12/09/18

Il Pellegrinaggio a ROMA (1a Parte)

IL PELLEGRINAGGIO A ROMA (1ª PARTE)
Il pellegrinaggio a Roma fu una pratica che si instaurò fin dai primi secoli dell’era cristiana: lo attestano resoconti di viaggi, testimonianze archeologiche ed epigrafiche. Le tombe che racchiudevano le spoglie degli Apostoli Pietro e Paolo furono oggetto di venerazione non solo da parte dei Cristiani della città, ma anche di quelli che provenivano da zone lontane.
A questo proposito, lo storico della Chiesa Eusebio di Cesarea(scrisse che agli inizi del III secolo il diacono romano Gaio, attestando la presenza a Roma delle spoglie di San Pietro nella zona del Vaticano e quelle di San Paolo lungo la via Ostiense, affermava che per venerarle schiere di pellegrini accorressero da ogni parte dell’Impero; chiamò queste due tombe con il termine greco tropaia, trofei, segni di vittoria ottenuta con il martirio.

Il pellegrinaggio alla tomba di S. Pietro
San Pietro fu martirizzato nel circo di Caligola, situato nella zona pianeggiante ai piedi del colle Vaticano, tra l’anno 64 e il 67, durante la violenta persecuzione voluta da Nerone(2; i suoi discepoli, quando ne poterono ottenere il corpo, lo seppellirono, probabilmente di notte, in uno dei sepolcreti vicini, destinati a persone di umili condizioni; in modo frettoloso, per evitare di essere individuati, lo deposero in una tomba terragna.
Per fissare nellamemoria il luogo della sepoltura, che doveva rimanere anonima, fecero riferimento ad un albero o ad un altro elemento naturale che si trovava lì accanto e lo chiamarono con il termine generico di terebintus. Verso lametà del II secolo, a Roma, si verificò un aumento della popolazione e del numero delle persone benestanti, per cui si dovettero reperire altre aree funerarie: nei sepolcreti vaticani, le tombe terragne, precedenti di cento anni, vennero sostituite da ricche camere funerarie, che appartenevano a famiglie facoltose. In questo frangente, i Cristiani di Roma si adoprarono affinché la tomba di San Pietro, a differenza di quelle vicine, fosse preservata dalla distruzione(3. Tra l’anno 146 e il 160, a ridosso di questa sepoltura, fu costruito un muro di contenimento, il “muro rosso” (4, le cui fondazioni vennero a cadere sulla parte occidentale della sepoltura. Questa fu in gran parte salvata perché, contestualmente, fu costruita un’edicola, che aveva il compito di conservare e di proteggere una sepoltura semplicissima, anteriore di cento anni. Questo monumento, le cui forme e dimensioni, sono simili a quelli esistenti in altre necropoli romane, in particolare in quelle lungo la via Ostiense, è però un caso isolato, rispetto alla tipologia di quelli che si trovano nei sepolcreti del Vaticano.
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Cfr. Eusebio, vescovo di Cesarea (265 ca-339), nella “Storia Ecclesiastica”, 2-25, 5-7, riporta la testimonianza di Gaio, diacono romano, che, agli inizi del III secolo, nella disputa con Proclo, un eretico montanista, il quale sosteneva che le tombe degli Apostoli più illustri fossero a Jerapoli, in Frigia, affermò che invece si trovavano a Roma e ne precisò l’ubicazione.
Cfr. Tacito, Annales. XL, 44.
Tra l’anno 1940 e il 1949, sotto il pavimento delle Grotte Vaticane e quello della Confessione, si svolse un’importante campagna di scavi, diretta da mons. Kaas, segretario economo della Fabbrica di San Pietro; fu condotta da studiosi e archeologi di chiara fama, quali Apolloni Ghetti, Ferrua, Josi e Kirschbaum. I risultati delle indagini furono pubblicati nel libro: “Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro in Vaticano, eseguite negli anni 1940-1949…”. Volume stampato nella “Tipografia Poliglotta Vaticana, 1951”. Con il termine “trofeo di Gaio”, gli archeologi chiamarono quello che rimaneva
della tomba di S. Pietro, testimoniata dal diacono romano.
Il “muro rosso” è una struttura muraria di cui sono stati individuati, sotto l’area della Confessione, circa sette metri e che ha un andamento nord-sud; fu costruito in seguito ad una sistemazione di quella parte della necropoli vaticana, posta sulle pendici del colle Vaticano; fu chiamato così per il colore rosso dell’intonaco e delle fodere impermeabilizzanti delle sue fondazioni; accanto, nello stesso periodo, furono anche realizzati un fognolo, per lo smaltimento delle acque meteoriche, ed una scalinata, per permettere l’accesso alle camere funerarie vicine.
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Fig. n. 1: Ricostruzione plastica del “Trofeo di Gaio”, 
addossato al “muro rosso” del “Trofeo”
I ritrovamenti archeologici hanno stabilito che il “Trofeo di Gaio” fu costruito contestualmente al “muro rosso” e che in origine corrispondeva ad una edicola5, costituita da una spessa lastra di travertino (v. f ig. n. 1),
posta a livello del terreno (soglia), su cui poggiavano due colonnine marmoree che sostenevano un’altra lastra, anch’essa di travertino (mensa), infissa direttamente nel “muro rosso”; nello spessore del muro, tra la soglia e lamensa, fu ricavata una nicchia6, ad indicare che il luogo antistante era di particolare importanza; la soglia presentava un’apertura di forma trapezoidale, che si apriva sulla parte della sepoltura di San Pietro, risparmiata dalla costruzione del “muro rosso” ed era chiusa da una lastra di marmo, detta “cataracta”. Al di sopra della mensa del “Trofeo”, c’era un secondo incavo, anch’esso ricavato nello spessore del “muro rosso”, ma di forma e dimensioni minori rispetto a quello inferiore. Il modo in cui venne realizzato questo piccolo monumento funebre e la particolare attenzione con cui fu tutelato in quei tempi in cui essere cristiani era considerato un crimine verso lo Stato, testimoniano la straordinaria importanza attribuita dai fedeli a quella sepoltura, vigilata e venerata ininterrottamente. Di fronte ad essa vi era uno spazio libero, il cosiddetto campo ”P” di circa m. 4 per 7, delimitato a sud e ad est dai muri esterni di due camere funerarie, mentre il lato nord era libero. Verso la metà del III secolo, sul fianco destro fu costruito un piccolo muro di sostegno, reso necessario da una crepa che si era formata nel “muro rosso; gli archeologi che effettuavano le indagini lo chiamarono “muro g” o “muro dei graffiti”, a causa degli innumerevoli segni che ne ricoprivano le superfici,
soprattutto quella esterna, più facilmente raggiungibile7.
La costruzione delmuro “g”, comportò una riduzione delle due lastre di travertino del “Trofeo di Gaio”, lo spostamento delle due colonnine di destra e la perdita della simmetria del piccolo monumento. Gli archeologi chiamarono “memoria petrina” (v. f ig. 2), il complesso
formato da quella parte del muro rosso, dal “Trofeo di Gaio”, dal muro ”g” e dal campo ”P”. Il muro “g”, presentava, verso la parte esterna, un incavo, a forma di parallelepipedo irregolare8, che era rivestito, quasi interamente, da sottili lastre di marmo, mentre sul lato occidentale, che terminava sul “muro rosso”, vi era un graffito; il loculo era destinato ad avere una funzione straordinariamente importante, come quella di seconda tomba, nella quale custodire quanto era ancora recuperabile delle spoglie di San Pietro.
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Questo monumento funebre doveva essere alto tra 130 e 150 cm.
È la “nicchia dei palli” che, fatta rivestire nella seconda metà del VI secolo con un mosaico bizantino raffigurante “Cristo Pantacrator”, si può ammirare al di sotto dell’altare papale, affacciandosi dalla balaustra della Confessione.
Forse la zona della nicchia era recintata, per cui i pellegrini non vi avevano accesso.
Questo loculo fu realizzato dopo che la parete del muro era già stata ricoperta da molti graffiti.
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Fig. n. 2: Pianta della “Memoria petrina”.
Le preziose reliquie, infatti, non potevano essere oltre conservate in una fossa terragna, che, per la particolare posizione della piccola area, chiusa sui tre lati, era soggetta a frequenti riempimenti di limo. Il loculo conteneva delle ossa umane, frammiste a quelle di piccoli animali 9, ma gli archeologi non ne eseguirono la ricognizione il giorno stesso, però scattarono qualche fotografia; ispezionarono il terreno sotto la “cataracta” del “Trofeo di Gaio”, ma non vi rintracciarono alcun resto umano10; dal lato ovest del loculo, in corrispondenza del “muro rosso”, fu staccato quel frammento di graffito (v. f ig. n. 3), di cm. 3,2x5,8,11su cui erano tracciati alcuni segni, riconducibili all’alfabeto greco; P. Ferrua se ne appropriò, dicendo che intendeva esaminarlo12.
La campagna di scavi terminò nel 1949 e i risultati furono presentati a Pio XII, che, nel Radiomessaggio del 23 dicembre 1950, a conclusione dell’Anno Santo 1950, annunciò che le indagini archeologiche, condotte sotto il pavimento della Confessione, avevano portato al ritrovamento della tomba di San Pietro; riferì inoltre che, durante le indagini, erano state rinvenute delle ossa umane, ma, per il momento, non si poteva provare con certezza che fossero le reliquie della spoglia dell’Apostolo.

Fig. n. 3: Il frammento del “muro “rosso”,
che fu staccato durante le “Esplorazioni”.
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La presenza di ossa di piccoli animali non deve stupire, se si tiene conto che il luogo in cui fu sepolto S. Pietro
poteva essere stato un terreno abbandonato o un orto.
10 Il P. Ferrua, in seguito, dichiarò che gli archeologi, il giorno successivo, avevano trovato il loculo vuoto; come si
seppe anni dopo, il materiale contenuto all’interno era stato fatto prelevare, la sera stessa, da mons. Kaas.
11 Il frammento fu staccato in modo maldestro, usando un grosso scalpello.
12 Il P. J. Antonio Ferrua, il maggiore studioso di epigrafia paleocristiana del secolo XX, lo studiò, ne parlò in diversi
articoli di giornali, quali “Civiltà Cattolica” e il “Messaggero”, corredandoli dall’immagine del loculo, sul cui sfondo appariva
l’epigrafe.
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Nel periodo tra il 1957 e il 1969, l’epigrafista Margherita Guarducci 13, ottenne di poter esaminare il muro dei graffiti e quel frammento prelevato dal fondo del loculo. Decifrando quei segni, constatò che il muro “g” era in relazione con il culto di Pietro, infatti era stato ricoperto di graffiti, in cui ricorre continuamente l’iniziale del nome dell’Apostolo, associato a quelli di Cristo e di Maria, quasi una nuova Trinità (v. f ig. n. 4 e f ig. n. 4a); quei segni testimoniavano la venerazione e le richieste di intercessione rivolte all’Apostolo dai fedeli e dai pellegrini, molti dei quali avevano aggiunto anche il proprio nome. “Pietro”, abbreviato in “P”, con la lettera

Fig. n: 4: Graffiti del muro “g”. Qui, il simbolo costantiniano15, in cui il nome di Cristo (Christòs), è riprodotto mediante le lettere iniziali greche maiuscole chi X e rho P sovrapposte, XP, vi appare più volte, così come la parola “NIKA”, imperativo greco che significa “VINCI”; è anche presente la scritta frammentaria HOC VIN, per “In hoc signo vinces”, versione latina della scritta apparsa a Costantino.

“E” sovrapposta, assume la figura della chiave, con evidente allusione alle simboliche chiavi affidate da Cristo al suo discepolo. Qui, inoltre, per la prima volta a Roma, in un contesto devozionale, appare più volte, con chiarezza, il simbolo cristologico, nella forma archetipa del monogramma costantiniano14. La professoressa Guarducci venne a sapere dal capo degli operai che avevano collaborato con gli archeologi, che, durante le “Esplorazioni”, nel loculo erano state trovate delle ossa umane, che, insieme ad altri frammenti di intonaco, erano state messe in una cassetta che si trovava nel magazzino degli scavi.
Fig. n: 4a: Esempio di chi rho.
 


Le ossa furono esaminate dall’antropologo La professoressa Guarducci chiese di poter esaminare il frammento del “muro rosso” di cui aveva visto la fotografia; dopo molte insistenze, in cui fu coinvolto anche il Papa Paolo VI, P. Ferrua riconsegnò il graffito; la studiosa lo ricostruì come Pét[ros] enì, cioè “Pietro è qui”, dove enì è la forma abbreviata di enésti (v. f ig. n. 5). Non tutti gli studiosi accettarono questa ipotesi; alcuni interpretarono il graffito con “Pet[ros] en i[rini]”, “Pietro in pace”, formula augurale di pace eterna, che compare molto spesso nelle iscrizioni sulle lastre dei loculi delle catacombe, già dal III secolo 18.
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13 La professoressa Guarducci fu un’esperta di epigrafia classica, a livello mondiale e docente universitaria. 
14 L’imperatore, nei giorni precedenti la battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312), ebbe una visione; come lui stesso riferì al suo biografo e amico, Eusebio di Cesarea, nel cielo gli apparvero la scritta in lingua greca “En touto nika” e il simbolo cristologico; l’imperatore fece apporre sugli scudi dei suoi soldati quel simbolo e la vittoria gli arrise.
15 Il simbolo cristologico costantiniano si diffuse rapidamente a Roma; infatti, come si vede nella fig. 4, fu apposto più volte sul muro “g” e questo avvenne nel volgere di sei, sette anni, cioè nel periodo successivo alla battaglia di Ponte Milvio e prima che Costantino, verso l’anno 319, racchiudesse la “memoria petrina”, in un monumento marmoreo.

Il 26 giugno 1968 il Papa Paolo VI affermò ufficialmente che le reliquie dell’Apostolo erano state ritrovate. Il giorno successivo i resti furono ricollocati nel loculo originario, racchiusi in 19 teche di plexiglass19, insieme ad un cartiglio chiuso. Nell’iscrizione identificativa delle ossa, il Pontefice fece scrivere “Ossa che si ritengono appartenere a S. Pietro”.
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16 Il prof. Venerando Correnti (1909-1991) fu un importante antropologo e docente universitario; a lui si devono importanti risultati sull’antropometria.
17 L’antropologo evidenziò che le ossa erano appartenute ad un individuo che, durante la vita, aveva fatto dei lavori pesanti e che era affetto da artrosi reumatoide, caratteristiche tipiche di chi era stato pescatore. Lo scheletro era completo ad eccezione delle ossa dei piedi, che mancavano del tutto; questo avvalorerebbe la tradizione secondo la quale S. Pietro fu crocifisso a testa in giù; i suoi discepoli, recuperandone il corpo, non avrebbero avuto il tempo di staccare i piedi dalla croce e di avere la salma completa. Non dobbiamo dimenticare che era in atto la prima persecuzione e che un indizio o un sospetto di appartenere alla “setta dei cristiani” poteva comportare la morte.
18 Questa lettura era stata già proposta da P. Ferrua negli anni ’50; fu ripresa dall’epigrafista prof. D. Mazzoleni nel catalogo della mostra “Petros eni” del 2006. 19 Sette frammenti, per volere del Pontefice, furono sigillati in un’urna, che fu posta nella sua cappella privata.
Fig. n. 5: Le sette lettere greche ricostruite in Petr(òs) enì.

Il pellegrinaggio alla Basilica di San Pietro
Quando, nel secondo decennio del IV secolo, Papa Silvestro I e l’imperatore Costantino decisero di costruire, nella zona del Vaticano, la basilica in onore del Principe degli Apostoli, non ebbero dubbi nel riconoscere l’autenticità della tomba, comprovata dalle testimonianze della devozione tributatale dai fedeli per duecentocinquanta anni. Quel piccolo complesso che si trovava ad est del “muro rosso” divenne il fulcro della nuova costruzione; la “memoria petrina” fu protetta sui lati sud e nord con due muri, che non sono eguali, come spessore: quello a nord, cioè quello adiacente al “muro dei graffiti”, è quasi il doppio di quello opposto, ma non per una casualità: questo accorgimento, infatti, permise di proteggere ulteriormente il loculo e il suo contenuto. L’asse della “memoria petrina”, che, con la costruzione del muro “g”, era venuto a cadere, non più al centro della nicchia, ma spostato a destra20, fu assunto come asse longitudinale della basilica costantiniana, il cui livello del pavimento fu lo stesso di quello della “soglia” del trofeo di Gaio.
Il rispetto di queste due condizioni comportò gravi problemi tecnici, sia nel gettare le fondamenta dell’edificio che per la necessità di creare una platea molto vasta; le camere funerarie della necropoli pagana ancora in uso non furono distrutte, ma interrate21 e nella zona del declivio vaticano furono compiuti un imponente sbancamento22e un grandioso livellamento che comportarono un impegno finanziario molto oneroso. I lavori per la costruzione della Basilica di S. Pietro iniziarono verso l’anno 319 e terminarono intorno al 353; l’aula misurava m. 119 di lunghezza, 63 di larghezza e m. 37 di altezza; era suddivisa in cinque navate, separate da quattro file di colonne di spoglio, di marmi di colore diverso.

La memoria petrina era stata fatta racchiudere da Costantino, per tre lati, da muri rivestiti di lastre di marmo frigio e di porfido rosso23, mentre la nicchia era rimasta “in vista”; il monumento costantiniano, a forma di parallelepipedo, misurava cm. 180x290 di base, cm. 275 di altezza e poggiava su di una piattaforma alta 16 cm.; si trovava sulla corda dell’abside24, in posizione tale da farvi convergere l’attenzione dell’assemblea; su di esso l’imperatore fece collocare una croce d’oro massiccio, che portava l’iscrizione dedicatoria con i nomi di Costantino e di sua madre Elena25. Per proteggerlo e per evidenziarlo, Papa Silvestro I fece costruire una pergula, che separava la parte destinata all’assemblea da quella liturgica26, ed era formata da sei colonne tortili27, collegate da un architrave, cui erano appese molte lampade, accese di giorno e di notte 28.
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20 La mancanza di simmetria, si può notare guardando attentamente la “memoria petrina”.
21 La distruzione di una necropoli, avrebbe comportato, con la violatio sepulcri, gravi problemi all’imperatore, sia sul piano religioso (accusa di empietà), che su quello politico; i Cristiani, allora, rappresentavano solamente una parte esigua della popolazione della città.
22 Secondo i geologi che hanno indagato il colle Vaticano, la finestra cui si affaccia il Papa, durante la Benedizione dell’Angelus, corrisponde all’incirca all’altezza che, agli inizi del IV secolo, il declivio del colle aveva in quel punto.
23 Eusebio di Cesarea, lo descrive come «…uno splendido sepolcro davanti alla città, al quale accorrono come ad un grande santuario e tempio di Dio, innumerevoli schiere di pellegrini da ogni parte dell’impero…». Teofania, 47.
24 Il punto centrale dell’abside coincideva con l’asse mediano verticale della “memoria petrina”.
25 La croce pesava 150 libbre.
26 Contrariamente alle chiese paleocristiane di quell’epoca, l’abside era rivolta ad ovest e il celebrante volgeva le spalle all’assemblea. La mensa per le celebrazioni eucaristiche non era collocata in un posto fisso.
27 Le colonne tortili, a ricordo di quelle del tempio di Salomone di Gerusalemme, erano dette vitinee, perché ornate di tralci di vite; donate da Costantino, erano in prezioso marmo greco.
28 Abbiamo una testimonianza sicura dell’aspetto della pergula, che fu riportato nella faccia posteriore della “capsella di Sammagher”, una cassetta reliquiario in avorio e argento, di manifattura romana, che probabilmente un pontefice, verso la metà del V secolo, fece realizzare per l’imperatore Valentiniano III o un illustre personaggio dell’epoca. Questa cassetta, rinvenuta nel 1906 a Sammagher, vicino a Pola, e che ora si trova nel Museo Archeologico di Venezia, è un’importante testimonianza sull’arte paleocristiana e sull’aspetto della “pergula” e dei mosaici dell’abside della Basilica, a metà del V secolo.---
Una significativa prova del rigoroso rispetto che Papa Silvestro I ebbe e che nei secoli successivi animò i pontefici nel considerare intangibile la “memoria petrina”, è testimoniata dal fatto che, nel corso dei secoli, rimase sempre racchiusa nel monumento costantiniano. La bellezza della Basilica Vaticana e la ricchezza dell’area della Confessione, ricolma di addobbi e di suppellettili preziose, attiravano irresistibilmente i fedeli, nei quali instillavano sentimenti di rispetto e di venerazione, verso la tomba del Principe degli Apostoli.


Paolino di Bordeaux,meglio noto come San Paolino di Nola (353-431), descrisse le meraviglie della basilica di S. Pietro come si presentava alla fine del IV secolo; nei suoi versi fece risaltare la gioia che i fedeli provavano, affascinati da tanto splendore. Il poeta spagnolo Prudenzio scrisse che i marmi pregiati e i bellissimi mosaici dorati che ornavano l’abside e l’arco trionfale della basilica di S. Pietro destavano l’ammirazione dei pellegrini, i quali erano così numerosi che, in corrispondenza del ponte Elio, in seguito ponte Sant’Angelo, formavano una ressa29. Per disciplinare l’entrata nella basilica, delle sue cinque porte, una, la “Ravenniata”, era riservata agli abitanti di Trastevere e dell’Etruria, la “Romana” ai Romani e la “Guidonea” ai gruppi dei pellegrini accompagnati da guide.
Graziella Bava
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29 Prudenzio visse a Roma negli anni di fine sec. IV e quelli di inizio del V; cfr. Peristephanon, XI, 159-168.