08/09/14

L'angolo della Cultura (2013)



Feudalesimo a Bardonecchia e in Alta Valle di Susa:
fra vincoli di dipendenza e ricerca di autonomie

«... Dal campo inosservato uscii; l’orme ripresi / poco innanzi calcate, indi alla manca / piegai verso  quilone, e abbandonando / i battuti sentieri in una valle m’internai ... Qui nulla / traccia d’uomo apparia, solo foreste / d’intatti abeti, ignoti fiumi e valli / senza sentier: tutto tacea, null’altro / che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora / lo scrociar di torrenti, o l’improvviso stridir del falco ... andai così per tre giorni; / e sotto l’alte piante o nei burroni / posai tre notti ... Una ridente / speranza, all’alba, risvegliommi, e pieno di novello vigor la costa ascesi / ... il guardo lanciai nella valle, e vidi ... oh vidi / le tende d’Israello, i sospirati padiglion di Giacobbe: al suol prostrato, Dio ringraziai, li benedissi e scesi» (1)

Così il Diacono Martino, nell’Adelchi manzoniano, annuncia la scoperta del passaggio segreto che dalla Val Sangone avrebbe permesso ai Franchi di aggirare i Longobardi attestati alle Chiuse di San Michele in Val Susa, costringendoli a ripiegare su Torino e poi su Pavia dove sarebbero stati sconfitti nel 774 d.C. In questo modo, in Val Susa, iniziava compiutamente la penetrazione franca e con essa l’inserimento del modello amministrativo carolingio.
Tur d’Amun Bardonecchia.
Eliminate le sacche di resistenza longobarde, Carlo Magno cercò di ridare vigore alle zone conquistate e spesso devastate, senza per questo cancellare quanto fatto dai longobardi, tanto da assumere su di sé anche il titolo di Rex langobardorum. Le ampie circoscrizioni territoriali longobarde furono sostituite da quelle comitali franche che permettevano un controllo più capillare da parte dei conti, ovvero di coloro che svolgevano per il potere centrale il compito di funzionari regi. Il Piemonte venne diviso in circa quindici comitati, che non necessariamente corrispondevano a quindici conti, in quanto ogni funzionario poteva gestire più di un distretto. Il comitato di Torino includeva le terre comprese dal Po all’Orco alla Valle di Susa sino allo spartiacque alpino.
Nel 773, durante la spedizione dei Franchi contro i Longobardi, Carlo Magno venne munificamente ospitato presso l’abbazia della Novalesa e i monaci ebbero buon gioco nel rivendicare le terre dell’alta valle ed in particolare quelle di Bardonecchia appellandosi al fatto che esse appartenessero al nobile Abbone, rector della Moriana, appartenente all’antica aristocrazia gallo-romana, e fondatore dell’abbazia. Le concessioni di Carlo Magno a favore degli abati novalicensi vennero poi confermate nell’814 da Ludovico il Bonario e nell’845 da Lotario. Il reale controllo sulla valle di Bardonecchia resterà comunque labile anche se molti sono gli atti nei quali ai monaci è concesso di giudicare nelle cause civili gli abitanti di Oulx e Bardonecchia. Molti abitanti di quel territorio, pur lavorando per il potente monastero, erano uomini liberi e quindi nelle cause penali il foro competente sarebbe stato quello dei conti di Torino. Nella sostanza però gli abitanti della Valle di Susa spesso non riusciranno a mantenere la protezione della giustizia pubblica non potendo dimostrare con atti formali il proprio status di liberi, finendo quindi per essere assimilati a servi del monastero.
Lo strumento usato da Carlo Magno per gestire il suo ampio regno fu essenzialmente il feudalesimo, istituto che si reggeva essenzialmente su due momenti chiamati: omaggio e beneficio. L’omaggio era diventare “uomo di un altro uomo”, ovvero un subordinato, legato ad un signore da un giuramento di fedeltà militare, il quale, in cambio, riceveva un feudo, cioè delle terre in usufrutto vitalizio, ma non alienabili. Quindi è evidente che in tale contesto i conti e il loro entourage fossero prevalentemente franchi e questo determinò una non trascurabile migrazione di notabili transalpini verso il Piemonte e le nostre valli, cambiando in modo significativo le elitès sociali delle terre al di qua delle Alpi. Il Piemonte si arricchì di vaste aree demaniali carolinge, in parte destinate ad uso venatorio, ma nella maggior parte dei casi si trattava di terre, curtes, che quasi sempre comprendevano più curtis, ovvero di più aziende agrarie sparse facenti capo a più villaggi secondo lo schema di un tipico villaggio medievale, con il suo centro insediato (con case, orti e stalle), la fascia circostante di coltivo e quella, ancora più esterna, di pascoli o di boschi spesso di uso comune (2). Secondo qualche storico i moderni “usi civici” sulle aree comunali si potrebbero far risalire proprio a quel modello. Nella curtis convivevano uomini di diverse condizioni dai coloni liberi, ai servi in una condizione di semi-schiavitù, così come si univano sotto la mano di un unico “gestore” terre date in beneficio e aree possedute in piena proprietà (allodi). Per quanto concerne l’Alta Valle di Susa questa era parte della contea di Torino e almeno formalmente apparteneva all’abbazia della Novalesa dal 774, possesso poi confermato in epoca post-carolingia nei diplomi dell’814 e dell’845, nella sostanza si trattava di terre gestite da vari signori (3) in forma vassallatica con liberi e servi della gleba e la presenza di un Castrum Bardinum ubicabile probabilmente nella zona di Château Beaulard.
A partire dal X secolo le bande di pirati saraceni, provenienti dalla base di Frassineto in Provenza, scorazzarono per i passi alpini taglieggiando viaggiatori e le popolazioni locali, tanto che nel 906 la Valle di Susa fu letteralmente invasa e controllata per circa cinquant’anni. La potente abbazia della Novalesa venne abbandonata, i monaci si trasferirono a Breme nella Lomellina (4), e la Pieve di Oulx distrutta. A questo periodo una certa tradizione popolare vorrebbe far risalire la fondazione dell’insediamento di Rochemolles.
Al di là delle rielaborazioni popolari o erudite e della reale consistenza delle razzie piratesche, la presenza saracena contribuì a creare quel clima di incertezza e confusione che caratterizzò la fase post-carolingia. La fine del dominio saraceno prese il via dall’azione del franco Arduino, detto il Glabro, che dai comitati di Auriate e Torino lanciò la riconquista dei passi alpini, imponendo, anche in modo violento, il proprio dominio ai valligiani, tanto che nel Chronicon Novalicense è definito come un “lupo rapace”. Al fianco del Glabro si schierarono anche molti notabili franchi come il Conte di Albon e Witbaldo de Bardonnèche: i futuri fondatori delle signorie che troveremo nell’XI sec. nel territorio liberato (5).
Dai documenti esaminati sembrerebbe essere Witbaldo il signore dell’Alta Valle da Exilles a Bardonecchia.
La fase post-carolingia nell’area del nord-ovest della penisola fu inizialmente caratterizzata dallo strapotere del franco Anscario i cui possedimenti vennero però ben presto ripartiti fra quattro marchesi, e fra questi vi era anche Arduino il Glabro, i quali a causa dell’estrema debolezza del potere regio riuscirono anche con la violenza, con l’appropriazione indebita o clientelare ad ampliare i propri possedimenti. Non dobbiamo inoltre dimenticare che nel “sottobosco del potere” si muoveva un’ampia gamma di personaggi di rango minore ma dotati di ampi ed efficaci mezzi e legami tali da permettere loro di mettere le mani su vaste parti di terre demaniali o di ottenere immunità magari direttamente dal potere regio. In questo contesto sociale e politico quanto mai variegato, fluido e frammentato, le singole località del Piemonte venivano sempre più controllate dal proprietario di una curtis, meglio ancora se incasellata. Nel 1034 Olderico Manfredi trasmise alla figlia Adelaide la propria eredità facendo di lei una delle figure chiave della storia del Piemonte, e che grazie alla dote portata dal terzo marito di Adelaide Oddone, si arricchì di vasti possedimenti transalpini ma soprattutto del titolo di conti di Savoia, che permetterà ai discendenti di Adelaide di controllare non solo le terre d’oltralpe ma anche e soprattutto alcuni passi alpini occidentali e la “via francigena”.
Dal quadro sin qui delineato si vede quanto la famosa “piramide feudale” tanto cara ai manuali di storia medievale (sic!), sia quanto mai irreale e inapplicata in Italia e in Europa, se non nel cosiddetto “feudalesimo d’importazione”, ovvero quello inglese messo in atto da Guglielmo il Conquistatore dopo la vittoriosa battaglia di Hasting del 1054, e nell’Impero latino d’Oriente del 1204.
Certamente quello che valse come aggregante sociale furono il legame vassallatico, il vincolo personale e il giuramento di fedeltà fra i vari attori sociali, compresi quelli di carattere religioso, tutti intenti a rafforzare la propria posizione politica e patrimoniale.
Per quanto concerne la Valle di Susa possiamo dire che nell’XI secolo la Bassa Valle sino al forte di Exilles, la Valle Cenischia fosse sotto il controllo degli eredi di Adelaide, mentre i De Bardonnèche formalmente erano soggetti solo alla supremazia dell’impero e oltre al dominio della conca estendevano il loro controllo sino a Oulx, tanto che Ponche de Bardonnèche nel 1050 farà dono, alla nascente prevostura di Oulx, delle decime da lui possedute sulle chiese di San Lorenzo e Santa Maria.
Tramontato il potere di Adelaide e degli arduinici, i conti d’Albon iniziarono a premere sempre più per penetrare nell’Alta Valle arrivando ad arrogarsi, nel 1073, il diritto di poter effettuare davanti alla chiesa di San Lorenzo, nel giorno della festa del santo patrono, una fiera e poi nel 1155 a battere moneta a Cesana ed edificarvi un castello. Nel 1183 il Delfino si definì signore di Cesana, Oulx e Salbertrand e mirando ad estendere il dominio su Bardonecchia, concedeva, in modo illegittimo, ma come segno di potere, alla Prevostura di Oulx lo sfruttamento delle miniere della valle «della Dora dal colle della Rho a Exilles…» (6) e analogamente nel 1212 il conte Savoia di Torino dotava l’abbazia di San Giusto di Susa della giurisdizione su Bardonecchia (7).
In realtà nessuno di questi atti fu mai sostanzialmente adottato e i Signori di Bardonecchia cercarono di mantenere rapporti di amicizia con entrambi i pericolosi vicini, sino a quando nel 1282 il Delfino Jean concederà a Bonifacio di Bardonnêche in «aumento ai feudi da lui posseduti…» anche quello di Névache, divenendo però in questo modo vassallo a doppio titolo e quindi riconoscendo formalmente la signoria del Delfino anche su Bardonecchia. In pratica, anche se in i rapporti fra i Delfini e i Signori di Bardonecchia si svolgevano attraverso un lessico fatto di termini come “familiares o fidelitas” che alludevano più a un particolare legame di amicizia che a una sottomissione feudale, come spesso accadeva, anche per Bardonecchia il «gioco dei rapporti di forza faceva sì che un signore locale dai mezzi più modesti fosse costretto, prima o poi, a cedere alle pressioni d’un vicino più potente, riconoscendosi suo vassallo, e il diritto feudale offriva uno strumento duttile ed efficace per regolare giuridicamente questa subordinazione» (8). In seguito la penetrazione del potere delfinale a Bardonecchia fu ancora più profonda, infatti il Delfino acquisterà i diritti di Costant e Pierre di Bardonnêche, divenendo nel 1330 signore di Bardonecchia a doppio titolo di dominus maior ovvero di sovrano e di parerius ovvero di consignore (9).
Nonostante il rafforzamento del potere delfinale in atto in tutte le Valli del Brianzonese la conca di Bardonecchia, in virtù di una forte presenza dei “de Bardonisca/Bardonnêche”, si era a lungo sottratta ai legami di dipendenza verso il Delfino, ma nel 1330 per le capacità da parte del delfino Guigo VII di inserirsi nella “parieria” di Bardonecchia la situazione subì un notevole irrigidimento. La situazione peggiorò ulteriormente con le proteste e ribellioni del 1329-30 per le esazioni di oneri straordinari imposti alla comunità per far fronte agli impegni politicomilitari nei confronti delle pressioni sabaude. La rappresaglia della comunità bardonecchiese è interessante anche sul piano giuridico, in quanto “homines et populares de Bardonescha” fanno redigere da due notai locali le loro doglianze contro i “de Bardonisca” e il balivo del Brianzonese, tal Tisseto Roeri, i quali avevano avvallato le arbitrarie pretese dei signori a discapito delle popolazioni locali e di quanto convenuto nelle “consuetudines”. Lo scontro culminò in uno scontro armato nel Borgovecchio di Bardonecchia, fra gli abitanti e le milizie signorili. Il Delfino, impegnato anche in una guerra con i Savoia, cercò in breve di giungere a una pacificazione e grazie alla mediazione del prevosto di Oulx si giunse a una pacificazione fra gli abitanti delle parrocchie di Bardonecchia, Rochemolles e Beaulard (10). Il delfino Guigo VII, in qualità di “maior dominus” concesse agli “agricola e innobiles” delle tre parrocchie, una carta di franchigia dove si riconoscevano le precedenti consuetudini e il diritto ad essere giudicati in appello dal “iudex maior” di Briançon. Le franchigie vennero poi confermate nel 1336 dal delfino Umberto II mediante la corresponsione di una somma una tantum di 1.500 fiorini d’oro e una rendita annuale da ripartirsi fra tutti i consignori, di 1.200 lire tornesi (11).
Nel momento in cui vennero concesse le famose franchigie del 1343 con la nascita degli escarton, Bardonecchia rimase esclusa perché “godeva già di franchigie almeno equivalenti…” per accordi con i Signori locali (12). Soltanto nel 1369 le comunità della valle di Bardonecchia finirono con l’integrarsi nel sistema del processo di affrancamento e autonomie degli escarton. Da allora l’Alta Valle di Susa non presentò particolari cambiamenti (se si eccettua, durante il regno di Francesco I, un inasprimento della fiscalità con una graduale erosione delle autonomie brianzonesi) sino al trattato di Utrecth del 1713, nel quale all’articolo IV si contemplava da parte di entrambi i sovrani il rispetto di “consuetudini e privilegi” delle zone reciprocamente cedute. In realtà sappiamo che per le terre al di qua delle Alpi le “libertà brianzonesi” verranno ripristinate, almeno in via teorica, solo nel 1738 (13).

La Tur d’Amun insieme al castello del Bramafam (ad oggi distrutto) rappresentavano due opere di incastellamento del territorio ad opera dei Signori di Bardonecchia.

In ultimo credo che il termine “feudale” sia uno dei termini della Storia oggetto di molte interpretazioni contraddittorie, nonché di usi a volte anche piuttosto superficiali. Certo è indubbio che la società feudale fu quanto mai variegata «perché né tutte le signorie erano feudi, né tutti i feudi, principati e signorie…» 14. Una molteplicità di particolarismi e localismi, un complesso e intricato sistema di vincoli di dipendenza che va trattato con cautela e attenzione da parte dello studioso sia esso professionista o dilettante. In tale contesto l’Alta Valle di Susa e la conca di Bardonecchia rappresentano comunque se non un unicum, almeno un caso molto particolare, in parte ancora inesplorato, con una individualità giuridica, fiscale e linguistica davvero singolare che nel tempo ha fatto di queste terre alte trasfrontaliere, un modello originale di libertà collettive ed individuali e di capacità di usare in modo incisivo gli strumenti giuridici del tempo per far valere i propri diritti contro gli abusi signorili.
Roberto Borgis

1 A. MANZONI, Adelchi, atto II scena III)
2 G. SERGI, Villaggi e curtes come basi economico-territoriali per lo sviluppo del banno, in “Curtis e signoria rurale: interferenze fra due strutture medievali”, Torino, Scriptorium, 1993, pp. 7–9.
3   L. DES AMBROIS, Notice sur Bardonnêche, ed. orig. 1872, Trevi, 2013, pp. 6, 7.
4 G. TABACCO, Dalla Novalesa a S. Michele della Chiusa, in “Spiritualità e cultura nel Medioevo. Dodici percorsi nei territori del potere e della fede”, Napoli, 1990.
5   L. DES AMBROIS, Notes et souvenir inédits, ed. orig. 1901, Foligno, 2011, p. 151.
6   L. DES AMBROIS, Notice sur Bardonnêche, op. cit., p. 10.
7  Ibidem.
8   A. BARBERO, Storia del Piemonte, Torino, 2008, p.127.
9 L. DES AMBROIS, Notice sur Bardonnêche, op. cit., p. 18. Costant e Pierre di Bardonnêche riceveranno in cambio il feudo di Percy e Monestier nel territorio di Trièves e i loro discendenti otterranno il titolo di visconti di Trièves.
10   Interessante è notare che Beaulard, oggi sotto Oulx, allora fosse nella sfera politica di Bardonecchia.
11   L. PATRIA, L’alta valle della Dora Riparia dall’XI al XVIII secolo, Paolo Molteni, “San Restituto del “Gran Sauze” nel Delfinato al di qua dei monti”, Torino, 1996, pp. 57-60.
12 L. DES AMBROIS, Notice sur Bardonnêche, op. cit., p. 157.
13 Cfr. R. BORGIS, I 300 anni di Utrecht, in “La voce del Bardo”, Bardonecchia 2013, pp. 10.
14   M. BLOC, La società feudale, ed. orig. 1949, Torino, 1982, p. 4.

 Il pellegrinaggio a Gerusalemme
«Beato chi trova nel Signore la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggi (Salmo 83)

Fin dai primi tempi della diffusione del Cristianesimo, i fedeli desiderarono recarsi nei luoghi in cui si era svolta la vita di Gesù; ma nei primi tre secoli dell’Era Cristiana, a causa della forte opposizione dello Stato romano alla nuova religione, questa aspirazione non fu facilmente realizzabile; in particolare i viaggi in Terra Santa 1 erano molto rischiosi a causa delle frequenti rivolte degli Ebrei contro il dominio romano; durante la Guerra Giudaica (68-70 d.C.) e successivamente a causa della repressione seguita alla ribellione generale capeggiata da Bar Kochbà (132-35), una notevole parte della popolazione perì; sulla città di Gerusalemme, distrutta due volte, fu fondata Aelia Capitolina e sul Golgota 2 venne edificato un tempio dedicato a Giove. La regione divenne provincia imperiale, il nome di Judaea fu sostituito da quello di Palaestina, cioè terra dei Filistei, i secolari nemici d’Israele, che ne avevano abitato la zona sud-occidentale.
Questi tragici avvenimenti provocarono la riduzione e la dispersione del numero dei cristiani di Gerusalemme, ma la memoria dei luoghi e degli avvenimenti che riguardavano Gesù non andò perduta e il pellegrinaggio nei luoghi evangelici è testimoniato, seppure in casi isolati, già a partire dal II secolo: Eusebio da Cesarea 3, nella sua Historia Ecclesiastica, cita il Vescovo e martire Melitone di Sardi, il quale, come attesta un frammento delle sue Ecloghe, compì questo viaggio verso l’anno 180; intorno alla metà del III secolo, anche Pionio, Vescovo di Smirne, poi martirizzato sotto Decio, pellegrinò in questi luoghi. Con l’Editto di Milano del 313, il Cristianesimo divenne religio licita e i cristiani poterono praticare apertamente il loro culto. Costantino promulgò vari provvedimenti in loro favore e, a Roma e nella parte occidentale dell’impero, fece costruire numerose basiliche adatte allo svolgimento della liturgia cristiana. Non egualmente avvenne nella parte orientale dell’impero, dove il suo collega Licinio, verso il 318, iniziò a vessare i cristiani e a distruggerne le chiese; dopo la sua sconfitta, avvenuta nel 324, Costantino ebbe il potere anche sui territori orientali, sui quali estese la liceità della religione cristiana. L’imperatore decise ben presto di onorare i Luoghi Santi con la costruzione di basiliche che ricordassero i momenti salienti della vita di Cristo: il suo progetto edilizio interessò innanzitutto il Golgota, il cuore della cristianità: si trattava di portare alla luce la tomba scavata nella roccia, di proprietà di Giuseppe di Arimatea, obliterata in seguito ai lavori per la costruzione, al tempo di Adriano, del Capitolium della nuova città. La lettera di Costantino a Macario, Vescovo di Gerusalemme, dal 314 al 333, riportata da Eusebio di Cesarea nella “Vita di Costantino, III, 30-32”, attesta il desiderio dell’imperatore di far edificare «… una basilica migliore di tutte le altre, superiore a tutti i monumenti più belli della città…». Con gli stessi criteri archeologici di oggi, furono distrutti i resti del Capitolium, ne furono trasportati lontano i detriti, e si scavò in profondità per riportare alla luce il sepolcro in cui il corpo di Cristo era stato deposto. Come attestano le indagini compiute sul sito dallo studioso padre Corbo, c’è una corrispondenza tra le indicazioni di carattere topografico espresse dai Vangeli e le risultanze delle recenti indagini archeologiche: effettivamente il Calvario era situato all’esterno della città antica, ma a breve distanza; là vi era un orto in cui si trovava la tomba di Cristo.
Costantino volle che questo sepolcro, testimone della Resurrezione, divenisse il fulcro dell’intero complesso; l’edicola, cioè la camera in cui era stato deposto il Cristo, era al centro di una struttura a rotonda, o meglio di tre quarti di cerchio 4, detta l’Anastasis, il luogo della Risurrezione; alle sue spalle vi era un colonnato semicircolare di trentacinque metri di diametro 5, che si apriva su di un vasto triportico; seguiva una basilica a cinque navate, chiamata Martyrium 6, che dava su di un cortile porticato a pianta trapezoidale; questo, attraverso alcuni gradini, era collegato alla grande strada colonnata, il cardo maximus, di Aelia Capitolina (fig. 1). Il complesso fu consacrato intorno al 336; Cirillo, che in quel periodo era Vescovo di Gerusalemme, affermò che quello era «il luogo più centrale della Terra»; Gregorio di Nissa, vissuto tra il 335 e il 395, in alcune lettere parlò della sua esperienza di pellegrino e disse che questa città era la capitale del mondo cristiano.
Da quegli anni Gerusalemme, una città della Palestina che in epoca romana sotto il profilo politico svolgeva un ruolo marginale, divenne via via la Città Santa per eccellenza, l’umbilicus del mondo cristiano di allora, il luogo dove la città ideale, la Gerusalemme celeste, si immedesimava con quella reale, dove l’una si rifletteva nell’altra, dove i pellegrini vivevano un’esperienza mistica, totalizzante, ripercorrendo fisicamente e spiritualmente i luoghi in cui la vicenda umana di Cristo si era svolta.
Tra l’anno 325 e il 326 l’imperatrice Elena, su suggerimento del Vescovo Macario, compì un pellegrinaggio in Palestina, per visitare i luoghi in cui era trascorsa la vita di Cristo; anche per suo volere, fu costruita la basilica della Natività di Betlemme, che poi, secondo quanto riferisce Eusebio di Cesarea, fu consacrata alla sua presenza; secondo la tradizione, in questo il periodo, in una grotta o in una cisterna situata sul fianco del Calvario, fu trovata la Croce della Crocifissione.
Oltre a Gerusalemme, nei luoghi in cui si erano verificati avvenimenti significativi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, sorsero costruzioni grandiose, di tipo celebrativo, come quella di Mamre, dove Abramo aveva incontrato i tre angeli, l’Eleolona sul Monte degli Ulivi, dove Cristo aveva ammaestrato i discepoli e l’Omboon, il luogo dell’Ascensione. Le chiese dalle grandi dimensioni, costruite sul modello delle basiliche romane, con le grandi navate e le absidi spaziose, permettevano la realizzazione di ambienti vasti, atti a raccogliere folle di pellegrini e a consentire nello stesso tempo un’agevole circolazione attorno ai luoghi venerati. All’esterno erano scarne, ma all’interno rifulgevano di marmi pregiati, di mosaici a fondo d’oro ed erano dotate di suppellettili preziose, che destavano la meraviglia e l’ammirazione dei visitatori.
I pellegrinaggi ai Luoghi Santi, dopo gli interventi edilizi di Costantino e di Elena, a Gerusalemme e nei luoghi evangelici, si intensificarono; fu potenziata l’antica rete stradale e, nelle vicinanze delle basiliche, furono costruiti degli Xenodochia 7, luoghi destinati ad ospitare i pellegrini che giungevano a migliaia.
Nell’anno 333, un anonimo pellegrino, da Burdigala, l’odierna Bordeaux 8, percorrendo la via Domizia, andò da Tolosa ad Arles, risalì le Alpi e passò per il Moncenisio; percorse la pianura padana, da Torino ad Aquileia; di qui, con un lungo percorso attraverso la penisola balcanica, giunse a Costantinopoli, per poi dirigersi verso la Terra Santa. Visitò i Luoghi Santi, descrisse le basiliche appena ultimate, notò che accanto all’Anastasis era stato costruito un battistero, a cui venivano moltissimi catecumeni che preferivano farsi battezzare qui, piuttosto che nella propria cattedrale. Ritornando in patria, dopo essere approdato in Puglia, risalì la penisola italiana.
Circa cinquant’anni dopo, Egeria 9, una pellegrina che proveniva dall’Occidente, visitò la Terra Santa e compilò un “Diario di viaggio”, in cui descrisse i luoghi visitati: nel complesso del S. Sepolcro, nell’angolo sud-est del portico interno, vide la roccia del Golgota, sormontata da una croce e, nella parte inferiore, una cappella sotterranea, in cui si trovava la reliquia della Croce. Dai suoi appunti sappiamo che già in quel periodo, a differenza di quanto succedeva in Occidente, dove, in preparazione della Pasqua, si celebrava solo il Triduo, a Gerusalemme la Settimana Santa iniziava il sabato precedente la Domenica delle Palme; era solennizzata ogni giorno con cerimonie, veglie e processioni che andavano dall’Anastasis alla basilica dell’Eleolona, all’Imboon; si dicevano Messe e si leggevano i passi dei Vangeli che narravano la Passione di Cristo. Il giovedì si rievocava il processo di Pilato, il venerdì si adorava la reliquia della Croce, il sabato, notava Egeria, si celebravano le Vigilie come in Occidente; il giorno della Risurrezione si concludeva con una stazione nel Cenacolo, durante la quale si commemorava l’apparizione di Gesù risorto agli Apostoli; si celebrava anche l’ottava, che si concludeva la domenica, quando si andava nel Cenacolo per ricordare l’episodio dell’incredulità di San Tommaso.
Egeria vide la sinagoga di Cafarnao e che sulla casa di Pietro, dove Gesù aveva guarito il paralitico, era stata costruita una chiesa; un’altra sorgeva dove il Signore aveva operato il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci; lì vicino si venerava una pietra sulla quale erano stati posti i pani.
Nel IV secolo vi furono molte persone che lasciarono Roma e si stabilirono in Terra Santa per condurvi una vita ascetica; fra queste si ricordano Santa Melania senior, una nobile vedova romana, che fondò un monastero sul Monte degli Ulivi, il monaco Rufino di Aquileia e S. Girolamo; questi, partito per l’Oriente nel 387, fu raggiunto da Paola e dalla figlia Eustochio, due nobili romane 10; dopo aver pellegrinato in Terra Santa, si stabilirono a Betlemme, dove fondarono due monasteri, uno maschile retto dal Santo e l’altro femminile guidato da Paola e dalla figlia.
Nel IV secolo si poteva viaggiare agevolmente in tutto l’impero romano, vi era una fitta rete di strade, il cui percorso era scandito da mansiones e mutationes, dove i viaggiatori potevano alloggiare e cambiare i cavalli; sulle coste vi erano numerosi porti e la navigazione nel Mediterraneo era sicura; ma nel V secolo, a causa del decadimento dell’impero romano e delle invasioni barbariche che si riversarono soprattutto sui territori della parte occidentale dell’impero, il potere centrale divenne pressoché nullo; le strade, rimaste senza manutenzione, in certi tratti furono impraticabili, molti ponti crollarono e scomparvero le mansiones, per cui i viaggi divennero problematici. Nei secoli V e VI il flusso dei pellegrini verso la Terra Santa diminuì notevolmente, ma non cessò del tutto: sappiamo che uno di questi, Antonino da Piacenza, intorno all’anno 574, si recò a Gerusalemme e ci lasciò una memoria del suo viaggio; nel monastero di Bobbio si trovano alcune ampolle palestinesi che i pellegrini, dopo averle riempite di acqua del Giordano, portavano in patria, come ricordo; nel museo del duomo di Monza ve ne sono due che avevano contenuto qualche goccia dell’olio della lampada che ardeva nel Santo Sepolcro, dono del Papa Gregorio Magno a Teodolinda 11, la regina dei Longobardi. Queste ampolle portano l’effige del Salvatore che sovrasta quella dell’Anastasis, il cui aspetto era perciò conosciuto in tutto il mondo cristiano, tanto è vero che già nel periodo paleocristiano furono costruite chiese a pianta centrale, intitolate al Santo Sepolcro, per ricordare il pellegrinaggio che era stato compiuto o per testimoniare il desiderio di recarvisi.
Ad uso dei pellegrini che provenivano dall’Oriente, intorno alla metà del secolo VI, fu composto il celebre mosaico di Madaba, in Giordania; qui, sul pavimento della chiesa di S. Giorgio, vi è una grande mappa, in parte conservata, di Gerusalemme e del territorio circostante (fig. 2); la città è raffigurata a volo d’uccello con tutti i suoi monumenti, sui quali spicca la cupola  della  Rotonda  dell’Anastasis.

[figura 2]

La conquista islamica del VII secolo, rallentò notevolmente l’afflusso dei pellegrini, che tuttavia, per lo spirito di tolleranza degli Arabi, non cessò del tutto: non mancano le testimonianze scritte di pellegrinaggi compiuti in questi primi secoli della dominazione islamica, come per esempio l’Itinerarium Sancti Willibaldi, del 723-726, oppure l’Itinerarium Bernardi Monachi Franchi, dell’87012; un aumento sensibile dei pellegrinaggi in Terra Santa si verificò a partire dal X secolo, dopo le vittoriose imprese dell’imperatore Niceforo Foca, che riconquistò Antiochia e, rendendo sicuro il tragitto attraverso l’Asia Minore, permise la riapertura della strada via terra per Gerusalemme. Negli stessi anni il duca Geza d’Ungheria si convertì al Cristianesimo, perciò le vie lungo il Danubio furono più sicure; suo figlio Stefano favorì il sorgere di ospizi per i pellegrini ed i viandanti; è di questi anni la fondazione del monastero di Melk. Si ebbe così la ripresa dei pellegrinaggi via terra per la Palestina, divenuti più sicuri e meno costosi di quelli via mare.
L’inizio del secondo millennio fu caratterizzato da una prodigiosa fioritura della vita spirituale e il pellegrinaggio ne fu una manifestazione; gli aspetti principali che si notano sono l’Imitatio Christi ed il carattere penitenziale; le mete spesso erano costituite da luoghi in cui si trovavano le reliquie di martiri e di santi, dove era possibile lucrare indulgenze. I “luoghi santi” più venerati della Cristianità, Gerusalemme, Roma e Santiago, divennero le mete sempre più frequentate, dove si dirigevano le peregrintiones maiores. In una mappa del XIII secolo è rappresentato l’insieme delle Terre allora conosciute: Gerusalemme è al centro, cui seguono, verso occidente, Roma e la Galizia. Dante Alighieri più volte, nelle sue opere, riflette sul pellegrinaggio, e la “Divina Commedia” può essere intesa come un pellegrinaggio metaforico di redenzione che avviene lungo le tre Cantiche.
Malgrado le difficoltà insite nei lunghi viaggi in regioni sconosciute, vi erano pellegrini che percorrevano grandissime distanze per arrivare al “santo luogo”, come per esempio l’abate islandese Nikulas di Munkathvera, che dalla lontana Islanda, venne a Roma e di qui proseguì per Gerusalemme; il suo pellegrinaggio durò tre anni, dal 1151 al 1154.
A Gerusalemme, per l’accoglienza ai pellegrini, erano in funzione degli ospitali 13: nell’anno 870 il monaco franco Bernardo fu accolto in quello voluto da Carlo Magno; verso la metà del secolo XI alcuni mercanti di Amalfi, presso la chiesa di santa Maria Latina, dove avevano il loro fondaco, diedero vita allo spedale di S. Giovanni; questi ospitalieri seguivano la regola di S. Benedetto, la cui norma numero 53 recita: «Hospes tamquam Christus» 14..
Nella prima metà del secolo XI, S. Juan de Ortega, partendo dalla Spagna, intraprese il viaggio per Gerusalemme via mare, ma fece naufragio; si salvò invocando S. Nicola di Bari, e, ritornato in patria, fondò vari ospizi sulle vie di pellegrinaggio, intitolandoli al santo che l’aveva protetto 15.
Durante il dominio dei Fatimiti d’Egitto, il califfo al-Hakem perseguitò i cristiani, ne danneggiò le chiese e nel 1009, dopo aver distrutto parte del Santo Sepolcro, ne saccheggiò i tesori e le reliquie. Ci fu qualche decennio di tregua, poi i Turchi Selgiucidi, dopo aver conquistato gran parte dell’Asia Minore, invasero la Siria e la Palestina, distruggendo le chiese 16 e uccidendo chi non si convertiva all’islamismo.
Questa fu la principale causa dell’indizione della prima crociata, intesa come un pellegrinaggio armato che aveva lo scopo di liberare la Terra Santa dal dominio degli infedeli che profanavano il Santo Sepolcro e perseguitavano i cristiani. A coloro che partivano alla volta dell’Oriente con la croce disegnata sul petto, si assicurava che mediante questo pellegrinaggio faticoso e pericoloso l’anima si sarebbe purificata dai peccati commessi.
Gerusalemme fu conquistata nell’anno 1099 e sui luoghi sacri e sulle rovine degli antichi santuari, furono costruite nuove basiliche.
Nel periodo in cui i Crociati tennero la Palestina, vi fu un grande afflusso di pellegrini; le Repubbliche marinare organizzavano dei viaggi che, con un termine moderno, potremmo definire “tutto compreso”: le tariffe erano diverse a seconda delle prestazioni offerte; la Repubblica di Venezia, dalla primavera all’autunno, faceva partire molte navi che, dopo aver toccato vari porti delle coste adriatiche, arrivavano ad Otranto; da qui la navigazione in mare aperto fino ai porti di Acri o di Giaffa, poi si proseguiva a piedi verso la Città Santa.
A Gerusalemme, per accogliere il gran numero di pellegrini, aumentarono le strutture ricettive ed assistenziali; l’antico ospizio amalfitano, divenuto sede dell’Ordine ospitaliero di San Giovanni, assunse dimensioni eccezionali per l’epoca: Giovanni di Würzburg 17, un pellegrino che lo visitò nel 1165, constatò che vi erano ben duemila letti. L’Ordine, diffuso lungo le vie di pellegrinaggio di tutta l’Europa, si dotò ben presto di un ordinamento che costituirà il primo vero codice ospedaliero. Ancora a Gerusalemme, nel 1118, per volere di Ugo di Payens e di otto cavalieri francesi, fu istituito l’Ordine dei Cavalieri del Tempio 18, per combattere gli infedeli e per difendere dai predoni i pellegrini che percorrevano la strada che andava dalla costa a Gerusalemme; in pochi anni le case di accoglienza dei Templari furono presenti in tutte le principali località di passaggio dei pellegrini.
Di solito, tornando in patria, i pellegrini che erano stati in Terra Santa portavano con sé una foglia della palma di Gerico, che costituiva il segno dell’avvenuto pellegrinaggio; per questo: «chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma», dirà Dante 19.
Questa consuetudine si affermò decisivamente a partire dall’XI secolo e, secondo la simbologia medievale, la palma fu considerata come l’emblema della vittoria della fede sul peccato, così come era divenuta il simbolo del martirio; una tappa obbligata era la sosta presso le rive del Giordano, dove si compiva il lavacro, inteso come segno della rigenerazione interiore.
Per le notevoli difficoltà del viaggio che implicava rischi, radicali cambiamenti di clima, di vitto e di abitudini, non erano pochi i pellegrini che, sopraffatti dalla fatica, dalle privazioni o dalle malattie, finivano i loro giorni a Gerusalemme, nella ferma convinzione che i loro peccati sarebbero stati cancellati e che avrebbero ottenuto la salvezza. Venivano sepolti nel campo di Alcedama, non lontano dalla valle di Giosafat, dove, secondo la Bibbia, sarebbe dovuto avvenire il Giudizio Universale.
Nel 1187 gli eserciti cristiani furono sconfitti dal sultano Salaheddin, che sottrasse loro Gerusalemme e gran parte della Palestina; dichiarò proprietà dello Stato tutte le chiese e le istituzioni ecclesiastiche 20; solo le comunità orientali, con esclusione dei cattolici e dei grecoortodossi, perché sudditi dell’imperatore di Costantinopoli, potevano officiare nelle chiese, pagando però un forte contributo ai nuovi proprietari.
Le crociate indette successivamente non poterono impedire che nel 1291 anche le zone costiere fossero conquistate dal sultano Malek al-Ashraf.
Con la partenza dei Cavalieri di San Giovanni e dei Templari, il pellegrinaggio in Palestina divenne molto rischioso: coloro che vi si avventuravano, dopo aver consegnato alle autorità, all’arrivo sulla costa, una moneta d’oro, il “testatico”, nel tragitto verso la Città Santa subivano gli assalti dei predoni e le molestie degli abitanti; tuttavia Gerusalemme, come si nota in questa mappa del XIII secolo (fig. 3), era percepita come il centro della Terra, la meta ideale, cui tendevano i Cristiani di quel tempo.
Nell’agosto del 1219 San Francesco di Assisi, dopo aver tentato più volte di recarsi in Palestina, riuscì ad approdare a Damietta; era spinto dal desiderio di visitare il Santo Sepolcro e di convertire quelle popolazioni al Cristianesimo; fu ricevuto dal sultano che gli diede un salvacondotto per visitare i Luoghi Santi, ma gli fu impedito di fare opera di conversione.
I Francescani, nel 1336, per interessamento del re di Napoli Roberto d’Angiò e della moglie Sancia di Maiorca, poterono rientrare in Terra Santa come rappresentanti dei cattolici e della Chiesa di Roma; si stabilirono nel convento del Monte Sion, costruito accanto al Cenacolo, e poterono officiare nel Santo Sepolcro con le altre comunità. Nel 1342, il Papa Clemente VI ratificò il trapasso dei diritti sui santuari che i Reali di Napoli avevano effettuato a favore dei Francescani; questo fu l’inizio giuridico della Custodia di Terra Santa.
Con la fine del Medio Evo, i pellegrinaggi si fecero sempre meno frequenti: gli Stati che erano nati in Europa erano sempre più centralizzati e mal sopportavano il passaggio di forestieri nei loro confini; anche la Chiesa, nel periodo della Controriforma, temendo il diffondersi di eresie, avversò i pellegrinaggi: “quimultum peregrinantur raro servantur”, si predicava.
Nel 1517, in Terra Santa, iniziò il dominio degli Ottomani, i quali, nel periodo 1634-36, abolirono i privilegi che i Francescani avevano sul Santo Sepolcro e sulle altre chiese, per attribuirli ai cristiani greco-ortodossi.
Nonostante le difficoltà, nei secoli successivi vi furono ancora dei pellegrini che sfidarono i pericoli che comportavano i pellegrinaggi a Gerusalemme, ne è prova la guida “Viaggio da Venetia al S. Sepolcro et al Monte Sinai” del francescano Fra’ Noè, replicata per trecento anni e apprezzata sia dai pellegrini che da coloro che non potendo mettersi in viaggio per il Santo Sepolcro, leggendo le descrizioni dettagliate dei Luoghi Santi, percorrevano spiritualmente le località in cui si era svolta la vita di Gesù e la meditavano 21.
Verso la fine dell’Ottocento l’imperatore di Germania Guglielmo II concluse un accordo con il sultano Abdul Hamid, in seguito al quale fu concesso, ai cattolici tedeschi, di costruire la chiesa della “Dormizione”.
Dopo la disgregazione dell’impero turco, avvenuta al termine della Seconda Guerra Mondiale, la Società delle Nazioni affidò la Palestina, come “mandato”, all’Inghilterra. Da allora i pellegrinaggi furono più agevoli e fu possibile per i cristiani costruire delle chiese e riedificare quelle distrutte; indagandone le fondamenta si è constatato che il sito di erezione e le dimensioni corrispondevano a quanto descritto negli antichi itinerari.
Dalla metà dell’Ottocento molti Ebrei affluirono in Palestina, causando tra loro e la popolazione araba contrasti gravissimi, che nel 1948 sfociarono in un conflitto arabo-ebraico; con l’armistizio di Rodi del 1949, la Palestina fu divisa in due zone, l’una formò lo Stato d’Israele e l’altra passò sotto la sovranità della Giordania; Gerusalemme era divisa in due parti, la città nuova sotto Israele e la città vecchia sotto la Giordania; la Terra Santa era sottoposta a due amministrazioni diverse: questo comportava dei disagi per i pellegrini, che, per visitare i luoghi evangelici, dovevano attraversare più volte i confini dei due Stati. La tregua non fu definitiva: nel giugno del 1965 e nell’ottobre del 1973 scoppiarono altre due guerre; durante la prima, la città di Gerusalemme fu occupata interamente dagli israeliani. La situazione tra Israele e i Paesi Arabi confinanti ancora oggi è fluida, minacciosa e senza vera soluzione perché è rimasto irrisolto il problema dei palestinesi; tuttavia, se si eccettuano questi periodi di guerra, il flusso dei pellegrini è notevole e sempre in aumento: sono centinaia di migliaia quelli che, favoriti dai moderni mezzi di trasporto, vi giungono da ogni parte del mondo.
I Santuari del Santo Sepolcro e della Natività di Betlemme sono di comproprietà delle tre comunità cristiane (cattolici latini, greco-ortodossi e armeni), questo fatto era causa di attriti che si riflettevano negativamente sui pellegrini, ma nel 1961 è stato stilato un accordo riguardo al diritto di officiatura, agli orari delle funzioni ed ai restauri di queste Basiliche, che ne permette una fruizione pacifica. Nel periodo successivo, ci furono due pellegrinaggi straordinari: quello compiuto dal Papa Paolo VI, agli inizi dell’anno 1964 e quello del Papa Giovanni Paolo II del marzo 2000.
… Ora stanno i nostri piedi alle tue porte! (Salmo 191)
Negli ultimi decenni del secolo scorso si è diffusa la cultura del pellegrinaggio a piedi, si sono visti così migliaia di pellegrini percorrere a piedi il Camino per Santiago di Compostela o la via Francigena verso Roma; per questo la Confraternita di S. Jacopo di Perugia, in collaborazione con il Centro Italiano di Studi Compostellani, ha promosso la realizzazione di una Guida pratica per il percorso da S. Giovanni d’Acri (ora Akko) a Gerusalemme: è la via di Acri che, dal 2007 ad oggi, ha incontrato il favore di molti pellegrini che l’hanno percorsa a piedi. Vi sono dei limiti imposti dalla situazione politica e militare della zona, ma i pellegrini sono rispettati ovunque. È indubbio che, per esempio, percorrere a piedi i sentieri fra Nazaret e il monte Tabor, o le strade sassose tra il lago di Tiberiade e Gerico, per poi affrontare la salita a Gerusalemme, è molto più coinvolgente ed edificante di quanto non lo sia facendosi trasportare da un autobus, ma solo alcuni lo possono realizzare 22.
Il pellegrinaggio a Gerusalemme, è pratica fondamentale per la religiosità del pio israelita, esperienza condivisa diverse volte da Gesù, peregrinatio maior per i cristiani; non è solo la meta ad essere santa, lo è anche il viaggio, non esclusivamente perché il cammino santifica il pellegrino ma perché è la terra che si percorre ad essere santa. Per l’ebreo è la terra della Promessa, per il cristiano la patria del Signore, per il musulmano suolo sacro legato al ricordo dei Patriarchi, dei Profeti (tra cui Gesù) e dello stesso Mohammud.
Al termine di questa esperienza cresce in tutti i partecipanti la consapevolezza della più autentica natura di ogni pellegrinaggio, che è sempre rivolto all’incontro con Colui che si è fatto ospite e pellegrino in mezzo a noi.
Graziella Bava

1   Terra Santa: espressione usata per la prima volta dal Profeta Zaccaria, Zc 2, 16.
2 Eusebio fu Vescovo di Cesarea in Palestina, vissuto tra il 265 e il 340 circa, scrisse la Storia Ecclesiastica, che va dagli inizi della Chiesa all’editto di tolleranza; fu amico e biografo di Costantino; cfr. Eusebius, Life of Constantine, a cura di A. Cameron e S. G. Hall, Oxford 1999.
3   Golgota in aramaico significa teschio, kranion in greco, calvaria in latino.
4   Presso i Romani, gli edifici funerari a pianta circolare, erano molto frequenti: si pensi alla tomba di Cecilia Metella o al mausoleo di Adriano, ora Castel Sant’Angelo.
5   Questa struttura semicircolare aveva dodici colonne, per ricordare gli Apostoli.
6   L’espressione martyrium fu usato per la prima volta per questa costruzione.
7   Xenodochia, dal greco xénos, straniero, forestiero, ospite.
8 Cfr. Itinerarium a Bordigala Hierolyman (a. 333), in Itinera et descriptiones Terrae Sanctae. Itinera Latina bellis sacris anteriora (a cura di T. Tobler), I, Genevae 1877, pp 3-25; con questo itinerario inizia la letteratura Odeporica gerosolimitana (dalla parola greca ’odòs, strada, cammino). Nelle biblioteche dei monasteri sono stati conservati i manoscritti contenenti i resoconti dei pellegrinaggi che dovevano servire da guida per altri pellegrini; danno informazioni preziose sulla Terra Santa e indicazioni topografiche sugli itinerari.
9 Egeria o Etheria, forse era una monaca, che proveniva dalla Galizia o dalla Gallia meridionale; ci è rimasto il suo diario di viaggio; cfr. P. Siniscalco, L. Scarampi (a cura di): Egeria. Pellegrinaggio in Terra Santa, Roma, 1985.
10   Paola e la figlia, con altre matrone, avevano fatto parte del cenacolo di spiritualità, diretto da S. Gerolamo; si riunivano presso la domus di Marcella, sull’Aventino e alternavano letture bibliche a meditazioni e a pratiche di pietà.
11   Teodolinda, moglie del re dei Longobardi Ataulfo, verso la fine del VI secolo, aveva favorito la conversione del suo popolo al cattolicesimo.
12   Cfr. Itinerarium sancti Willibaldi et Itinerarium Bernardi Monachi Franci, in Itinera et descriptiones Terrae Sanctae in T. Tobler (a cura di).
13   Ospizio, ospedale, spedale, dal lat. hospes, straniero, ospite.
14  I loro motti erano: Obsequium pauperum e Tuitio fidei; l’emblema era la croce a otto punte, a simboleggiare le otto beatitudini; vicino al loro ospizio, costruirono una cappella, intitolandola a S. Giovanni Battista, perché, oltre all’ospitalità ai pellegrini e alle cure agli infermi, davano loro l’assistenza religiosa. Dopo la partenza dalla Palestina, si fermarono a Rodi e divennero un ordine militare sovrano, perché indipendente dalla Chiesa; a causa delle offensive dei Turchi, nel 1527, ripararono nell’isola di Malta, concessa loro dall’imperatore Carlo V.
15 Vicino a Burgos, in Spagna, esiste l’ospizio fondato da S. Juan de Ortega; nel periodo tra il 1833 e il 1834, il ministro Sabal, che era massone, ordinò soppressione di tutti gli ospizi ed i conventi che divennero cave di pietre; circa quaranta anni fa, l’ospizio di Burgos è stato ricostruito e recuperato.
16 Fu risparmiata unicamente la chiesa della Natività di Betlemme, perché sulla facciata vi erano raffigurati i Magi che indossavano il costume persiano.
17   Giovanni di Würsburg, Descriptio Terrae Sanctae, in T. Tobler (a cura di), Itinera, op. cit. pp 158-159
18 I Templari, fu dato loro quel nome dal luogo della loro prima residenza, situata sulla spianata del tempio di Salomone, ma si erano dati il nome di “Milites Christi” perché, fin dall’origine il loro ordine aveva un carattere militare.
19   Dante, La Vita Nova, XL
20 Si spiega così il fatto che due famiglie musulmane, per privilegio passato di generazione in generazione, abbiano ancora oggi le chiavi della Basilica del S. Sepolcro e il diritto di aprirne e di chiudere le porte, e di riscuoterne i tributi.
21 Il Centro Italiano di Studi Compostellani, nel 2008, in collaborazione con la Confraternita di S. Jacopo, ha fatto stampare questa guida, in copia anastatica.
22 Gruppi di confratelli della Confraternita di S. Jacopo, tra il 2006 ed il 2007, hanno percorso a piedi i sentieri e le strade di campagna, tra Akko e Gerusalemme per cercare la via ad sanctum sepulcrum, percorsa dagli antichi pellegrini; dalla loro esperienza è nata la “Via di Acri”, una guida scaricabile dal sito della Confraternita.

Un viale di Bardonecchia ricorda Mario Capuccio,
ingegnere nella Belle Epoque
Curata da Franca Ceresa, nipote del celebre Carlo Angelo a cui si devono tanti progetti urbani per
la creazione di una Bardonecchia moderna e turistica dal 1905 al 1923, la ricca mostra workshop

“IL SOGNO LA NASCITA DI UN NUOVO BORGO” ha rievocato ....
riferimento (www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com)
Maria Luisa Moncassoli Tibone

Notizie sulla Confraternita del SS. Sacramento,
detta dei Penitenti Bianchi

I documenti relativi alla Confraternita sono conservati nell’Archivio Parrocchiale di Bardonecchia.
Le notizie qui riferite sono desunte da lettere di don Gallasso, Parroco di Bardonecchia dal 1900 al 1930, e da alcune sue note scritte sulle tabelle in cui sono riportate le “pie fondazioni” a carico della Confraternita.
La Confraternita risulta eretta nel 1629 con lo scopo di esercitare «la sua pia e salutare azione circa il culto divino del SS.mo Sacramento, e della carità cristiana di visitare i malati». Scopo principale della Confraternita era dunque la preghiera ed, in particolare «il culto della SS.ma Eucaristia e tutto ciò che è relativo a questo culto, cioè provvista di cera, nettezza dell’altare del SS. Sacramento, ecc. ecc.». Non doveva comunque mancare l’impegno di ogni confratello di soccorrere le persone inferme.
Annualmente venivano eletti vari incarichi: rettori, vice-rettori, consiglieri, coristi cui spettava il compito d’intonare i Salmi, lettori delle lezioni liturgiche, portatori delle insegne durante le processioni, infermieri che dovevano svolgere in modo particolare l’attività assistenziale presso gli ammalati.
I confratelli si radunavano nella chiesa parrocchiale, rivestiti con un camice bianco, tutte le domeniche e le festività per recitare il “Mattutino” e le “Lodi” durante la prima Messa. Le altre ore dell’Ufficio erano recitate in modo da non intralciare le altre funzioni. I membri della Confraternita erano tenuti all’osservanza scrupolosa dei periodi di digiuno, in particolare durante la Quaresima.
La vigilia del giorno delle Ceneri, verso sera, i confratelli indossavano il loro camice bianco e passavano di casa in casa per invitare al digiuno ed alla penitenza. Analogamente la sera del 1º novembre, al tocco funebre delle campane e con un lume in mano, battevano ad ogni porta dicendo: «Reveillez-vous, gens qui dormez et priez pour vos frères trepassée».
Era consuetudine la loro partecipazione ai funerali. Tuttavia questa pratica andò affievolendosi nel tempo anche a causa del comportamento non molto edificante dei confratelli: «... pochi son coloro che li fanno intervenire alle sepolture. Continua l’abuso di far collette in chiesa in occasione delle sepolture quando intervengono. C’era l’uso di dare dai parenti del defunto una colazione ai confratelli che andavano a cantare l’uffizio nella casa del morto. Ora però preferiscono dare ai predetti lire 5 oppure 6, che i confratelli sogliono consumare in acquavite». La Confraternita disponeva di un piccolo patrimonio derivante «... da somme legate per testamenti e donazioni per la celebrazione di Messe in suffragio dell’anima dei leganti stessi...».
Oltre alle funzioni funebri, era prevista «... una processione annuale da farsi al Santuario di N. S. di Monserrato situato sulla montagna detta la Rhô, processione stabilita dalla Confraternita stessa in seguito ad un voto fatto nel 1630 per ottenere da Dio la cessazione della peste che in quell’anno aveva fatto 793 vittime nella sola parrocchia di Bardonecchia. ... Detta funzione era stabilita per il giorno successivo alla solennità della Pentecoste, ed in tal giorno si partiva dalla chiesa in processione col concorso di tutti i membri della Confraternita che erano oltre 150, e pressoché tutta la popolazione, per recarsi al suddetto Santuario per adempiere il voto emesso dai loro antenati».
La Confraternita continuò la sua attività regolare sino al 1891. Dopo tale data si verificarono eventi che portarono all’intervento dell’autorità civile.
Dà inizio alla vicenda il fatto che «... l’amministrazione venne nelle mani di membri i quali, venendo meno al dovere di retti amministratori, ...» si segnalarono per la «... cattiva amministrazione dei fondi stessi atteso che dal 1891 non venivano più soddisfatti i legati incombenti al patrimonio della Confraternita. ... ».
Durante la Visita Pastorale di S. E. Mons. Edoardo Rosaz, Vescovo di Susa, i responsabili della Confraternita nel 1894 «... si rifiutarono di presentare i conti della medesima, come già avevano fatto nella precedente Visita Pastorale del maggio 1886. Mons. Vescovo fu indotto ad emettere un decreto di scioglimento di detta amministrazione... Ma l’atto del Superiore Ecclesiastico non conseguì il suo effetto per la caparbietà ed ostinatezza dei sopraricordati Amministratori. Perciò il R. D. Gio. Batt. Tournoud interdisse loro di funzionare in chiesa in qualunque modo. In effetti quando il sottoscritto prese possesso di questa Parrocchia (8 luglio 1900) non trovò più vestigia alcuna della Confraternita del SS. Sacramento».
Successivamente gli amministratori tentarono di ripartirsi il capitale della Confraternita costituito da titoli di Stato:
«Nel 1901, in occasione del cambio decennale dei titoli di rendita al portatore, mi venne notificato da una persona degna di fiducia che i sopraricordati avevano consegnato i due certificati appartenenti alla Confraternita per il capitale di £ 2.000 al Sig. Ferrero Giuseppe affinché fossero rinnovati. Ciò fatto, i sullodati si arrogarono il diritto di dividersi il capitale in 4 parti uguali, cioè £ 500 caduno. ... In seguito a questo fatto, dopo avere riferito ogni cosa al Superiore, il 10 dicembre 1901 invitai per lettera i sedicenti eredi della Confraternita (come essi si venivano qualificando) a presentarsi in Parrocchia per dare spiegazioni della loro amministrazione del patrimonio della Confraternita. Si presentarono bensì, ma nulla valsero le esortazioni loro fatte per indurli a presentare il libro della contabilità. Per tutta risposta mi dissero, che avendo essi ricevuto, dai membri dell’Amm.ne precedente, un conto irregolare, essi continuarono a seguire l’esempio dei loro predecessori, e quindi (praensis verbis): “Avendo mangiato essi, abbiamo anche mangiato noi; perciò ora non esiste più rendita di sorta, ad eccezione di alcune pezze di terreno legate alla Confraternita che sono godute da noi stessi”.
Esaurito inutilmente ogni modo possibile per convincerli ed indurli ad adempire il loro sacrosanto dovere, mi rivolsi al maresciallo dei Carabinieri sig. Pesseni, pregandolo di voler adoperarsi colla sua autorità per sistemare questo affare. Ma neppure questo espediente riuscì a persuaderli ... nella presunzione che questo denaro loro gli appartenesse andavano dicendo che erano tutti sotterfugi e stratagemmi del Parroco il quale intendeva impossessarsi lui di tali rendite. Di fronte a tanta cocciutaggine il maresciallo estese un verbale e li denunziò al Procuratore del Re. Venne in seguito inviato sul posto, dal Prefetto di Torino, il Ragioniere Matteini addetto alla sottoprefettura di Susa, il quale si recò personalmente sul luogo. Appurato lo stato delle cose, dichiarò i quattro sleali amministratori tenuti a pagare in solidum il capitale di cui si avevano appropriati, colla rifusione dei relativi interessi con decorrenza dal 1891 fino al 1902 in ragione di £ 80 annue colle spese accessorie. Dal Notaio Bermond di Oulx venne compilato l’atto pubblico, ed il capitale versato fu rimesso nelle mani dell’Esattore ...
... la popolazione stessa, così attenta e tenace nelle sue tradizioni ed anche nei suoi diritti, ed in quello dei testatori cui molti hanno vincoli di parentela, anche lontana, ... protestò vivamente contro gli ultimi quattro membri dell’Amministrazione della Confraternita i quali con una condotta inqualificabile avevano cercato d’appropriarsi il capitale delle somme legate, procurando così l’inchiesta dell’Autorità tutoria. Difatti tale inchiesta fu accolta con soddisfazione  universale della popolazione, colla ferma fiducia che l’Autorità Civile avrebbe senza dubbio fatto rispettare la volontà dei loro antenati e dei loro congiunti defunti, conservando le spese occorrenti per l’adempimento dei legati inerenti alla Confraternita stessa».
A questo punto sorsero due diverse interpretazioni del Decreto Vescovile. Secondo il Parroco, erano revocate le cariche dell’amministrazione della Confraternita nominando nuovi responsabili, che «... non poterono poi assumere il loro uffizio, essendosi i membri della cessata Amministrazione rifiutati di consegnare i libri di contabilità e relativi certificati di rendita ...». Secondo la sottoprefettura, il Vescovo ne aveva stabilito lo scioglimento e doveva essere applicata «... la legge sulle Confraternite e sulle Opere Pie (che) concentra alle Congregazioni di Carità quelle opere di cui è cessato lo scopo, ovvero che hanno per fine la beneficenza, la quale, secondo la legge, deve essere esercitata dalle Congregazioni di Carità locali».
Ha inizio così l’iter civile che si conclude quando «... per Regio Decreto 30 luglio 1905, su parere conforme dell’On. Consiglio di Stato fu disposta la trasformazione a scopo di beneficenza della Confraternita dei Penitenti Bianchi o del SS. Sacramento di Bardonecchia, ed il relativo patrimonio, con obbligo di corrispondere annue £ 81 (ottantuno) al Parroco per il servizio di culto, fu concentrato nella locale Congregazione di Carità» gestita dal Comune, «allo scopo di soccorrere ed aiutare i malati poveri a domicilio e concorrere al mantenimento di indigenti inabili al lavoro».
Guido Ambrois
                                                                
I documenti relativi alla Congregazione sono in fase di elaborazione e saranno inseriti nel sito:
www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com

Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza; non solo il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è stata la santità dei miei genitori; di mio papà, di mia mamma; di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene.
PAPA FRANCESCO
(da “Intervista al Papa”, di P. Antonio Spadaro, Civilà Cattolica, 19-8-2013)


 Grandi artisti a Bardonecchia
Negli archivi del Comune le tracce di quello che io ho sempre considerato un avvenimento importante della seconda metà degli anni Sessanta sono piuttosto scarse. Si tratta tuttavia di avvenimenti per me indimenticabili dal punto di vista culturale.
Nel diario di mia figlia, che allora aveva sei o sette anni, si possono leggere frasi di questo tipo: «Ieri sera mia madre è andata a un concerto in chiesa, e allora io sono andata a dormire nell’armadio (voleva parlare di un letto che durante il giorno veniva ribaltato così da parere un armadio) dalla mia amica Flavia al piano di sopra». Ricordo che Franca Rodda, la madre della bambina, era amica della madre di Lessona, che in occasione dei concerti ospitava a casa sua. L’acustica della chiesa di Sant’Ippolito, come a Bardonecchia sanno tutti, è sempre stata ottima. Nella chiesa c’era un bellissimo pianoforte, e nella bella casa antica che si apre sulla piazza passava l’estate una signora di Genova, piccolina, che si chiamava Grosso. Anzi, contessa Grosso, mi pare. A Genova era amica della famiglia Costa, che allora finanziava la Giovane Orchestra Genovese, corrispondente, in quegli anni, a quella che per noi torinesi è l’Unione Musicale. A lei, per le sue conoscenze nel campo, i Costa affidavano la scelta degli artisti che sarebbero stati invitati a suonare a Genova durante la stagione.
D’accordo con monsignor Bellando, persona di grande cultura e sensibilità, la signora Grosso organizzò per alcuni anni una serie di concerti estivi a cui intervennero esecutori eccezionali, che allora erano all’inizio della carriera e che in seguito suonavano nella stagione della Giovane Orchestra Genovese.
Fu lì, ad esempio, che ascoltai per la prima volta un giovane Salvatore Accardo.
Per il biglietto il prezzo era piuttosto basso, e all’ingresso della chiesa due gemellini di otto o nove anni, figli della signora Grosso, distribuivano i programmi. Ricordo di aver ascoltato lì anche il pianista Canino. Il grande Askhenazy, poi, era addirittura amico personale della famiglia Grosso. Quando avemmo la fortuna di ascoltarlo, alloggiava quindi da loro. Tornò qualche anno dopo per presentare suo figlio, anche lui pianista.
Venne la grande Maria Tipo, che in seguito tenne addirittura un corso, esibendo anche i suoi allievi.
La cosa andò avanti per qualche anno, e poi ebbe fine. [La stagione estiva dei concerti, attualmente in collaborazione con il Comune di Bardonecchia, è organizzata da “Musica d’estate”, del Conservatorio Musicale di Pinerolo N.d.R.].
Venne restaurato e inaugurato di nuovo il Palazzo delle Feste, in cui da allora si tennero spettacoli, concerti e conferenze, ma io non ho mai dimenticato l’emozione che mi diede allora in Sant’Ippolito l’ascolto di tanti straordinari esecutori che disinteressatamente, o per amicizia, venivano a donarci meravigliose emozioni.
Elena Cappellano

 La devozione a Sant’Ippolito
- Per dire anche dopo e più lontano -
Un tempo nel costruire un edificio, dopo aver orientato la struttura secondo i punti carü dinali scelti, la prima pietra posta nelle fondamenta era la pietra rivolta a est, segno propiziaü torio per l’inizio, il buongiorno, lo sviluppo della “vita” È La Madre È.
Anche il Santo del giorno di inizio dell’edificazione era spesso una scelta propiziatoria e di preghiera nella fatica e nella riuscita dell’opera. Niente veniva costruito senza la presenza divina. A noi oggi capire come fissare lo sguardo sul progetto di “cambio di dedica”, al costrutto religioso della Parrocchia di Bardonecchia. Da “Santa Maria ad lacum”, come prima devozione, a S. Ippolito: scelto e discusso tra le pagine “della Storia e della Fede” tra gli uomini del tempo e del luogo.
Le violenze ereticali provenienti oltre frontiera, nell’anno 1584, avevano violato la chiesa, proibendo il tempo della fede al popolo, sino ad arrivare ad incendiarla. Di quegli anni è tuttora conservata l’immagine di “Maria seduta in trono col figlio tra le braccia, San Giovanni e Madü dalena a fianco in difesa e devozione”. Sulle ante del trittico da una parte San Giorgio protetü tore del territorio dalle offese del “drago”, il male che non può essere ucciso, ma solo fermato. Sull’anta opposta la figura del “Miles romano” che accorre con passo veloce e sicuro. È la più antica rappresentazione, in questo territorio, di un “legionario” romano in armi che dalle vette “accorre” in difesa di Cristo e Maria, la prima testimonianza, qui affermata e fondata.
La storia racconta che i “capi” delle legioni romane, prima dell’attacco ai territori nemici, richiedevano ai propri legionari il rito del sacrificio a Marte: dio della guerra, per ottenere la vitü toria. Ma nel passo del tempo, secondo la tradizione, un’intera legione reclutata nella regione di Tebe in Egitto, era stata decimata nel Vallese sotto l’imperatore Diocleziano, per essersi riü fiutata al rito dedicato a Marte, nel nome di Cristo. Anche nelle Alpi Cozie, tra queste montaü gne, la tradizione parla della stessa esperienza. Legionari romani a cavallo, qui giunti per l’invasione dei sottostanti territori celtici, avevano l’obbligo di sacrificare a Marte. Chi si rifiuü tava, preso e legato al proprio cavallo, affrontava la condanna a morte. Così come il Cardinale Dadaglio in una sua omelia del 13 agosto 1988 affermava nella nostra Parrocchia di S. Ippolito.
“Il sacrificio di Ippolito: l’uomo a cavallo” È Si narra di un primo e precristiano Ippolito. Figlio di Teseo e dell’Amazzone Antiope, dotato di straordinaria bellezza e castità, non era inü cline ad Afrodite dea dell’Amore ma verso Diana dea della caccia. Di ritorno da una partita di caccia a cui aveva partecipato a cavallo, Ippolito veniva ucciso. Una versione della storia narra fosse celebrato anche in Italia, accanto a Diana, così come appare nelle pitture pompeiane e romane. La sua bellezza era celebrata non solo in epoca antica ma persino in epoca cristiana. Nello scorrere del tempo, giunti ormai nell’era cristiana, si parla di un Sant’Ippolito martire di Antiochia, venerato il 30 gennaio. Il 13 agosto, invece, è la festa di un altro Sant’Ippolito, marü tire di Roma. Convertito da San Lorenzo, di cui era stato guardia carceraria, condannato a morte, verrà smembrato nella corsa di quattro cavalli ai quali era stato legato. Nello stesso giorno Bardonecchia venera il “suo” Sant’Ippolito, martire della Legione Tebea.
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Sullo sfondo del grande dipinto del 1600, posto sull’altare della chiesa di Sant’Ippolito, è rappresentato il primo passo della “Storia” di questo territorio e della sua “Fede”. Ai piedi della montagna si scorge l’antico borgo di Bardonecchia, dal nome dei Bardi, antichi cantori celtici che dall’alto delle vette annunciavano la prima luce del giorno. In valle il bosco creü sciutoü là dove un tempo era esistito il lago deviato dai Saraceni. A galoppo, attraverso la valle, l’apparire improvviso di un cavallo in corsa che dalla cima delle montagne trascina un uomo dalle membra spezzate e insanguinate. È Sant’Ippolito: primo testimone martire della fede cristiana del luogo.
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Sant’Ippolito: il cambio di dedica e il suo tempo È Quando nel 1806 si ebbe il crollo parziale dell’antica chiesa dedicata a S. Maria, in considerazione della supplica del Parroco don Giuseppe Maria Vachet, Carlo Felice di Savoia ne favoriva la ricostruzione, che prese inizio nel 1828, per la cura della famiglia De Geneys. L’opera verrà continuata nel periodo di Carlo Alberto di Savoia, “il re a cavallo” nel dipinto del Vernet, oggi alla Pinacoteca di Torino, eroe dell’indipendenza itaü liana nel tempo di Pio IX. Fu allora deciso che la nuova chiesa parrocchiale di Bardonecchia veü nisse dedicata a Sant’Ippolito, il Legionario romano martirizzato ad Aga uno nel Vallese che aveva fondato le basi cristiane, nella donazione della propria vita in quel territorio.
Soltanto nell’anno 1985, una rappresentazione scultorea di Sant’Ippolito veniva posta sul fronte della chiesa, a lode e gloria della sua memoria storica e di fede. Mentre sull’altro lato della facciata, in simmetria, veniva posta la figura dedicata a San Giuseppe, come oggi posü siamo vedere, per iniziativa del Parroco mons. Bellando.
Quale il messaggio? Quale il rapporto tra due immagini così lontane e diverse nel racü conto della loro vita, unita nella rappresentazione della fede?
A noi capire come fissare l’invisibile progetto di una unione nel significato storico di base. Giuseppe padre putativo di Gesù: in ebraico Jòsef, sintesi di due parole Jéhowa, Dio, e Yasàf “aggiungere” nel significato di “Dio aggiunga”. Secondo la Bibbia fu detto da Rachele, moglie di Giobbe, che nonostante fosse sterile era riuscita grazie all’intervento divino ad avere un figlio. Augurandosi di averne un secondo, esclamò “Dio ne aggiunga un altro” [Jéhowa yasàf] in latino sarà detto Iosephus, sicché, nel Medioevo, nella parlata popolare, diverrà Giuseppe.
Giuseppe, lo sposo di Maria, col tempo diverrà Patrono della Chiesa universale.
Ecco dunque: San Giuseppe è patrono della Chiesa universale. Sant’Ippolito è il patrono di questa chiesa parrocchiale.
La chiesa di Sant’Ippolito. Nel perdono delle offese, nel corpo a servizio del luogo e della fede, del tempo del sacro, dell’inviolabilità, nell’ospitalità dell’ascolto, nell’incontro. Nella traü smissione dei contenuti. “Sarai appagato da ciò che hai”.
Giuliana Schlatter
Tela dell’Ancona di S. Ippolito (part.).  Nello studio del dipinto, particolareggiato alla lente, sul cavallo non appare l’imbrigliatura pettorale del tempo del dipinto, ma quella giugolare dell’epoca romana. Nella perfetta rappresentazione del tempo del sacrificio da parte dell’autore che ne precisa così straordinariamente il momento. Inoltre il “vello maculato” del cavallo è rappresentato nell’intento di simboleggiare la “macchia”, “la colpa” del condannato. Nel ritoccare il fondale del dipinto nel verde del paesaggio al centro, è apparso alla lente lo stemma di Bardonecchia sormontato da una corona affiancato da due lettere S. Una data "75” “85” ed una firma Giov. RELAI...


Da Torino a Usseglio e a Bangkok Cesare Ferro, pittore
Conferenza tenuta da Maria Luisa Moncassoli Tibone a Bardonecchia, presso il Palazzo delle Feste, il 10 agosto 2013

Riferimento (www.bardonecchiasantippolito.blogspot.com)