17/09/15

L’Angolo della Cultura (2014)


Due Santi in una volta
Quando Bardonecchia ha incontrato San Giovanni Paolo Il e il Beato Alvaro Del Portillo

«La Chiesa e il mondo hanno bisogno del grande spettacolo della santità, per bonificare, con il suo buon profumo, i miasmi dei tanti vizi ostentati con arrogante insistenza». Queste parole, pronunciate dal Cardinale Angelo Amato, rappresentante del Papa Francesco alla Beatificazione di Mons. Alvaro Del Portillo, aiutano a cogliere il grande bene che le Beatificazioni e le Canonizzazioni producono nella Chiesa.
Possiamo dire che per la Parrocchia di Bardonecchia, dove la santità è di casa, questo vale particolarmente, grazie all’intreccio provvidenziale con diversi Santi, già riconosciuti o ancora in via, realizzatosi in circostanze che hanno meritato di essere ricordate. Siamo lieti di poterne aggiungere ancora a quanti già ricordati sulle pagine di questo Bollettino.

LA PARROCCHIA DI BARDONECCHIA E I DUE NUOVI SANTI

Sono due grandi figure che, in qualche modo, toccano Bardonecchia: quella di Giovanni Paolo II, canonizzato il 27 aprile 2014, e del Vescovo Alvaro Del Portillo, Prelato dell’Opus Dei, beatificato il 27 settembre 2014 a Madrid.
Sia l’uno che l’altro hanno avuto con Bardonecchia un trait d’union che sta a noi mantenere sul filo della memoria e più ancora a livello della devozione spirituale, perché i Santi ci sono dati per accompagnarci e per intercedere per noi presso il Signore nella cui gloria risplendono.
Un filo “quasi sacramentale” ci lega a questi due eletti del Signore sin dal 12 giugno 1983, Anno Santo straordinario della Redenzione, giorno della mia Ordinazione sacerdotale, allora giovane di 23 anni, appartenente alla parrocchia di Bardonecchia, consacrato con altri 73 giovani presbiteri provenienti da diversi Paesi del mondo e dai vari Continenti, di cui ero il più giovane. Molti bardonecchiesi vennero a Roma in quel giorno con due autopullman, in treno, con autoveicoli e in aereo. Tutti presenti nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, sin dal primo pomeriggio a rappresentare la “perla delleAlpi” per un dono così prezioso e raro quale quello di un nuovo sacerdote. E in quel pomeriggio, in Basilica ci fu questo “contatto” con il nuovo Santo ed il nuovo Beato che possono entrare a ragione nel prezioso e già ricco carnet degli amici del cielo della nostra parrocchia di S. Ippolito.
Del Santo Pontefice polacco i nostri pellegrini hanno goduto la celebrazione del solenne pontificale, la profonda omelia, alcuni hanno ricevuto la Comunione dalle sue mani, tutti sono stati da lui benedetti ed alcuni sono riusciti a vederlo particolarmente vicino e fin’anche a toccarlo fisicamente al suo passaggio.
In particolare poi ed in rappresentanza di tutti, due bardonecchiesi, Gemma Rousset Ferrero e Piero Rappelli hanno presentato i doni all’offertorio offrendo al Pontefice anche una scultura delMelezet, oltre al miele ed altri prodotti locali e sono stati accolti dal Papa santo al87 l’altare della Confessione e intrattenuti con lo scambio di qualche parola. Insomma si sono intrattenuti con un Santo e a lui hanno parlato e presentato la parrocchia di Bardonecchia.
Il Beato Alvaro Del Portillo, invece, è stato visto al fianco del nostro Parroco mons. Bellando e intorno a San Giovanni Paolo II al momento della grande preghiera consacratoria e poi per l’imposizione delle mani su ognuno dei singoli ordinandi. Fu la prima volta infatti che durante una cerimonia di Ordinazione sacerdotale anche un semplice Parroco era ammesso a questo ruolo, accanto ai rappresentanti dei Superiori dei Seminari, in tutto cinque sacerdoti capeggiati proprio da Mons. Alvaro Del Portillo – che allora non era ancora Vescovo.

Piero Rappelli e Gemma Rousset nel costume di Bardonecchia portano a San Giovanni Paolo II i prodotti tipici del paese. (foto L’Osservatore Romano)


Anche con il Beato Alvaro ci fu un breve contatto di alcuni bardonecchiesi, al termine della cerimonia, mentre cominciava a sciogliersi l’assemblea e il Prelato dell’Opus Dei, accompagnato da un nugolo di giovani studenti e professionisti e da altri sacerdoti della Prelatura, stava passando nel corridoio centrale della Basilica di S. Pietro per guadagnare l’uscita, e alcuni fedeli, vistolo anche con le insegne prelatizie – e confondendolo con un Vescovo – gli si avvicinarono per baciargli l’anello ed averne la benedizione. Mons. Del Portillo con grande cordialità e con un sorriso accattivante si intrattenne ascoltando volentieri ed incuriosito di Bardonecchia, del suo giovane sacerdote appena ordinato e del pellegrinaggio e rivolse alcune
parole molto amabili e piene di paterno affetto. Fra loro Clelia Bellando ed Ubaldo Rigoli con la signora Bottigelli,Alberto Bottigelli eMarida Tagliabue, Federico Pedullà ed altri ancora che rimasero impressionati da questo bell’incontro.Anche se ancora non lo sapevano, quel Prelato sarebbe diventato Beato.

LUCI E INSEGNAMENTI
Non è questo il luogo per entrare nelle biografie dei due “nostri” personaggi, ampiamente diffuse, ci basta sollevare un po’ il velo che ci riguarda. Nel contempo possiamo cogliere l’occasione per trarne qualche spunto che ci aiuti nel nostro cammino di fede. I santi non s’incontrano mai invano e non lasciano mai indifferenti. Per questo è necessario conoscerli un po’ meglio, anche solo piluccandone qualche chicca.

Piero Rappelli e Gemma Rousset nel costume di Bardonecchia portano a San Giovanni Paolo II i prodotti tipici del paese. (foto L’Osservatore Romano)

SAN GIOVANNI PAOLO II
Di San Giovanni Paolo II è stato detto tanto. Un grande “condottiero”, come disse Frossard.
Un “altro Mosé” lo definiva il nipote del Beato Pier Giorgio Frassati, Jas Gawronski, giornalista e politico italiano, con il titolo di una celebre intervista ottenuta dal Papa. Ciò che più colpiva in lui era la spiritualità densa di preghiera che si respirava anche solo avvicinandolo, per quanto uomo a tutto tondo, concreto, molto umano nel tratto con le persone, simpatico, ironico e pronto alla battuta. Tutte le volte che lo si avvicinava trasmetteva soprattutto qualcosa in più, diremmo di soprannaturale che arrivava dritto all’anima delle persone. Fu così dall’inizio.
Tredici giorni dopo l’elezione con alcuni collaboratori andò allaMentorella, Santuario mariano sopra Palestrina, nei dintorni di Roma, che lui ben conosceva. Salendo l’ultimo tratto a piedi domandò ai suoi accompagnatori: «Cosa è importante per il Papa nella sua vita, nel suo ministero?». Ci furono varie risposte e suggerimenti: forse l’unità dei cristiani, la pace in Medio Oriente, la distruzione della “cortina di ferro”, e altre cose. Ma fu lui Giovanni Paolo II a concludere: «Per il Papa la cosa più importante è la preghiera!».
Colpisce particolarmente, fra i numerosi contributi alla Causa di Beatificazione, la testimonianza dell’attuale Cardinale Coppa (piemontese, di Alba) che racconta quanto visse nel 1997 quando era Nunzio Apostolico in Repubblica Ceca e Giovanni Paolo II venne in visita.
Card. Giovanni Coppa.
Dopo un’intensa giornata di incontri, era appena stato con i giovani, tornato in Nunziatura, prima di cena il Papa volle profittare per andare in Cappella, accompagnato solo dal Nunzio. Le Suore avevano ben disposto un bell’inginocchiatoio comodo e foderato. Il Papa preferì mettersi in un banco qualunque, poi il Nunzio venne chiamato per una questione urgente al telefono. L’Arcivescovo Coppa, tornando poi in Cappella fu meravigliato di sentire una specie di musichetta, quasi una cantilena in verità, arrivare dalla Cappella,  sapendo che aveva lasciato il Papa solo e si domandava che cosa stava succedendo o chi era entrato a disturbare il Santo Padre. Entrando quasi di soppiatto invece capì l’origine di quella musichetta indistinta. Era il Papa stesso che cantava sommessamente inginocchiato davanti al Tabernacolo. Testimonia il Cardinale Coppa: «Fu una cosa sconvolgente per me, un forte richiamo alla fede e all’amore all’Eucaristia.
Non ho più dimenticato quell’esile canto d’amore a Cristo che il Papa, restando da solo in chiesa elevava a Gesù. Una canzone d’amore».
Mi pare che la santità diWoitjla sia ben contenuta in questi episodi della vita di questo gigante
della fede.


IL BEATO ALVARO DEL PORTILLO

Mons. Del Portillo non ha mai preteso di brillare di luce propria, ma ha cercato di riflettere la luce divina, seguendo l’esempio di San Josemaría Escrivá. Secondo il suo successore, l’attuale Prelato dell’Opus Dei, il Beato è stato «un uomo, un sacerdote, un Vescovo pieno di gioia al quale Dio diede tanti talenti». Tutta la sua vita è stata spesa nel promuovere il grande valore della fedeltà: alla Chiesa, al Santo Padre, all’Opus Dei e a San Josemaría. Chi prende in mano la sua biografia e la legge troverà che fedeltà è la prima e l’ultima parola, oltre che la più ricorrente. Un noto scrittore e saggista esperto di Santi, il p. Antonio Maria Sicari, ha evidenziato come don Alvaro abbia «offerto una personificazione convinta e convincente dell’equazione tra felicità e fedeltà, così ricorrente nella predicazione di San Josemaría».
Nell’omelia tenuta nellaMessa di Beatificazione di Mons. Alvaro, il Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ne ha sottolineato l’umiltà. Ripeteva un consiglio che dava spesso il Fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di San Giuseppe Calasanzio: «Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo». Non dimenticava nemmeno che era stato un asino il trono di Gesù all’entrata in Gerusalemme. Anche i suoi compagni di studi, oltre a rilevare la sua straordinaria intelligenza, ne mettono in risalto la semplicità, l’innocenza serena di chi non ha alcun complesso di superiorità nei confronti del prossimo. Riteneva come suo peggior nemico la superbia. Un testimone afferma che era l’umiltà in persona (Positio I, p. 675). Si trattava non di una  miltà aspra, appariscente, esasperata, ma amabile, gioiosa. La sua letizia derivava dalla convinzione di non valere  molto.
All’inizio del 1994, ultimo anno della sua vita terrena, in una riunione disse: «Lo dico a voi e lo dico a me stesso. Occorre lottare tutta la vita per giungere a essere umili.Abbiamo la scuola meravigliosa di umiltà del Signore, della Santissima Vergine e di San Giuseppe. Dobbiamo imparare. Dobbiamo lottare contro il proprio io che si alza costantemente come una vipera, permordere. Ma siamo sicuri, se rimaniamo vicino a Gesù che è della stirpe di Maria, ed è lui che schiaccerà la testa del serpente». Per lui l’umiltà era la chiave per aprire la porta della santità, mentre la superbia era il grande ostacolo per vedere e amare Dio. Diceva: «L’umiltà ci sottrae la maschera di cartone, ridicola, che portano le persone presuntuose soddisfatte di se stesse»

È una specie di consegna che fa il Beato Alvaro del Portillo «Pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa» ai bardonecchiesi di ieri e di oggi, radicata nell’incontro avuto con lui, ormai 31 anni fa, invitandoci ad essere santi come lui, vivendo una santità amabile, misericordiosa, gentile, mite e umile.
Monsignor Claudio Iovine




12 giugno 1983: il Beato Alvaro Del Portillo impone le mani agli ordinandi. Accanto a lui mons. Mani, Rettore del Seminario Romano, e mons. Bellando. (foto L’Osservatore Romano)


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GRAZIE AFRICA! – Sulla famiglia, da noi regna la confusione, in Africa qualcuno ha idee chiare! I Vescovi del Ghana, riuniti in assemblea a novembre scorso, hanno reso noto una dichiarazione limpidissima: «L’insegnamento perenne e immutabile della Chiesa sulla famiglia è basato sulla natura umanama specialmente sulla Scrittura e sulla Sacra Tradizione, secondo cui Dio ha ordinato che il matrimonio sia tra un uomo e una donna, quando “Dio li fece uomo e donna e li benedì”. Dio ha voluto ilmatrimonio aperto alla vita “quando li benedì e disse crescete emoltiplicatevi” (Gn 1,27-28). Inoltre, Dio ha voluto che ilmatrimonio sia indissolubile, con le parole di Gesù: “L’uomo non separi ciò che Dio ha unito” (Mt 19,6)». Saranno Chiese “povere” di mezzi e di “periferia”, ma non mancano di chiarezza. Grazie Africa! (da “Il TIMONE”, n. 139, p. 11)


Lotte di religione a Bardonecchia
Ricerca del Prof. Roberto Borgis gia edita sul blog al riferimento:
http://bardonecchiasantippolito.blogspot.it/2015/04/lotte-di-religione-bardonecchia-2014.html

Monumento al traforo del Fréjus a Torino
Articolo di Guido Ambrois già edito sul blog al riferimento: 

Altra interessante ricerca del dott. Guido Ambrois
 (tratta dall'ARCHIVIO STORICO della Parrocchia)
Alcune notizie della contabilità della Confraternita del Santissimo Sacramento”
edito sul  Blog al riferimento:

Fratello lupo?

Ciaspolavo pigramente, quel limpido pomeriggio di gennaio. Di tanto in tanto mi fermavo ad assaporare il turbinio della neve alzata dal vento; ammirando le creste innevate di Bardonecchia orlarsi e sfilacciarsi ad ogni folata. Ogni cosa intorno a me sembrava sollevarsi e danzare, ed io mi sentivo coinvolto in quella rappresentazione.
Ma, una volta raggiunto il bosco, tutto mutò. La luce, altrove diffusa generosamente, filtrava a stento fra i rami. Mentre il freddo mi penetrava, ad ogni ventata ero rattristato dal flebile cigolio dei tronchi. Sotto le piante la neve tendeva a sfaldarsi e aveva perduto il primitivo candore. L’erba incolore affiorava e, qua e là, notai alcune zolle smosse. Forse un cinghiale? O una sepoltura affrettata, improbabile giallo nella foresta?
Nello stesso istante un crack di ramo spezzato mi colse di sorpresa. «Non può essere altro che vento – mi rassicuravo –. Cosa potrà mai accadere a poche centinaia di metri dalla carrozzabile? ».
Mentre proseguivo, di tanto in tanto quell’eco imprevista si ripeteva. Pensavo: «Il vento è forte, ma come può spezzare gli alberi con tanta frequenza?». Credetti di avvertire una presenza inquietante. «Difficile si tratti di un animale selvatico; loro, di norma, tendono ad allontanarsi». Nonostante questo tarlo, non pensai minimamente a tornare indietro. Tuttavia, dinanzi alla porta in ferro di una cappellina, constatai con una certa preoccupazione che era sbarrata. Mi tranquillizzai: «Sto percorrendo un itinerario segnalato, sabato ho incontrato un papà che ciaspolava tranquillo trasportando il suo piccolo nel porte-enfant».
La chiesina scruta dall’alto delle rocce un vallone selvaggio, mentre in primo piano minuscoli ghiaccioli pendevano da rami sempreverdi. La luce del tramonto li indorava e a me sembravano candeline accese, quasi inseguissero il periodo natalizio da poco trascorso. Pure le abetaie sottostanti replicavano quei bagliori rossastri.
Alla fine di una breve discesa ho attraversato il greto di un torrente che precipita fra grandi massi fino a formare una radura di neve vergine dove la luce del tramonto ama posarsi.
Fotografai con tenerezza le pianticelle di rosa canina scampate a stento alle continue nevicate.
Le bacche rosse, ancora presenti qualche giorno prima, erano scomparse: «Siamo ormai in pieno inverno». Poco oltre vidi una sequenza di orme su uno di quei cuscinoni ...non erano di camoscio: «Volpe o lupo?». In ogni caso il sole calante invogliava al ritorno. Feci dietro front. Distante una quindicina di metri notai che un animale, accovacciato dietro a un cespuglio, si stava alzando. Pensai immediatamente a un camoscio... «Non può esserlo, è troppo basso: o è una volpe o un lupo!». Lo riconobbi, era proprio lui. Non mi ha concesso il tempo né di temere di pensare, in quanto si è allontanato tranquillo come un cagnolone. Rapidamente ha guadagnato un valloncello, dove si è esibito inarcandosi per superare la neve con agili balzi; una postura caratteristica del lupo! Quindi scomparve, come inghiottito dal bosco e dalle rocce.
La sera stessa, lo ingrandii sullo schermo del computer. Bello e fiero, il pelo grigio e bianco rifletteva l’inverno. Le tinte calde del bosco l’avevano colorato qua e là. Grosse zampe da camminatore. Lo sguardo non tradiva ferocia, piuttosto tristezza e solitudine. Un peluche da accarezzare.
Tanti hanno chiesto se abbia avuto paura. «Non me ne ha dato il tempo. In realtà, ero inquieto prima di avvistarlo; quei rami si spezzavano con troppa frequenza per essere il vento. Ma quando l’ho visto allontanarsi spontaneamente mi sono tranquillizzato». Ho sentito dire: «Lui è consapevole delle armi da fuoco che abbiamo a disposizione; sa che verrebbe abbattuto, se attaccasse un essere umano».
Pensavo: «Con l’uomo si è stabilita una pace armata. Tanto più che, sebbene il nome stesso declini ferocia e crudeltà, oggi interessa, incuriosisce e piace; per fierezza e capacità di solitudine, ma anche perché è davvero bello». Durerà questo armistizio? Qualcuno sostiene che la specie si sta moltiplicando, come i segni nefasti del suo cacciare: spesso uccidono più prede di quanto necessario. Come l’uomo. Già al tempo di San Francesco la belva rappresentava il demonio, cioè il negativo che esiste nel creato. Ma Dio gli fece intuire che il lupo è “povero”, dunque va compreso e aiutato a uscire dal suo bozzolo di selvaggia solitudine.
Anche il Santo amava ritirarsi nel bosco, tuttavia per un motivo opposto: ascoltare più chiaramente – nel silenzio – la voce divina.
Il miracolo di Gubbio conferma che pure allora molti uomini erano lupi in una selva oscura. Francesco riconciliò entrambi in Dio, uomo nuovo e lupo nuovo; insieme. Non la pace armata se forse precaria di oggi, ma un’armonia celeste. La sua voce doveva essere un canto che tutto armonizza; grazie al quale egli colloquiò non solo con la belva, ma persino con gli uccelli, in genere difficili da avvicinare. Nell’episodio dei Fioretti la reciproca ferocia uomo-lupo si è trasformata in patto quasi cavalleresco: smetti di uccidere, provvederemo noi al tuo sostentamento!
La belva si trovò trasfigurata; non più nemico ma fratello.
A chi mi chiede se l’incontro col lupo mi abbia cambiato, se giro ancora solo fra i monti, rispondo: «Sì, anche se ho perso la sciocca sicurezza di chi dispone dei più svariati antidoti verso disgrazie e malattie, come vaccini e antibiotici. Quel lupo che poteva uccidere, ma non l’ha fatto, ha semplicemente messo in evidenza i miei limiti». Qualcuno ha suggerito: «Se vuoi tornare in montagna solo, dotati di un’arma, di un coltellaccio almeno». «Non saprei usarla; e per quale motivo rompere quel tacito patto di non belligeranza
che il lupo, finora, ha rispettato?».
Mi soffermo abbastanza spesso sull’ultima foto di quel pomeriggio, scattata quando il sole appena scomparso stava accendendo di arancio e rosa le nubi vaganti. La furia del vento non cessava e in poco tempo si era fatta gioco delle nuvole riducendole a segno filiforme. Il cielo appariva attraversato da una specie di punto interrogativo.
Fratello lupo?
Guido Alimento

«... notai che un animale, accovacciato dietro a un cespuglio, si stava alzando. Pensai immediatamente a un camoscio... “Non può esserlo, è troppo basso: è una volpe o un lupo!”. Bello e fiero, il pelo grigio e bianco rifletteva l’inverno...». (foto G. Alimento)

Nel Museo di Antichità
Il Papiro di Artemidoro: fascino di un mistero Al centro del Polo Reale fra le collezioni archeologiche che ammaliano e stupiscono i visitatori, si apre ora un nuovo percorso che conduce a vedere un reperto dalla storia straordinaria, destinato a suscitare viva curiosità.
Si tratta di un rotolo di papiro lungo due metri e mezzo che presenta sulle due facce singolari tracciati di scrittura e una quarantina di disegni, leggibili in tre diversi momenti, indicati come tre Vite, che un video, all’ingresso, aiuta a decifrare.
Entro una teca tecnologica il reperto appare composto di infiniti frammenti in cui sarebbe descritta parte dell’opera di Artemidoro di Efeso (II-I sec. a.C.), Geographomena, accanto ad una carta della penisola iberica. Un errore avrebbe interrotto la realizzazione dei primi scritti, così il papiro venne riutilizzato per disegni e bozzetti, arricchendosi di raffigurazioni di animali, reali e fantastici, di figure e di parti del corpo umano.
Dopo un secolo, divenne cartapesta per uso funerario e fece parte di un konvolut, ammasso di papier-mâché.
Pazientemente ricuperato, esaminato dai maggiori studiosi di papirologia, questo straordinario reperto ha generato una querelle fra gli studiosi che lo considerano importante documento della cultura e dell’arte antica, come tra gli altri, Salvatore Settis, o che lo affermano un clamoroso falso ottocentesco, come Luciano Canfora che ne avrebbe pure riconosciuto l’autore in Costantino Simonidis, celebre falsario.
Acquisito dalla Compagnia di San Paolo, il Papiro fu esposto a Torino a Palazzo Bricherasio nel 2006. Allora un testo romanzato di Ernesto Ferrero, uscito da Einaudi, ha cercato di delinearne la storia.
Successivamente l’edizione critica di Kramer e Gallazzi ne sostenne l’autenticità, pubblicando anche una foto dell’ammasso di papiro, che venne discussa in diversi convegni, fino al 2013, quando dall’Emilia Romagna il soprintendente Filippo Gambari ha dichiarato che il Ministero dei Beni Culturali ha definito la foto un falso.
Ora la presenza del Papiro a Torino è destinata a portare nuove, stimolanti discussioni.
Maria Luisa Tibone
(da “Corriere dell’Arte”)
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«Non abbiamo bisogno di Dio per spiegare come si formano le galassie.
Abbiamo invece bisogno di Dio per spiegare il motivo per cui esiste l’universo invece del nulla».
P. José Funes, Direttore della Specola Vaticana


Torino - Biblioteca Nazionale
Cabiria, immagine di un mito
Cabiria, immagine di un mito

Il Consiglio della Regione Piemonte ha promosso, nella Biblioteca di Piazza Carlo Alberto, la presentazione della mostra che celebra i cent’anni di Cabiria, il film dell’astigiano Giovanni Pastrone, il cui “mito” è rievocato con una presentazione ricca di fascino che ne coniuga l’immagine pubblicitaria di precoce e spettacolare invenzione, con i cimeli più rari, le foto e i costumi di scena.
Cabiria fu in effetti il primo “kolossal” girato con inventiva e coraggio, con uno sforzo rappresentativo non comune.
Pastrone aveva inventato il “carrello” per le riprese e gli effetti speciali che in seguito Griffith adottò per primo al di là dell’Oceano; aveva fatto realizzare appositamente la serie dei costumi, delle armature, delle insegne che furono poi acquisite dal capo della sartoria cinematografica, Giovanni Devalle, diventando una collezione rara, ora in gran parte esposta a rievocare la storia romanzata di Cartagine nel III secolo a.C.
Pastrone aveva guardato al futuro, cercando, per la realizzazione del suo film, la firma più importante della sua epoca. Così nel 1914 fu Gabriele D’Annunzio a fornire didascalie e nomi di personaggi al film.
Il Vate era considerato l’autore di Cabiria su locandine e manifesti e attraeva con la sua notorietà il pubblico.
L’immagine del film è splendidamente rievocata nella mostra che si avvale, in una serie di bacheche, anche del ricco patrimonio musicale della Biblioteca messo a disposizione dal direttoreAndrea De Pasquale e presentato dalla studiosa di manoscritti antichi Franca Porticelli.
Sono pezzi rari di partiture musicali che documentano gli anni del cinema muto: “Lo schiavo di Cartagine” del 1910, “Gli ultimi giorni di Pompei” del 1913, le annate della rivista “La vita cinematografica”, il libretto “Al Johnson nel Cantante di Jazz” del 1927 che fu il primo lungometraggio parlato e cantato.
Ma lo splendore, la spettacolarità, la ricercatezza della macchina del cinema si colgono soprattutto nella sfilata dei costumi che testimoniano la grandiosità della messa in scena che manifesti, brochures, foto di scena tratti dagli archivi del Museo del Cinema illustrano, accostandosi alla Collezione Devalle di costumi, che appare la vera protagonista della rassegna.
Ma anche gli autori di Cabiria compaiono con spettacolari ritratti: Giovanni Pastrone, Gabriele D’Annunzio, e, per le musiche, Ildebrando Pizzetti.
Il curatore Livio Musso dell’Associazione Terre e Memorie di Asti ha esaltato la presentazione con le scelte di colori e immagini che rievocano gli importanti momenti del film: l’eruzione dell’Etna, il fuoco divoratore dal quale la nutrice Croessa fugge, portando la piccola Cabiria; i bambini sacrificati a Moloch; Annibale che varca le Alpi; Siracusa che si rivolta generando le fiamme con gli specchi ustori di Archimede; Asdrubale e la figlia Sofonisba per cui contendono i re di Numidia Siface e Massinissa... Tutta una visione storica che gli splendidi costumi incarnano, affascinando i visitatori con quello che Martin Scorsese definì «un insieme
magnifico e ipnotizzante».
Maria Luisa Tibone
(da “Corriere dell’Arte”)


Croce astile

La “nostra” preziosa croce d’argento, recentemente ritrovata e restaurata grazie all’intervento della “Fondazione Magnetto”, dal 22 gennaio al 16 marzo 2014 è rimasta esposta al Palazzo del Quirinale a Roma, nell’ambito di una mostra di opere d’arte intitolata “La memoria ritrovata”.
Per l’evento è stato pubblicato un pregevole catalogo in cui è riportata la scheda predisposta dalla dott.ssa Valeria Moratti, funzionaria della Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici del Piemonte, che proponiamo qui di seguito:
«La croce astile, restaurata sotto la direzione di chi scrive subito dopo il suo ritrovamento, è costituita da un supporto in legno di noce interamente rivestito da lamine in argento, con applicate decorazioni a racemi in argento sbalzato, inciso e dorato. Nello stesso materiale sono realizzate le figure che abitano i quattro capi della croce: sull’asse orizzontale la Madonna e San Giovanni, sull’asse verticale Dio Padre in alto e il Cristo
risorto in basso. Al centro è posto il Crocifisso, anch’esso realizzato in argento sbalzato e dorato. I capicroce del lato posteriore presentano il tetramorfo: in senso orario si incontrano l’aquila (Giovanni), il bue (Luca), l’angelo (Matteo) e il leone (Marco); nell’intersezione dei bracci è inserita una placca quadrata raffigurante l’Agnello. Le immagini del bue e dell’angelo, con il restauro, hanno riacquisito la corretta posizione:
il primo sull’asse orizzontale a destra, anziché coprire completamente il foro di ritaglio della lamina sottostante, lasciava intravedere porzioni di supporto ligneo, così come il secondo, per mascherare il supporto, presentava sotto la placca di rivestimento un foglio di carta dorata. Lungo il perimetro sono fissate sfere di rame dorato: sopravvive un solo chiodo con testina lavorata a fiore e dorata, probabilmente originale vista la fattura accurata, il materiale usato e la presenza di doratura sulla capocchia.
Il nodo, in rame dorato, ha una forma di sfera schiacciata ai poli; sulla linea equinoziale sono sbalzati sei castoni a forma di rombo con placche in argento smaltate champlevè, molto lacunose quanto allo smalto, raffiguranti alcuni santi (il santo titolare della chiesa Ippolito, Lorenzo, Pietro, Paolo e Giovanni Battista) e uno stemma, forse identificabile con quello di Bardonecchia. Durante lo smontaggio della croce in un piccolo foro a sezione quadrata, posto all’intersezione dei bracci, è stata trovata una piccola reliquia che accompagna un involto di seta gialla; esplicata dalla scritta in grafia quattrocentesca su carta “de scindone domini”, essa costituirebbe la più antica testimonianza della venerazione della Santa Sindone nell’Alta Valle di Susa (sono debitrice a Guido Gentile di questa preziosa osservazione).
La croce, ancora in fase di studio da parte di chi scrive, è datata 1442 sul cilindro di innesto del bastone ed è punzonata con le lettere HB. Pur non essendo stato ancora determinato con sicurezza l’orefice, i caratteri di stile sembrano ricondurre l’opera a un maestro franco piemontese attivo sui due versanti del Monginevro, a dimostrazione di una cultura figurativa omogenea fra l’Alta Valle di Susa e i territori intorno a Briançon,
aree entrambe storicamente appartenenti al Delfinato. Rubata nel 1971, fu resa nota pubblicandone un’immagine sul catalogo della mostra “Valle di Susa arte e storia”, tenutasi a Torino nel 1977».

Altro Natale

Trascorsi la giovinezza in pianura, nella casa che fu costruita sul terreno acquistato dai frati domenicani del convento di Santa Croce. L’edificio sorge su un piccolo poggio e domina l’orto, la vigna e il giardino che a primavera diventava un’esplosione di ranuncoli, viole e narcisi e poi, d’estate, offriva generosi cespugli di ortensie rosa e azzurre.
La parte colonica ospitava attrezzi agricoli ed alcuni animali che servivano per i lavori della campagna.
Era molto bello osservare la trasformazione della natura nelle diverse stagioni: ascoltare i silenzi dell’inverno e a marzo respirare i profumi intensi dei fiori degli alberi da frutto e dei lillà. Tutti gli anni, all’avvicinarsi del Natale, si rinnovava una consuetudine a me particolarmente cara: l’albero di Natale. Il nostro vicino di casa, Vincenzo, un uomo già anziano e con la saggezza contadina di generazioni, mi accompagnava alla cascina Belvedere, dove il padrone, un suo amico di nome Giuseppe, mi attendeva puntuale, dopo l’Immacolata, e per me tagliava sul momento un piccolo ramo d’abete; io apprezzavo con gioia quel privilegio che mi era riservato.
Percorrevamo una strada lunga e diritta, fiancheggiata dai campi che ricordo bianchi di neve. I nostri passi, a tratti incerti, risuonavano con rumore secco e ritmico sul terreno gelato. Il freddo era pungente e la mia figura minuta scompariva negli indumenti di lana dai colori vivaci, mentre Vincenzo si avvolgeva in una mantella di panno grigioverde come il cappello, indumenti ormai scomparsi dalla vita di tutti i giorni.
Acasa mia il presepe era un rito di mio fratello: veniva allestito con cura nel sottoscala, su un tavolo grande. Era studiato in ogni particolare: le statue e le pecorine di gesso sembravano animarsi sotto le luci nascoste dietro la carta stellata del cielo. Le montagne erano costruite con pezzi di legna da ardere, tutte ricoperte di muschio fresco; un lieve odore di muffa per qualche giorno si diffondeva fino alle stanze del piano superiore.
In un angolo dell’ampia cucina, vicino al vecchio camino spento, preparavo l’albero di Natale, lo addobbavo con palline di vetro lucido multicolore e di cioccolato, comprate con i miei risparmi di bimba. Appendevo ai rami piccole scatole vuote confezionate con le carte riciclate dei regali dell’anno precedente ed infine vi avvolgevo un filo d’argento con le luci intermittenti. La preparazione al Natale si avvertiva nei toni della casa, nell’atmosfera festosa degli addobbi in paese e nella novena pomeridiana, a cui partecipavo con i miei compagni di scuola.
Alla Messa della Notte Santa invece non andavo perché la chiesa parrocchiale era troppo lontana; il buio e la neve allora sempre abbondante rendevano più fredda la notte. Il giorno di Natale si consumava un pranzo ricco sulla tovaglia di fiandra lavorata a dama, usata nelle grandi occasioni. Certi sapori e profumi sono tuttora legati a quella tradizione: l’insalata russa, il brodo di cappone, gli agnolotti preparati in casa, lo stufato di bue, la mostarda di Cremona ed i mandarini che si compravano poche volte durante l’inverno. Negli altri giorni si consumavano le mele e le pere del nostro podere, conservate al fresco sulle stuoie. I doni erano cose semplici: un giocattolo di pezza, una sciarpa e un berretto di lana lavorati a mano dalla mamma durante l’Avvento, un cestino di dolci e poche lire regalate dai parenti stretti.
Poi gli studi ed il lavoro mi hanno portata a vivere qui a Torino, lontano dal paese, ma nel cuore sono ancora vive quelle immagini, anche se un po’ scolorite dal naturale trascorrere della vita.
Tutti gli anni a Natale ritorna sulla tavola la tovaglia bianca di fiandra a dama con le tradizioni di casa mia, un po’ modificate dalle nuove abitudini. Il ricordo e la magia di quelle feste sono rimasti nei miei pensieri e diventano una fiaba moderna con il finale ormai concluso.
Pur nella tristezza e nel vuoto per le persone che non ci sono più, trovo nelle luci dell’albero e del piccolo presepe il sorriso benevolo dei miei genitori che sembrano rassicurami ed accompagnarmi fino al prossimo Natale.
Maria Fiorenza Verde

PREGHIERA ALLA SANTA FAMIGLIA
DI PAPA FRANCESCO

Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore dell’amore vero,
a voi con fiducia ci rivolgiamo.
Santa Famiglia di Nazareth,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole del Vangelo
e piccole Chiese domestiche.
Santa Famiglia di Nazareth,
mai più nelle famiglie si faccia esperienza
di violenza, chiusura e divisione:
chiunque è stato ferito o scandalizzato
conosca presto consolazione e guarigione.
Santa Famiglia di Nazareth,
il prossimo Sinodo dei Vescovi
possa ridestare in tutti la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
la sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltate, esaudite la nostra supplica.
Amen.



Il mistero e la scienza
La nostra società è quotidianamente indottrinata dai grandi mezzi di comunicazione di massa. La secolarizzazione ci presenta una visione della realtà che elimina la dimensione soprannaturale; il mondo e la vita sono interpretati alla luce di ciò che è percettibile dai nostri sensi ed è sperimentalmente verificabile. L’impatto di questa mentalità sulle verità fondamentali della “rivelazione” è deleterio; tutto ciò che è “mistero di fede” viene rifiutato in quanto non dimostrabile scientificamente. Anche tra i fedeli che frequentano le celebrazioni liturgiche ed accedono ai Sacramenti si stanno lentamente facendo strada velate forme di scetticismo; viene vissuto con fede tiepida il mistero dell’incarnazione di Gesù Cristo, della sua divinità e della sua risurrezione; viene messo in discussione il mistero della Trinità; viene poco per volta assorbita la mentalità della cultura dominante che non riconoscendo la trascendenza nega ogni valore all’azione provvidenziale di Dio sulla storia dell’universo.
Eppure, i grandi progressi che, in anni recenti, sono stati compiuti nella speculazione scientifica, ed in particolare nella cosmologia e nella fisica delle particelle, stanno mettendo in crisi le granitiche certezze delle ideologie positiviste. La realtà fisica che ci circonda non è quella che i nostri sensi ci hanno abituato a vedere e conoscere; di fronte a eventi e scoperte messi in luce dalle più sofisticate strumentazioni scientifiche la ragione umana comincia a mostrare i propri limiti e deve arrendersi di fronte al mistero.
Il Big Bang. È ormai universalmente accettato dalla comunità scientifica che la materia e le leggi che governano l’universo siano state create nei primissimi istanti in cui si è verificata la “grande esplosione”. Tutto quello che ci circonda e che siamo capaci di percepire, il mondo animale, la terra, il sistema solare, l’universo intero con le sue rigorosissime leggi fisiche e con i suoi misteri, tutto è emanazione del Big Bang. Prima dell’istante zero non esisteva nulla, non esisteva il tempo, non esisteva lo spazio. La teoria, tanto cara ai razionalisti di tutti i tempi, di un universo eterno ed increato viene messa definitivamente in soffitta. Quale spiegazione scientifica è in grado di dare una risposta all’origine all’universo? MISTERO.
Il principio antropico. Un altro concetto che sta facendo venire il mal di pancia a molti positivisti è il cosiddetto “principio antropico” secondo cui tra tutti gli infiniti valori che potevano assumere le grandezze fisiche che governano l’universo si sono dimostrati validi solo quelli che un giorno avrebbero reso possibile la comparsa dell’uomo. L’universo tale quale ci si presenta oggi dipende infatti dal valore che una dozzina di grandezze fisiche assunsero al momento del Big Bang; variazioni minime di tali valori avrebbero avuto conseguenze catastrofiche sull’evoluzione dell’universo. Per quale ragione scientifica tra le infinite possibili condizioni iniziali si sono verificate proprio quelle che poi permisero la comparsa dell’uomo?

MISTERO.
La struttura dell’universo. La moderna fisica relativistica tenta di spiegare la natura dell’universo   ipotizzando una realtà strutturata su un numero di dimensioni maggiore rispetto alle tre che i nostri sensi ci fanno percepire; lo spazio viene incurvato dalla presenza della massa.
Inoltre, si stanno ottenendo le prime conferme sperimentali di alcune teorie annunciate da Einstein: al crescere della velocità, le lunghezze si accorciano, le masse aumentano, lo scorrere del tempo rallenta. Alla velocità della luce le distanze si annullano, le masse diventano infinite e il tempo si ferma. Tutto questo non è recepibile dalla ragione umana: è MISTERO.
Il passaggio dallamateria inerte alla vita.All’inizio del processo cosmico la terra era una palla infuocata  divenuta poi, raffreddandosi, un pianeta di materia inerte. La comparsa della vita e la conseguente evoluzione che è proseguita fino alla comparsa dell’uomo è certamente l’avvenimento che contrasta nettamente col Secondo Principio della Termodinamica (in natura, ogni sistema organizzato, lasciato libero a se stesso, tende a passare spontaneamente da uno stato di maggior ordine ad uno di maggior disordine). Nel nostro caso, si è passati dalla materia inorganica, bruta e poco o nulla organizzata, a forme di organizzazione sempre più sofisticate fino a giungere a quel meraviglioso strumento della coscienza e del pensiero che è il cervello dell’uomo. È stata calcolata la probabilità che dal caos abbia potuto svilupparsi l’essere umano: 1 su 10 elevato a 12 milioni (in altre parole una probabilità su 10 seguito da 12 milioni di zeri). La teoria, oggi dominante, del caso (il colpo di fortuna chimico) non spiega assolutamente nulla; è una ammissione di ignoranza: è una resa al MISTERO.
La riflessione non terminerebbe qui. La scienza ci propone altri misteri ai quali la ragione non sa dare risposte; il passaggio dalla vita naturale all’intelligenza, il passaggio dall’intelligenza alla creatività, alla morale ed alla spiritualità (i primati superiori non creano opere d’arte, non seppelliscono i loro morti).
Le domande che da esseri razionali ci poniamo alla luce del progresso scientifico si riducono, in fin dei conti, ad una sola: perché tutto ciò esiste?, perché al posto dell’universo non esiste invece il nulla?
Durante una conferenza al CERN di Ginevra il grande scienziato Stephen Hawking, dichiaratamente agnostico, ha terminato la sua presentazione proiettando sullo schermo un foglio bianco con due semplici domande:
– perché siamo qui?
– da dove veniamo?
Se si prendono sul serio queste domande non possiamo fare a meno di riflettere sulla nostra concezione dell’universo, della trascendenza, del nostro destino e del significato della vita.
Nel suo libro “Dio e gli astronomi” Robert Jastrow, fondatore ed ex-direttore del Goddard Institute of Space Studies della NASA, così conclude: «Lo scienziato che ha vissuto secondo la sua fede nella forza della ragione ha scalato l’alta montagna dell’ignoranza, raggiunge dopo molti sforzi l’ultima vetta e, quando approda all’ultimo picco, viene accolto da un folto gruppo di teologi che lo attendevano lì, festosamente seduti, da molti secoli».
Gianfranco Barbieri

NATALE 2014
I giorni
si fanno più brevi
più lunghe le notti:
avanza il solstizio
d’inverno.
Un pallido sole
prepara
la festa più dolce
dell’anno.
Supermercati
di doni
dal Babbo
vestito di rosso,
sotto un pino
ingioiellato.
Abbuffata
di auguri e sorrisi
al compleanno
di un Bimbo
abbandonato
in soffitta.
ROSELLA BARANTANI