro e il diritto di aprirne e di chiudere le porte, e di riscuoterne i
tributi.
21
Il Centro Italiano di Studi Compostellani, nel 2008, in collaborazione con la
Confraternita di S. Jacopo, ha fatto stampare questa guida, in copia
anastatica.
22
Gruppi di confratelli della Confraternita di S. Jacopo, tra il 2006 ed il 2007,
hanno percorso a piedi i sentieri e le strade di campagna, tra Akko e
Gerusalemme per cercare la via ad sanctum sepulcrum, percorsa dagli antichi
pellegrini; dalla loro esperienza è nata la “Via di Acri”, una guida
scaricabile dal sito della Confraternita.
Un viale di Bardonecchia
ricorda Mario Capuccio,
ingegnere nella Belle Epoque
Curata da Franca Ceresa, nipote del celebre Carlo Angelo a cui si devono tanti progetti urbani per
la creazione di una Bardonecchia moderna e turistica dal 1905 al 1923, la ricca mostra workshop
“IL SOGNO LA NASCITA DI UN NUOVO BORGO” ha rievocato ....
riferimento (www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com)
Curata da Franca Ceresa, nipote del celebre Carlo Angelo a cui si devono tanti progetti urbani per
la creazione di una Bardonecchia moderna e turistica dal 1905 al 1923, la ricca mostra workshop
“IL SOGNO LA NASCITA DI UN NUOVO BORGO” ha rievocato ....
riferimento (www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com)
Maria Luisa Moncassoli Tibone
Notizie sulla Confraternita
del SS. Sacramento,
detta dei Penitenti Bianchi
I
documenti relativi alla Confraternita sono conservati nell’Archivio
Parrocchiale di Bardonecchia.
Le
notizie qui riferite sono desunte da lettere di don Gallasso, Parroco di
Bardonecchia dal 1900 al 1930, e da alcune sue note scritte sulle tabelle in
cui sono riportate le “pie fondazioni” a carico della Confraternita.
La
Confraternita risulta eretta nel 1629 con lo scopo di esercitare «la sua pia e
salutare azione circa il culto divino del SS.mo Sacramento, e della carità
cristiana di visitare i malati». Scopo principale della Confraternita era dunque
la preghiera ed, in particolare «il culto della SS.ma Eucaristia e tutto ciò
che è relativo a questo culto, cioè provvista di cera, nettezza dell’altare del
SS. Sacramento, ecc. ecc.». Non doveva comunque mancare l’impegno di ogni
confratello di soccorrere le persone inferme.
Annualmente
venivano eletti vari incarichi: rettori, vice-rettori, consiglieri, coristi cui
spettava il compito d’intonare i Salmi, lettori delle lezioni liturgiche,
portatori delle insegne durante le processioni, infermieri che dovevano
svolgere in modo particolare l’attività assistenziale presso gli ammalati.
I
confratelli si radunavano nella chiesa parrocchiale, rivestiti con un camice
bianco, tutte le domeniche e le festività per recitare il “Mattutino” e le
“Lodi” durante la prima Messa. Le altre ore dell’Ufficio erano recitate in modo
da non intralciare le altre funzioni. I membri della Confraternita erano tenuti
all’osservanza scrupolosa dei periodi di digiuno, in particolare durante la
Quaresima.
La
vigilia del giorno delle Ceneri, verso sera, i confratelli indossavano il loro
camice bianco e passavano di casa in casa per invitare al digiuno ed alla
penitenza. Analogamente la sera del 1º novembre, al tocco funebre delle campane
e con un lume in mano, battevano ad ogni porta dicendo: «Reveillez-vous, gens
qui dormez et priez pour vos frères trepassée».
Era
consuetudine la loro partecipazione ai funerali. Tuttavia questa pratica andò
affievolendosi nel tempo anche a causa del comportamento non molto edificante
dei confratelli: «... pochi son coloro che li fanno intervenire alle sepolture.
Continua l’abuso di far collette in chiesa in occasione delle sepolture quando
intervengono. C’era l’uso di dare dai parenti del defunto una colazione ai
confratelli che andavano a cantare l’uffizio nella casa del morto. Ora però
preferiscono dare ai predetti lire 5 oppure 6, che i confratelli sogliono
consumare in acquavite». La Confraternita disponeva di un piccolo patrimonio
derivante «... da somme legate per testamenti e donazioni per la celebrazione
di Messe in suffragio dell’anima dei leganti stessi...».
Oltre
alle funzioni funebri, era prevista «... una processione annuale da farsi al
Santuario di N. S. di Monserrato situato sulla montagna detta la Rhô,
processione stabilita dalla Confraternita stessa in seguito ad un voto fatto
nel 1630 per ottenere da Dio la cessazione della peste che in quell’anno aveva
fatto 793 vittime nella sola parrocchia di Bardonecchia. ... Detta funzione era
stabilita per il giorno successivo alla solennità della Pentecoste, ed in tal
giorno si partiva dalla chiesa in processione col concorso di tutti i membri
della Confraternita che erano oltre 150, e pressoché tutta la popolazione, per
recarsi al suddetto Santuario per adempiere il voto emesso dai loro antenati».
La
Confraternita continuò la sua attività regolare sino al 1891. Dopo tale data si
verificarono eventi che portarono all’intervento dell’autorità civile.
Dà
inizio alla vicenda il fatto che «... l’amministrazione venne nelle mani di
membri i quali, venendo meno al dovere di retti amministratori, ...» si
segnalarono per la «... cattiva amministrazione dei fondi stessi atteso che dal
1891 non venivano più soddisfatti i legati incombenti al patrimonio della
Confraternita. ... ».
Durante
la Visita Pastorale di S. E. Mons. Edoardo Rosaz, Vescovo di Susa, i
responsabili della Confraternita nel 1894 «... si rifiutarono di presentare i
conti della medesima, come già avevano fatto nella precedente Visita Pastorale
del maggio 1886. Mons. Vescovo fu indotto ad emettere un decreto di
scioglimento di detta amministrazione... Ma l’atto del Superiore Ecclesiastico
non conseguì il suo effetto per la caparbietà ed ostinatezza dei sopraricordati
Amministratori. Perciò il R. D. Gio. Batt. Tournoud interdisse loro di
funzionare in chiesa in qualunque modo. In effetti quando il sottoscritto prese
possesso di questa Parrocchia (8 luglio 1900) non trovò più vestigia alcuna
della Confraternita del SS. Sacramento».
Successivamente
gli amministratori tentarono di ripartirsi il capitale della Confraternita
costituito da titoli di Stato:
«Nel
1901, in occasione del cambio decennale dei titoli di rendita al portatore, mi
venne notificato da una persona degna di fiducia che i sopraricordati avevano
consegnato i due certificati appartenenti alla Confraternita per il capitale di
£ 2.000 al Sig. Ferrero Giuseppe affinché fossero rinnovati. Ciò fatto, i
sullodati si arrogarono il diritto di dividersi il capitale in 4 parti uguali,
cioè £ 500 caduno. ... In seguito a questo fatto, dopo avere riferito ogni cosa
al Superiore, il 10 dicembre 1901 invitai per lettera i sedicenti eredi della
Confraternita (come essi si venivano qualificando) a presentarsi in Parrocchia
per dare spiegazioni della loro amministrazione del patrimonio della
Confraternita. Si presentarono bensì, ma nulla valsero le esortazioni loro
fatte per indurli a presentare il libro della contabilità. Per tutta risposta
mi dissero, che avendo essi ricevuto, dai membri dell’Amm.ne precedente, un
conto irregolare, essi continuarono a seguire l’esempio dei loro predecessori,
e quindi (praensis verbis): “Avendo mangiato essi, abbiamo anche mangiato noi;
perciò ora non esiste più rendita di sorta, ad eccezione di alcune pezze di
terreno legate alla Confraternita che sono godute da noi stessi”.
Esaurito
inutilmente ogni modo possibile per convincerli ed indurli ad adempire il loro
sacrosanto dovere, mi rivolsi al maresciallo dei Carabinieri sig. Pesseni,
pregandolo di voler adoperarsi colla sua autorità per sistemare questo affare.
Ma neppure questo espediente riuscì a persuaderli ... nella presunzione che
questo denaro loro gli appartenesse andavano dicendo che erano tutti sotterfugi
e stratagemmi del Parroco il quale intendeva impossessarsi lui di tali rendite.
Di fronte a tanta cocciutaggine il maresciallo estese un verbale e li denunziò
al Procuratore del Re. Venne in seguito inviato sul posto, dal Prefetto di
Torino, il Ragioniere Matteini addetto alla sottoprefettura di Susa, il quale
si recò personalmente sul luogo. Appurato lo stato delle cose, dichiarò i
quattro sleali amministratori tenuti a pagare in solidum il capitale di cui si
avevano appropriati, colla rifusione dei relativi interessi con decorrenza dal
1891 fino al 1902 in ragione di £ 80 annue colle spese accessorie. Dal Notaio
Bermond di Oulx venne compilato l’atto pubblico, ed il capitale versato fu
rimesso nelle mani dell’Esattore ...
...
la popolazione stessa, così attenta e tenace nelle sue tradizioni ed anche nei
suoi diritti, ed in quello dei testatori cui molti hanno vincoli di parentela,
anche lontana, ... protestò vivamente contro gli ultimi quattro membri
dell’Amministrazione della Confraternita i quali con una condotta
inqualificabile avevano cercato d’appropriarsi il capitale delle somme legate,
procurando così l’inchiesta dell’Autorità tutoria. Difatti tale inchiesta fu
accolta con soddisfazione universale
della popolazione, colla ferma fiducia che l’Autorità Civile avrebbe senza
dubbio fatto rispettare la volontà dei loro antenati e dei loro congiunti
defunti, conservando le spese occorrenti per l’adempimento dei legati inerenti
alla Confraternita stessa».
A
questo punto sorsero due diverse interpretazioni del Decreto Vescovile. Secondo
il Parroco, erano revocate le cariche dell’amministrazione della Confraternita
nominando nuovi responsabili, che «... non poterono poi assumere il loro
uffizio, essendosi i membri della cessata Amministrazione rifiutati di
consegnare i libri di contabilità e relativi certificati di rendita ...».
Secondo la sottoprefettura, il Vescovo ne aveva stabilito lo scioglimento e
doveva essere applicata «... la legge sulle Confraternite e sulle Opere Pie
(che) concentra alle Congregazioni di Carità quelle opere di cui è cessato lo
scopo, ovvero che hanno per fine la beneficenza, la quale,
secondo la legge, deve essere esercitata dalle Congregazioni di Carità locali».
Ha
inizio così l’iter civile che si conclude quando «... per Regio Decreto 30
luglio 1905, su parere conforme dell’On. Consiglio di Stato fu disposta la trasformazione
a scopo di beneficenza della Confraternita dei Penitenti Bianchi o del SS.
Sacramento di Bardonecchia, ed il relativo patrimonio, con obbligo di
corrispondere annue £ 81 (ottantuno) al Parroco per il servizio di culto, fu
concentrato nella locale Congregazione di Carità» gestita dal Comune, «allo
scopo di soccorrere ed aiutare i malati poveri a domicilio e concorrere al
mantenimento di indigenti inabili al lavoro».
Guido Ambrois
I
documenti relativi alla Congregazione sono in fase di elaborazione e saranno
inseriti nel sito:
www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com
Io
vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana: una donna che fa
crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati,
i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno
servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità
nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso
alla pazienza; non solo il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze
della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno.
Questa è stata la santità dei miei genitori; di mio papà, di mia mamma; di mia
nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene.
PAPA FRANCESCO
(da “Intervista al Papa”, di P. Antonio
Spadaro, Civilà Cattolica, 19-8-2013)
Grandi artisti a Bardonecchia
Negli
archivi del Comune le tracce di quello che io ho sempre considerato un
avvenimento importante della seconda metà degli anni Sessanta sono piuttosto
scarse. Si tratta tuttavia di avvenimenti per me indimenticabili dal punto di
vista culturale.
Nel
diario di mia figlia, che allora aveva sei o sette anni, si possono leggere
frasi di questo tipo: «Ieri sera mia madre è andata a un concerto in chiesa, e
allora io sono andata a dormire nell’armadio (voleva parlare di un letto che
durante il giorno veniva ribaltato così da parere un armadio) dalla mia amica
Flavia al piano di sopra». Ricordo che Franca Rodda, la madre della bambina,
era amica della madre di Lessona, che in occasione dei concerti ospitava a casa
sua. L’acustica della chiesa di Sant’Ippolito, come a Bardonecchia sanno tutti,
è sempre stata ottima. Nella chiesa c’era un bellissimo pianoforte, e nella
bella casa antica che si apre sulla piazza passava l’estate una signora di
Genova, piccolina, che si chiamava Grosso. Anzi, contessa Grosso, mi pare. A
Genova era amica della famiglia Costa, che allora finanziava la Giovane
Orchestra Genovese, corrispondente, in quegli anni, a quella che per noi
torinesi è l’Unione Musicale. A lei, per le sue conoscenze nel campo, i Costa
affidavano la scelta degli artisti che sarebbero stati invitati a suonare a
Genova durante la stagione.
D’accordo
con monsignor Bellando, persona di grande cultura e sensibilità, la signora
Grosso organizzò per alcuni anni una serie di concerti estivi a cui
intervennero esecutori eccezionali, che allora erano all’inizio della carriera
e che in seguito suonavano nella stagione della Giovane Orchestra Genovese.
Fu
lì, ad esempio, che ascoltai per la prima volta un giovane Salvatore Accardo.
Per
il biglietto il prezzo era piuttosto basso, e all’ingresso della chiesa due
gemellini di otto o nove anni, figli della signora Grosso, distribuivano i
programmi. Ricordo di aver ascoltato lì anche il pianista Canino. Il grande
Askhenazy, poi, era addirittura amico personale della famiglia Grosso. Quando
avemmo la fortuna di ascoltarlo, alloggiava quindi da loro. Tornò qualche anno
dopo per presentare suo figlio, anche lui pianista.
Venne
la grande Maria Tipo, che in seguito tenne addirittura un corso, esibendo anche
i suoi allievi.
La
cosa andò avanti per qualche anno, e poi ebbe fine. [La stagione estiva dei
concerti, attualmente in collaborazione con il Comune di Bardonecchia, è
organizzata da “Musica d’estate”, del Conservatorio Musicale di Pinerolo
N.d.R.].
Venne
restaurato e inaugurato di nuovo il Palazzo delle Feste, in cui da allora si
tennero spettacoli, concerti e conferenze, ma io non ho mai dimenticato
l’emozione che mi diede allora in Sant’Ippolito l’ascolto di tanti straordinari
esecutori che disinteressatamente, o per amicizia, venivano a donarci
meravigliose emozioni.
Elena Cappellano
La devozione a Sant’Ippolito
- Per dire anche dopo e più lontano -
Un
tempo nel costruire un edificio, dopo aver orientato la struttura secondo i
punti carü dinali scelti, la prima pietra posta nelle fondamenta era la pietra
rivolta a est, segno propiziaü torio per l’inizio, il buongiorno, lo sviluppo
della “vita” È La Madre È.
Anche
il Santo del giorno di inizio dell’edificazione era spesso una scelta
propiziatoria e di preghiera nella fatica e nella riuscita dell’opera. Niente
veniva costruito senza la presenza divina. A noi oggi capire come fissare lo
sguardo sul progetto di “cambio di dedica”, al costrutto religioso della
Parrocchia di Bardonecchia. Da “Santa Maria ad lacum”, come prima devozione, a
S. Ippolito: scelto e discusso tra le pagine “della Storia e della Fede” tra
gli uomini del tempo e del luogo.
Le
violenze ereticali provenienti oltre frontiera, nell’anno 1584, avevano violato
la chiesa, proibendo il tempo della fede al popolo, sino ad arrivare ad
incendiarla. Di quegli anni è tuttora conservata l’immagine di “Maria seduta in
trono col figlio tra le braccia, San Giovanni e Madü dalena a fianco in difesa
e devozione”. Sulle ante del trittico da una parte San Giorgio protetü tore del
territorio dalle offese del “drago”, il male che non può essere ucciso, ma solo
fermato. Sull’anta opposta la figura del “Miles romano” che accorre con passo
veloce e sicuro. È la più antica rappresentazione, in questo territorio, di un
“legionario” romano in armi che dalle vette “accorre” in difesa di Cristo e
Maria, la prima testimonianza, qui affermata e fondata.
La
storia racconta che i “capi” delle legioni romane, prima dell’attacco ai
territori nemici, richiedevano ai propri legionari il rito del sacrificio a
Marte: dio della guerra, per ottenere la vitü toria. Ma nel passo del tempo,
secondo la tradizione, un’intera legione reclutata nella regione di Tebe in Egitto,
era stata decimata nel Vallese sotto l’imperatore Diocleziano, per essersi riü
fiutata al rito dedicato a Marte, nel nome di Cristo. Anche nelle Alpi Cozie,
tra queste montaü gne, la tradizione parla della stessa esperienza. Legionari
romani a cavallo, qui giunti per l’invasione dei sottostanti territori celtici,
avevano l’obbligo di sacrificare a Marte. Chi si rifiuü tava, preso e legato al
proprio cavallo, affrontava la condanna a morte. Così come il Cardinale
Dadaglio in una sua omelia del 13 agosto 1988 affermava nella nostra Parrocchia
di S. Ippolito.
“Il
sacrificio di Ippolito: l’uomo a cavallo” È Si narra di un primo e precristiano
Ippolito. Figlio di Teseo e dell’Amazzone Antiope, dotato di straordinaria
bellezza e castità, non era inü cline ad Afrodite dea dell’Amore ma verso Diana
dea della caccia. Di ritorno da una partita di caccia a cui aveva partecipato a
cavallo, Ippolito veniva ucciso. Una versione della storia narra fosse
celebrato anche in Italia, accanto a Diana, così come appare nelle pitture
pompeiane e romane. La sua bellezza era celebrata non solo in epoca antica ma
persino in epoca cristiana. Nello scorrere del tempo, giunti ormai nell’era
cristiana, si parla di un Sant’Ippolito martire di Antiochia, venerato il 30
gennaio. Il 13 agosto, invece, è la festa di un altro Sant’Ippolito, marü tire
di Roma. Convertito da San Lorenzo, di cui era stato guardia carceraria,
condannato a morte, verrà smembrato nella corsa di quattro cavalli ai quali era
stato legato. Nello stesso giorno Bardonecchia venera il “suo” Sant’Ippolito,
martire della Legione Tebea.
* * *
Sullo
sfondo del grande dipinto del 1600, posto sull’altare della chiesa di
Sant’Ippolito, è rappresentato il primo passo della “Storia” di questo
territorio e della sua “Fede”. Ai piedi della montagna si scorge l’antico borgo
di Bardonecchia, dal nome dei Bardi, antichi cantori celtici che dall’alto
delle vette annunciavano la prima luce del giorno. In valle il bosco creü
sciutoü là dove un tempo era esistito il lago deviato dai Saraceni. A galoppo,
attraverso la valle, l’apparire improvviso di un cavallo in corsa che dalla
cima delle montagne trascina un uomo dalle membra spezzate e insanguinate. È
Sant’Ippolito: primo testimone martire della fede cristiana del luogo.
* * *
Sant’Ippolito:
il cambio di dedica e il suo tempo È Quando nel 1806 si ebbe il crollo parziale
dell’antica chiesa dedicata a S. Maria, in considerazione della supplica del
Parroco don Giuseppe Maria Vachet, Carlo Felice di Savoia ne favoriva la
ricostruzione, che prese inizio nel 1828, per la cura della famiglia De Geneys.
L’opera verrà continuata nel periodo di Carlo Alberto di Savoia, “il re a
cavallo” nel dipinto del Vernet, oggi alla Pinacoteca di Torino, eroe
dell’indipendenza itaü liana nel tempo di Pio IX. Fu allora deciso che la nuova
chiesa parrocchiale di Bardonecchia veü nisse dedicata a Sant’Ippolito, il
Legionario romano martirizzato ad Aga uno nel Vallese che aveva fondato le basi
cristiane, nella donazione della propria vita in quel territorio.
Soltanto
nell’anno 1985, una rappresentazione scultorea di Sant’Ippolito veniva posta
sul fronte della chiesa, a lode e gloria della sua memoria storica e di fede.
Mentre sull’altro lato della facciata, in simmetria, veniva posta la figura
dedicata a San Giuseppe, come oggi posü siamo vedere, per iniziativa del
Parroco mons. Bellando.
Quale
il messaggio? Quale il rapporto tra due immagini così lontane e diverse nel
racü conto della loro vita, unita nella rappresentazione della fede?
A
noi capire come fissare l’invisibile progetto di una unione nel significato
storico di base. Giuseppe padre putativo di Gesù: in ebraico Jòsef, sintesi di
due parole Jéhowa, Dio, e Yasàf “aggiungere” nel significato di “Dio aggiunga”.
Secondo la Bibbia fu detto da Rachele, moglie di Giobbe, che nonostante fosse
sterile era riuscita grazie all’intervento divino ad avere un figlio.
Augurandosi di averne un secondo, esclamò “Dio ne aggiunga un altro” [Jéhowa
yasàf] in latino sarà detto Iosephus, sicché, nel Medioevo, nella parlata
popolare, diverrà Giuseppe.
Giuseppe,
lo sposo di Maria, col tempo diverrà Patrono della Chiesa universale.
Ecco
dunque: San Giuseppe è patrono della Chiesa universale. Sant’Ippolito è il
patrono di questa chiesa parrocchiale.
La
chiesa di Sant’Ippolito. Nel perdono delle offese, nel corpo a servizio del
luogo e della fede, del tempo del sacro, dell’inviolabilità, nell’ospitalità
dell’ascolto, nell’incontro. Nella traü smissione dei contenuti. “Sarai
appagato da ciò che hai”.
Giuliana Schlatter
Tela
dell’Ancona di S. Ippolito (part.).
Nello studio del dipinto, particolareggiato alla lente, sul cavallo non
appare l’imbrigliatura pettorale del tempo del dipinto, ma quella giugolare
dell’epoca romana. Nella perfetta rappresentazione del tempo del sacrificio da
parte dell’autore che ne precisa così straordinariamente il momento. Inoltre il
“vello maculato” del cavallo è rappresentato nell’intento di simboleggiare la
“macchia”, “la colpa” del condannato. Nel ritoccare il fondale del dipinto nel
verde del paesaggio al centro, è apparso alla lente lo stemma di Bardonecchia
sormontato da una corona affiancato da due lettere S. Una data "75” “85”
ed una firma Giov. RELAI...
Da Torino a Usseglio e a
Bangkok Cesare Ferro, pittore
Conferenza tenuta da Maria Luisa Moncassoli Tibone a Bardonecchia, presso il Palazzo delle Feste, il 10 agosto 2013
Riferimento (www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com)
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